STORIA SEGRETA, ARTICOLO PER ARTICOLO, DEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI

IL  DECRETO, NATO DA UN BRACCIO DI FERRO SENZA PRECEDENTI ALL’INTERNO DELLA STESSA COMPAGINE GOVERNATIVA, RICHIEDE ANCORA IMPORTANTI INTEGRAZIONI E CORREZIONI – NON È ANCORA LA RIFORMA ORGANICA, MA LA SVOLTA RISPETTO AL REGIME DI JOB PROPERTY C’È

Scheda tecnica sui contenuti dello schema del primo decreto legislativo (qui il testo) approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 dicembre 2014, in attuazione della delega conferita al Governo con la legge 10 dicembre 2014 n. 183.

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Campo di applicazione

L’articolo 1 dello schema di decreto ne definisce il campo di applicazione: è l’insieme dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti dopo la sua entrata in vigore, esclusa la categoria dirigenziale.

Il secondo comma prevede che, nel caso di imprese oggi non soggette all’articolo 18 St. lav. perché di dimensioni inferiori alla soglia, se la soglia verrà superata il nuovo regime si applicherà anche ai rapporti costituiti anteriormente. È questa una prima manifestazione inequivoca della tendenza espansiva del nuovo regime, nel quale il legislatore si propone di unificare progressivamente la generalità della forza-lavoro dipendente.

Questa prima norma definitoria, tuttavia, delude chi si attendeva già in questa sede la norma preannunciata dal Governo, volta a estendere selettivamente il campo di applicazione delle protezioni lavoristiche al di fuori dell’area del lavoro subordinato, dovunque si annidassero situazioni di lavoro in condizione di sostanziale dipendenza dal committente o creditore. Effettivamente, nulla avrebbe impedito, sul piano tecnico, che già questo primo decreto contenesse la norma definitoria del lavoro in situazione di dipendenza economica e almeno un inizio di espansione in quest’area delle protezioni essenziali. Nulla, se non il non possumus di un settore cospicuo della maggiorana e degli apparati ministeriali, che vedevano con diffidenza questo schema; e hanno preferito rinviare, confidando che sovente quod differtur aufertur.

Prima di chiudere sulla definizione del campo di applicazione, merita un breve commento un terzo comma, che ha fatto parte di questo primo articolo in bozza all’incirca fino alla mezzanotte fra il 23 e il 24 dicembre, per esserne poi espunto in extremis. Esso sostanzialmente escludeva l’impiego pubblico dall’applicazione della disciplina contenuta nel nuovo decreto, con ciò sostanzialmente riproducendo quella alterità tra disciplina del lavoro alle dipendenze di enti pubblici e disciplina del lavoro alle dipendenze di privati, che il Testo Unico contenuto nel d.lgs. n. 165/2001 aveva superato (tranne che per assunzioni e promozioni, per le quali nel settore pubblico vige il principio costituzionale del concorso). Soppresso per fortuna quell’inopportunissimo terzo comma, resta dunque in vigore la disposizione contenuta nell’articolo 2, comma 2, del Testo Unico del 2001, in virtù della quale dal momento dell’entrata in vigore del decreto tutte le nuove assunzioni a tempo indeterminato alle dipendenze dello Stato, delle Regioni, dei Comuni, o di altri enti pubblici, daranno vita a rapporti “a tutele crescenti”, assoggettati alla disciplina dei licenziamenti contenuta negli articoli 2 e seguenti di questo decreto. Questo semplificherà notevolmente il problema dell’assorbimento dei precari nelle amministrazioni pubbliche, perché verrà meno la remora all’assunzione a tempo indeterminato costituita dall’inamovibilità pressoché totale determinata fin qui dal combinato disposto dell’articolo 18 e delle regole sulla responsabilità erariale del dirigente, nel caso in cui il licenziamento da lui disposto venisse annullato dal giudice con reintegrazione del lavoratore e risarcimento del danno in suo favore. 

Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale

L’articolo 2 ha per oggetto la sanzione che colpisce il licenziamento nullo, comprendendosi in questa nozione non soltanto il licenziamento discriminatorio e ogni altro atto di recesso del datore che sia dettato da un motivo in sé illecito (per esempio: punire un dipendente che ha testimoniato contro l’impresa), ma anche il licenziamento intimato in forma orale (che i vecchi manuali qualificano come “inefficace”: ma l’inefficacia insanabile, effettivamente, coincide sostanzialmente con la nullità). Qui la sanzione resta quasi del tutto invariata rispetto al regime oggi vigente: reintegrazione nel posto di lavoro più risarcimento del danno retributivo e contributivo subìto per effetto del licenziamento fino alla sentenza, con un minimo di cinque mensilità e senza alcun tetto massimo. Come oggi, il lavoratore in questo caso gode della facoltà di optare per una indennità di 15 mensilità sostitutiva della reintegrazione (c.d. clausola di opting out asimmetrica, o unilaterale).

Il licenziamento per giustificato motivo e la nuova tutela di natura indennitaria

L’articolo 3 riguarda invece i licenziamenti che si pongono in contrasto con l’ordinamento non per il motivo che li determina, in sé lecito (aumentare la redditività o la produttività aziendale, dissuadere tutti i dipendenti dal venir meno ai loro obblighi contrattuali), ma per l’insufficienza o inidoneità del fatto, addotto come motivo, a giustificare il licenziamento, oppure per la mancata o insufficiente prova del fatto stesso in giudizio, il cui onere grava sul datore di lavoro. Qui sta il cuore della riforma. Il primo comma prevede che il giudice, qualora consideri comunque insufficiente il motivo (in sé legittimo) addotto a sostegno del licenziamento, condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, con esclusione della possibilità di reintegrazione.

Fino a tre o quattro giorni prima del 24 dicembre, dopo la menzione del giustificato motivo oggettivo compariva, nella bozza di questo primo comma, l’inciso “ivi compreso lo scarso rendimento”. La soppressione di questo inciso ha poi costituito moneta di scambio politico nella fase finale della negoziazione sui contenuti del decreto; ma essa è stata concordemente motivata – e la stessa motivazione è stata poi data dal Capo del Governo nella conferenza-stampa immediatamente successiva alla riunione del Consiglio dei Ministri – con la constatazione della piena convergenza tra dottrina e giurisprudenza nell’affermare che lo scarso rendimento può assumere rilievo sia come motivo disciplinare di licenziamento, quando vi sia ragione di ritenere che esso sia effetto di negligenza, sia come motivo oggettivo – economico, organizzativo – anche quando la negligenza non venga contestata (rinvio in proposito a Sullo scarso rendimento come fattispecie anfibia, suscettibile di costituire al tempo stesso giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento). L’inciso aveva dunque soltanto valore ricognitivo di una possibile rilevanza dello scarso rendimento anche soltanto sul piano economico e/o organizzativo, che non viene comunque meno per effetto della sua soppressione. Occorrerà però, a questo proposito, tenere ben presente la distinzione concettuale tra il puro e semplice scarso rendimento “oggettivo” e “l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, che costituisce oggetto del terzo comma di questo articolo, a proposito del quale si pone una questione molto delicata (v. in proposito infra).

L’indennità giudiziale e la “conciliazione standard”

L’importo dell’indennità cui il datore di lavoro può essere condannato in sede giudiziale per insussistenza o insufficienza del motivo, soggettivo od oggettivo, del licenziamento è pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro. L’importo dell’indennità giudiziale è dunque di quattro mensilità fino al termine del secondo anno di servizio, per poi crescere di due mensilità ogni anno che passa, fino al dodicesimo. In una bozza precedente questo importo mensile era stabilito in una mensilità e mezza, con un minimo di tre; l’aumento è il portato della intensa negoziazione sui contenuti del decreto tra componenti diverse della maggioranza e dello stesso partito di maggioranza relativa, svoltasi nel corso del mese di dicembre. Per qualche ora si era anche ipotizzato di applicare l’indennità di una mensilità e mezza per anno di anzianità nella fascia delle imprese con organico tra i 16 e i 200 dipendenti; ma questa soluzione è stata poi abbandonata – opportunamente, a mio avviso – per non rafforzare la caratterizzazione del nostro ordinamento giuslavoristico nel senso dell’incentivo al nanismo delle imprese. Meno opportuno mi sembra che nella fase iniziale del rapporto, quando l’incertezza circa la bontà della scelta della persona da parte dell’impresa è massima, l’assunzione a tempo indeterminato esponga il datore di lavoro, in caso di licenziamento precoce, al rischio di pagamento di quattro mensilità.

In realtà, però, il legislatore delegato punta a determinare una situazione nella quale il costo di separazione effettivo per l’impresa, nei casi ordinari di licenziamento per un giustificato motivo che presenti un minimo di opinabilità, si collochi a un livello pari alla metà rispetto all’indennizzo giudiziale stabilito dal comma 1 dell’articolo 3. Per ottenere questo effetto, l’articolo 6 del decreto – riprendendo uno schema introdotto nell’ordinamento tedesco dalla c.d. legge Hartz IV, entrata in vigore il 1° gennaio 2005 e coronata da successo nel suo primo decennio di applicazione, prevede che il datore di lavoro possa offrire al prestatore, entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, il pagamento a titolo conciliativo mediante assegno circolare di un importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione per anno di anzianità, con un minimo di due e un massimo di diciotto mensilità (qui la proporzione rispetto al tetto dell’indennità giudiziale avrebbe consigliato di indicare sedici mensilità come massimo; ma ha prevalso il riferimento al limite generale vigente in Germania). Per rendere più appetibile questa soluzione per il lavoratore, la disposizione prevede che la somma pagata per questo titolo sia esente da qualsiasi imposta e da ogni obbligo contributivo. Se il lavoratore accetta l’assegno, decade dall’impugnazione.

Sulla formulazione originaria di questa disposizione si è inserita la mano di un estensore evidentemente ostile allo schema tedesco della conciliazione standard, la quale ha – inspiegabilmente – appesantito e irrigidito le modalità in cui l’offerta può essere rivolta dal datore al prestatore di lavoro licenziato, prevedendo che questo possa avvenire soltanto in una sede sindacale, amministrativa o giudiziale, secondo quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 2113 cod. civ. e soltanto mediante offerta di un assegno circolare. Inspiegabilmente, perché la rinuncia a impugnare un licenziamento non costituisce rinuncia o transazione impugnabile a norma del suddetto articolo 2113; né si vede quale pericolosità sociale possa ravvisarsi nel pagamento eventualmente effettuato dal datore di lavoro in forma diversa dalla consegna di assegno circolare, per esempio mediante bonifico bancario.

La “ben delimitata fattispecie” di licenziamento disciplinare cui si applica la reintegrazione

Nel secondo comma viene definito – in ottemperanza a quanto precisamente stabilito nel comma 7 lettera c della legge-delega – l’insieme “ben delimitato” dei casi di licenziamento disciplinare illegittimo cui l’ordinamento ricollega in via dichiaratamente eccezionale l’annullamento del licenziamento stesso. Il requisito essenziale di questa “ben delimitata fattispecie” è che “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. L’avverbio “direttamente” è stato aggiunto nel corso della riunione del Consiglio dei Ministri (su proposta del suo Presidente, della cui genesi porto qualche responsabilità), con l’intendimento esplicito di sottolineare che il presupposto per la reintegrazione è costituito dal fatto che si sia raggiunta una prova piena diretta dell’insussistenza del fatto contestato: non basta che la decisione del giudice circa la radicale insussistenza del fatto contestato sia fondata su presunzioni. E soprattutto, non basta che la decisione del giudice si fondi sull’insufficienza della prova circa il fatto acquisita per documenti o per testimoni, ovvero sulla possibile sussistenza di un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del lavoratore: quando di questo si tratti, il lavoratore avrà diritto soltanto all’indennizzo giudiziale, secondo la nuova regola generale, ma non alla reintegrazione. Per comprendere bene la ratio di questa disposizione occorre considerare che nel giudizio su di una imputazione disciplinare il giudice applica lo stesso criterio che si applica in sede penale, per il quale l’imputato deve essere assolto anche quando la sua colpevolezza sia probabile, ma non del tutto certa. In casi come questo, viene meno il fondamento del licenziamento come sanzione, come “pena” inflitta; ma può non venir meno affatto il fondamento del licenziamento stesso come motivo obiettivo, perché non si può pretendere che l’impresa riconfermi la propria fiducia in un dipendente che è “probabilmente” (ancorché “non certamente”) colpevole. Rinvio, su questo punto, al caso presentato nella nota dell’ottobre scorso Il ragionevole dubbio sulla colpa e la ragionevole sfiducia che vi si accompagna.

Alle parole “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore” fa seguito, nella disposizione in esame, un inciso di significato non immediatamente chiaro: “rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. Questo inciso risponde all’intendimento del legislatore delegato di delimitare più nettamente l’area di applicabilità della sanzione reintegratoria, escludendone in modo esplicito le situazioni nelle quali il fatto contestato sussista, ma sia ritenuto dal giudice di per sé insufficiente a motivare un licenziamento: v. un caso di questo genere discusso nel novembre scorso nell’editoriale Davvero frodare l’azienda, se non è abituale, non giustifica il licenziamento? Un altro caso che ha sicuramente ispirato il legislatore delegato nell’inserimento di questo inciso restrittivo è quello dell’agente di polizia recentemente reintegrato nel suo posto di lavoro, nonostante che fosse risultato provato il furto imputatogli, solo in considerazione dell’esiguità della somma rubata (nel caso specifico: 80 euro).

Sulla base di tutto quanto ho osservato in questo paragrafo, mi sento di formulare la previsione che – essendo la regola generale della tutela indennitaria e l’eccezione della tutela reintegratoria formulate come sono qui formulate, si osserverà una drastica diminuzione del contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti, anche nel campo di quelli disciplinari, e lo schema della conciliazione standard incentivata fiscalmente finirà per imporsi, fornendo sostanzialmente una tariffa per la separazione tra impresa e lavoratore, un severance cost diffusamente accettato. Col risultato pratico della vera fine del regime di job property, strutturalmente generatore di dualismo fra protetti e non protetti.

La questione della clausola di opting out bilaterale

Credo di essere stato il primo, quando la Camera introdusse nel disegno di legge-delega l’indicazione nel senso della sanzione reintegratoria in alcune “fattispecie ben delimitate” di licenziamento disciplinare, a sostenere che sarebbe stato compatibile con quell’indicazione un decreto delegato che avesse previsto per quelle fattispecie la reintegrazione, ma al contempo avesse attribuito la facoltà di optare per l’indennità sostitutiva a entrambe le parti. Fondavo quell’affermazione anche sull’osservazione di quanto accade effettivamente in tutti i Paesi dell’occidente nei quali l’ordinamento conosce per alcuni casi di licenziamento gravemente illecito la sanzione della reintegrazione. Questa soluzione, nonostante fosse fortemente avversata dalla minoranza PD guidata dal Presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, è stata presa in serissima considerazione nel lungo lavoro di elaborazione e discussione della bozza di decreto sul contratto a tutele crescenti. Al punto che essa compariva ancora nella bozza su cui si è lavorato il 23 dicembre, il giorno prima del fatidico 24 dicembre, sia pure in forma indiretta: si prevedeva che, se l’ordine giudiziale di reintegrazione di cui al comma 2 dell’articolo 3 fosse rimasto inattuato entro un certo termine, il rapporto di lavoro si sarebbe automaticamente estinto e il datore di lavoro sarebbe stato obbligato a pagare al dipendente l’indennità sostitutiva. Avrebbe potuto essere una soluzione ingegnosa e accettabile almeno per una parte degli oppositori dell’opting out bilaterale. Senonché, al fine di rendere più costosa possibile questa opzione per l’imprenditore, il termine veniva fissato in sei mesi (durante i quali sarebbero decorse retribuzioni, relativi contributi e accantonamento del t.f.r.) e l’indennità veniva quantificata in 20 mensilità; col risultato che, sommando il risarcimento iniziale per le retribuzioni e contribuzioni perdute con il costo del semestre inutile e con l’indennità, si sarebbe arrivati a un costo pari a quasi quattro annualità di retribuzione annua lorda.

Ora, tenuto conto del fatto
– che oggi più di otto lavoratori su dieci che ottengono in giudizio la reintegrazione optano per l’indennità sostitutiva di quindici mensilità;
– che la forma di opting out del datore di lavoro sopra descritta avrebbe indotto gran parte di quegli otto lavoratori su dieci a non optare, aspettando con le mani in mano il decorso del semestre inutile e il pagamento delle venti mensilità (esito esattamente opposto a quello perseguito dal legislatore delegato);
– che la disposizione avrebbe fortemente rischiato di far risorgere l’idea folle della eseguibilità coattiva in forma specifica della sentenza di reintegrazione, per evitare la scadenza del termine semestrale;
– che, last but not least, in realtà la delimitazione dei casi di reintegrazione a seguito di licenziamento disciplinare operata nel secondo comma dell’articolo 3 risulta ora davvero rigorosa, molto restrittiva e difficilmente aggirabile (il vero problema ancora aperto, che andrà risolto con una modifica del decreto in seconda lettura, è quello della definizione chiara dell0 scarso rendimento e della inidoneità fisica o psichica che possono costituire motivo oggettivo di licenziamento ordinario: v. in proposito il paragrafo seguente);
tenuto conto di tutto questo, a me sembra che sia stato opportuno accettare l’eliminazione della clausola del semestre inutile. Questo non toglie che sarebbe molto meglio riconoscere anche al datore di lavoro la facoltà dell’opting out, e per questo sarà necessario continuare a battersi; ma a condizione che si tratti davvero di una facoltà simmetrica rispetto a quella attribuita al lavoratore, e non di un meccanismo infernale come quello che qualche “tecnico” anonimo aveva finito col proporre, al fine di dissuadere il più possibile i datori di lavoro dall’avvalersi di quella facoltà.

La questione dell’inidoneità fisica o psichica

Il terzo comma dell’articolo 3 commina la reintegrazione anche nel caso in cui il giudice accerti “il difetto di giustificazione per motivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”. Si è già detto – in riferimento al primo comma di questo articolo – del rilievo che, in conseguenza di questo terzo comma, assumerà la non sempre chiara linea di separazione tra scarso rendimento oggettivo e inidoneità fisica o psichica del lavoratore: ecco un punto sul quale la nuova normativa lascia spazio a notevoli incertezze circa l’interpretazione corretta, con il conseguente ampliamento dell’alea del giudizio, meritando pertanto una riconsiderazione in sede di seconda lettura, al termine della fase di esame parlamentare che ora si aprirà.

La questione dell’infermità temporanea

Una nota va riservata a una seconda parte del terzo comma, che è stata soppressa nel corso della riunione del Consiglio dei Ministri del 24 dicembre (ciò di cui porto personalmente una diretta responsabilità): essa comminava la reintegrazione anche per il licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore, prima della scadenza del periodo di comporto. La soppressione è stata – correttamente, a mio avviso – motivata in Consiglio dei Ministri con l’osservazione che, al di fuori delle “fattispecie disciplinari ben delimitate”,  la legge-delega prevede la reintegrazione soltanto per il licenziamento nullo, mentre per dottrina e giurisprudenza costanti il licenziamento in costanza del periodo di comporto è soltanto temporaneamente inefficace. Resta dunque inalterato il regime attuale, per il quale l’efficacia del licenziamento intimato prima della scadenza del termine resta sospesa fino alla scadenza stessa; se poi il lavoratore torna al lavoro prima che il termine scada, il licenziamento subisce la sanzione propria del motivo insufficiente o inesistente (art. 3 comma 1), ma non quella propria del motivo illecito (art. 2).

Vizi formali e procedurali

In questa materia l’articolo 4 ricalca la disposizione già contenuta nella legge Fornero (l. 28 giugno 2012 n. 92), comminando per le irregolarità formali o procedurali del licenziamento soltanto una sanzione indennitaria, ridotta rispetto a quella comminata dall’articolo 3 comma 1 per l’insufficienza o inesistenza del motivo: una mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di due e un massimo di dodici. A meno che “il giudice accerti […] la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3”: cioè che, denunciando il lavoratore un intento discriminatorio del datore, oppure un difetto di giustificato motivo, il giudice accerti la fondatezza della doglianza applicando rispettivamente la sanzione della reintegrazione, oppure quella dell’indennità di ammontare maggiore.

Licenziamento collettivo

L’articolo 10 conferma – in attesa del Testo Unico semplificato – l’applicabilità anche ai nuovi assunti delle regole procedurali e dei criteri di scelta che disciplinano i licenziamenti collettivi: materie, queste, che non si presterebbero a diversità di discipline sostanziali o procedurali tra vecchi e nuovi rapporti. Ma l’articolo 10 correttamente conferma anche l’applicabilità della sanzione indennitaria (e non di quella reintegratoria) in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta, quando a essere irregolarmente licenziati, nel quadro di una riduzione di personale, sono dipendenti assunti con il contratto a tutele crescenti. A compenso della tutela di natura indennitaria e non reintegratoria, questi lavoratori – a differenza degli ex-titolari di rapporti costituiti prima dell’entrata in vigore del decreto – si vedono attribuire dall’articolo 11 il diritto al contratto di ricollocazione (v. infra)

Si applica invece anche per i licenziamenti collettivi dei nuovi assunti la sanzione della reintegrazione nel caso di licenziamento orale.

Revoca del licenziamento

La disposizione contenuta nell’articolo 5 riproduce quella contenuta nel comma 10 dell’articolo 18 St. lav., come modificato dalla legge Fornero del 2012, che consente al datore di lavoro di evitare i costi della soccombenza in giudizio revocando il licenziamento entro quindici giorni dalla ricezione dell’atto di impugnazione da parte del lavoratore.

Segnalo una curiosità significativa dei lavori preparatori: in una bozza precedente a quella finale la stessa disposizione era formulata nei termini del richiamo esplicito del comma 10 dell’articolo 18, come direttamente applicabile anche nel contratto a tutele crescenti; si è preferito evitare questa formulazione per non contraddire l’intendimento del legislatore, nel senso del progressivo (ma in prospettiva integrale) superamento della vecchia norma.

Piccole imprese

Una manifestazione ulteriore, rispetto a quella già vista del comma 2 dell’articolo 1, della tendenza del nuovo ordinamento centrato sul contratto a tutele crescenti a un’applicazione universale è costituita dall’articolo 9 del decreto, che ne conferma l’applicabilità anche alle imprese cui oggi non si applica l’articolo 18 St. lav. per ragioni dimensionali, salvo dimezzare gli importi di tutte le indennità e fissarne un tetto a sei mensilità. In questo modo si punta a ottenere per queste imprese una situazione di minor costo medio di separazione, rispetto alla situazione attuale, considerato che oggi l’indennizzo minimo è di due mensilità e mezza.

Questa disposizione è molto importante, non tanto per la marginale flessibilizzazione del regime sanzionatorio applicabile alle piccole imprese rispetto alla disciplina attuale, quanto per il suo significato programmatico di cui si è appena detto, nel senso della tendenziale universalizzazione dell’ordinamento centrato sul contratto a tutele crescenti. Per questo motivo è – simmetricamente – preoccupante l’opposizione che a questa disposizione è venuta fino all’ultimo, contro questa disposizione, anche dall’interno del ministero del Lavoro, della quale hanno dato conto i commentatori più attenti nelle settimane scorse.

Organizzazioni di tendenza

Con lo stesso intendimento del comma 1, il comma 2 dell’articolo 9 estende sic et simpliciter il nuovo ordinamento del contratto a tutele crescenti alle organizzazioni di tendenza di natura non imprenditoriale, per le quali viene dunque meno – in riferimento ai nuovi rapporti – la peculiarità di disciplina rispetto alla generalità delle aziende. È questa una non trascurabile conferma dell’attitudine del nuovo ordinamento a superare vecchi dualismi e “balcanizzazione” delle tutele.

Contratto di ricollocazione

Se fin qui si è parlato della flex, l’articolo 11 del decreto ha per oggetto un capitolo di importanza cruciale della security: il contratto di ricollocazione costituisce lo strumento principale del sostegno offerto nel mercato al lavoratore che perde il posto nel nuovo sistema di protezione. Nulla vieta, ovviamente, che questo strumento venga posto a disposizione anche di lavoratori titolari di vecchi rapporti, come infatti sta avvenendo ad opera della Regione Lazio per la soluzione della crisi occupazionale di Alitalia, in sede di sperimentazione di questa forma di organizzazione dei nuovi servizi nel mercato, prevista dal comma 215 della legge 27 dicembre 2013 n. 147 (legge di stabilità 2014); ma le iniziative come questa sono per loro natura isolate e non costituiscono soddisfazione di un preciso diritto dei lavoratori coinvolti. La disposizione in esame, invece, attribuisce ai lavoratori ex titolari di un contratto a tutele crescenti un vero e proprio diritto al contratto di ricollocazione.

Questo diritto, inspiegabilmente, viene attribuito soltanto a chi abbia subito un licenziamento collettivo, oppure un licenziamento illegittimo; non si capisce perché debbano risultarne esclusi i lavoratori che hanno rinunciato a impugnare il licenziamento, a ciò fortemente incentivati dalle disposizioni di cui si è detto in tema di conciliazione standard (articolo 6), oppure quelli che stipulino con il proprio datore di lavoro una risoluzione consensuale del rapporto nell’ambito di una riduzione di personale. È questo un ulteriore punto del decreto che dovrà essere corretto in sede di seconda lettura, dopo il passaggio parlamentare.

I frequentatori di questo sito già conoscono da tempo i contenuti del contratto di ricollocazione e la nuova logica sottesa a questo istituto (per chi frequentatore del sito non è rinvio alla scheda tecnica Che cos’è il contratto di ricollocazione e, per l’ulteriore documentazione, al Portale dedicato a questo tema). In questa sede occorre soltanto osservare che, per imperscrutabili – o forse invece fin troppo facilmente individuabili e spiegabili – ragioni di ostilità a questo nuovo istituto, l’anonimo estensore ministeriale dell’ultima bozza del decreto ha amputato l’articolo 11 (13 in alcune bozze precedenti) di alcune disposizioni che completerebbero utilmente la disciplina legislativa della materia, e ne ha modificate alcune in modo da rendere pressoché impraticabile il nuovo strumento. Così, per esempio, si è previsto che sia a carico dell’agenzia specializzata scelta dal lavoratore tutta l’eventuale attività di formazione o riqualificazione professionale, che invece esorbita dal servizio socialmente tipico dell’outplacement, oggetto del contratto di ricollocazione, dovendo essere di norma finanziata altrimenti e affidata a operatori diversi. Inoltre si è previsto che l’intero ammontare del voucher sia suscettibile di essere riscosso dall’agenzia specializzata solo a risultato ottenuto, mentre i primi accordi che vengono stipulati tra Regioni e agenzie accreditate prevedono opportunamente che un quinto circa dell’ammontare complessivo del voucher sia pagato come quota fissa a compenso delle attività iniziali di “bilancio delle competenze” e impostazione del rapporto fra job advisor e lavoratore interessato, mentre soltanto i restanti quattro quinti verranno pagati a reinserimento del lavoratore ottenuto: soluzione, questa, più equa, tenuto conto della possibilità – almeno in una prima fase – che un numero elevato di lavoratori si riveli inizialmente riluttante a impegnarsi nei percorsi necessari per la ricollocazione. Ecco un altro punto che dovrà essere corretto in sede di seconda lettura del decreto da parte del Governo.

Due articoli soppressi, in materia di contratti a termine e di soppressione di tipi contrattuali

Il 23 dicembre la bozza predisposta dal ministero del Lavoro per essere presentata al Consiglio dei Ministri il giorno dopo era stata inopinatamente arricchita di due articoli. Uno di essi era mirato a modificare incisivamente la disciplina dei contratti a termine contenuta nel decreto Poletti del marzo scorso, tra l’altro riducendo da 36 a 24 mesi il periodo di durata complessiva massima dei rapporti a tempo determinato; sarebbe stata, questa, una singolare proposta da parte del ministro, che avrebbe lanciato un messaggio rovinoso agli investitori economici: “non fidatevi delle nostre nuove leggi, perché entro la fine dell’anno potremmo decidere di cambiare strada, di tornare indietro”. L’altro articolo era dedicato – niente meno – a sopprimere di netto i contratti di associazione in partecipazione, di lavoro intermittente e di lavoro ripartito (il c.d. job sharing): con la conseguente prevedibilissima perdita di decine di migliaia di posti di lavoro soprattutto nei settori del commercio, del turismo e dello spettacolo. Per fortuna nel corso della nottata i due articoli, al pari della norma che pretendeva di escludere dal contratto a tutele crescenti l’intero settore pubblico, sono stati defalcati prima ancora della presentazione del testo legislativo al Consiglio dei Ministri; ma la negoziazione fino all’ultimo istante del testo legislativo ha finito col causare la mattina del 24 un ritardo di tre ore nell’inizio della riunione del Consiglio dei Ministri.

Considerazioni conclusive

Nelle ultime settimane è apparsa chiara una cosa singolare: il ministero (o il ministro stesso?) del Lavoro non condivideva le linee fondamentali della politica del lavoro del Governo. Si adoperava per ridurre significativamente l’incisività della riforma più importante nel suo programma, in alcuni casi addirittura per destrutturarla dall’interno. Contrapponeva una propria bozza di decreto a quella costruita sui punti fondamentali indicati da Palazzo Chigi e dal ministro dell’Economia. Alla fine è stata solo la determinazione del Capo del Governo che ha consentito di sventare gli attentati più pericolosi alla coerenza del disegno, uno per uno. Donde una domanda: non sarebbe urgente che premier e ministro del Lavoro, approfittando delle feste di fine anno, avessero tra loro un chiarimento approfondito, per evitare che anche sui prossimi decreti – e in particolare su quello che avrà per oggetto il Codice semplificato: rinvio al mio editoriale telegrafico di lunedì scorso – si ripeta il braccio di ferro estenuante che ho sopra descritto?

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