JOBS ACT: È NECESSARIO UN CHIARIMENTO IN SENO AL GOVERNO

ALCUNE TENSIONI E INCOERENZE NELLA MAGGIORANZA NON POSSONO RIMANERE IRRISOLTE, SE VOGLIAMO CHE LA RIFORMA DEL LAVORO PROCEDA IN MODO RAPIDO E IN PIENA COERENZA CON GLI OBIETTIVI

Intervista a cura di Lorenzo Salvia, pubblicata sul Corriere della Sera il 27 dicembre 2014 In argomento v. anche Storia segreta articolo per articolo del contratto a tutele crescenti

 

ROMA «Certo che le nuove regole saranno applicabili anche ai dipendenti pubblici. Tanto è vero che, quasi all’ultimo momento, è stata cancellata la norma che ne prevedeva espressamente l’esclusione». Pietro Ichino, senatore di Scelta civica, è tra le poche persone che hanno vissuto dal di dentro la lunga trattativa sul Jobs act, prima come relatore al Senato del disegno di legge delega poi nell’elaborazione collettiva del primo decreto attuativo, quello sul contratto a tutele crescenti, approvato in consiglio dei ministri alla vigilia di Natale. La questione è tecnica e Ichino, da giuslavorista d’esperienza, entra nei dettagli: «Il testo unico dell’impiego pubblico stabilisce che, salve le materie delle assunzioni e delle promozioni, che sono soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato». Ma c’è chi, come il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia sostiene che gli statali sono esclusi, perché entrano per concorso e quindi seguono regole diverse: «Qualche volta – risponde lui – anche i ministri sbagliano: concorso non significa inamovibilità. E sbaglia chi ne voleva l’espressa esclusione, come la minoranza di sinistra del Pd e probabilmente anche qualcuno all’interno delle strutture ministeriali. Non si rendono conto che il contratto a tutele crescenti costituisce l’unica soluzione possibile per il problema del precariato, anche nel settore pubblico. Il precariato è l’altra faccia, strutturalmente inevitabile, dell’inamovibilità dei lavoratori di ruolo».

Nel suo blog Ichino scrive che servirebbe un chiarimento fra Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. E parla più volte di una «non identificata mano di estensore ostile alla riforma» alludendo a qualche tecnico del ministero di via Veneto. Perché Poletti ha cambiato linea in questi ultimi giorni? «Questo andrebbe chiesto a lui. Certo è che il 23 dicembre dal suo ministero è arrivata una bozza contenente, insieme ad altre cose incongruenti con la riforma, persino un drastico ridimensionamento della portata dello stesso decreto Poletti sui contratti a termine, emanato neanche nove mesi fa. Se non fossimo riusciti a sventare quella follia, essa avrebbe minato la credibilità di tutta la riforma, sottolineandone una volatilità a dir poco patologica». Se questo chiarimento non dovesse esserci Poletti dovrebbe dimettersi? «Non ho detto questo. Però, certo, il Governo non può permettersi incoerenze con il proprio programma. Tanto meno sulla riforma del lavoro e su quella delle amministrazioni pubbliche, che ne costituiscono una parte fondamentale sul piano economico e su quello politico, interno ed europeo».

Nel complesso Ichino dà al decreto approvato dal consiglio dei ministri un «sette» perché è un «passo avanti anche se non la riforma organica che avrebbe potuto essere». E, forse a sorpresa, insiste sull’opting out, cioè la possibilità per l’azienda di superare il reintegro disposto dal giudice in caso di licenziamento disciplinare illegittimo pagando un indennizzo più alto. «È sicuramente tramontata la sua versione caricaturale – spiega – che compariva nell’ultima bozza: un opting out che costi all’impresa quasi quattro anni di retribuzione non interessa a nessuno. Resta il fatto che, se vogliamo davvero allinearci agli altri Paesi che applicano, sia pur marginalmente ed eccezionalmente, la reintegrazione nel posto di lavoro, dobbiamo introdurre anche noi questa “valvola di sicurezza”, per evitare che si determinino alcune situazioni paradossali, oggi purtroppo assai frequenti nelle nostre cronache giudiziarie». Non basta, a suo giudizio, la nuova formulazione che stringe ancora di più la possibilità di reintegro e cioè il fatto che sia «direttamente» dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’applicazione pratica la spiega così: «Quando il lavoratore vince la causa per insufficienza di prove, è giusto che sia indennizzato. Ma gli indizi di colpevolezza che in questo caso pur sempre restano ben possono costituire una giustificazione oggettiva del fatto che l’impresa non rinnovi il proprio affidamento in lui». Niente reintegro, dunque, dice il decreto. Ma –  dice Ichino – in un Paese moderno i paradossi giudiziali vanno evitati anche nei pochissimi casi residui nei quali il reintegro potrà essere disposto.

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