REPLICA AL PRESIDENTE EMERITO DELLA CASSAZIONE SULLA RIFORMA DEL LAVORO

COLPISCE LA PUNTIGLIOSA RICERCA DI PROFILI DI INCOSTITUZIONALITÀ DELLA RIFORMA IN CORSO DI EMANAZIONE, SENZA ALCUN CENNO CRITICO CIRCA I GRAVI PROFILI DI CONTRASTO CON I VALORI COSTITUZIONALI DELL’ORDINAMENTO ATTUALE, ESSO SÌ PRODUTTIVO PER SUA NATURA DI DUALISMO TRA PROTETTI E NON PROTETTI

Osservazioni critiche sull’intervista a Michele De Luca, a cura di Dario Ferrara, pubblicata il 15 dicembre 2014 sul sito Cassazione.net sotto il titolo De Luca: “Con le tutele crescenti dualismo vecchi-nuovi assunti. Articolo 18, vizio di fondo sulla reintegra”  – 20 dicembre 2014..

 

L’ex-presidente della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, intervistato da Cassazione.net, esprime un giudizio fortemente critico sulla legge-delega 10 dicembre 2014 n. 183.

Il primo argomento su cui questo giudizio critico si fonda è quello del “nuovo dualismo” tra lavoratori assunti prima e dopo l’entrata in vigore del decreto delegato che recherà la nuova disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Michele De Luca vede cioè, innanzitutto, un aspetto di incostituzionalità nella differenza di disciplina che si determinerà tra i vecchi rapporti e i nuovi. Senonché la Corte costituzionale ha sempre ammesso che una determinata nuova disciplina si applicasse ai contratti di un certo tipo – per esempio: contratti di locazione di immobili a scopo abitativo – stipulati da un certo momento in avanti, e non ai contratti dello stesso tipo stipulati anteriormente. La Corte ha dunque pacificamente ritenuto costituzionalmente ammissibile che in un determinato momento convivessero vecchi contratti (di locazione, in quel caso) regolati in un modo e nuovi contratti dello stesso tipo regolati diversamente. Colpisce, per altro verso, che l’ex presidente della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione non attribuisca alcun valore, proprio sul piano dei valori costituzionali, al fatto che questa riforma avvii il sistema a un superamento relativamente rapido del vecchio dualismo, puntando in modo efficace a un drastico aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato sul totale delle assunzioni: se le cose andranno come si spera,
a) per effetto della nuova normativa combinata con gli incentivi economici la quota attuale del 15 per cento di nuovi contratti di lavoro stipulati a tempo indeterminato, rispetto al flusso complessivo delle assunzioni, si raddoppierà nel primo anno e si triplicherà nei due successivi;
b) con l’unificazione qualitativa del regime applicabile ai nuovi assunti sopra e sotto la soglia dei 15 dipendenti si porranno le premesse indispensabili per il superamento graduale, in una seconda fase, della differenziazione quantitativa della protezione della stabilità in relazione alle dimensioni aziendali.

L’intervistato appunta poi la sua critica su di una scelta del legislatore delegato, in materia di licenziamenti disciplinari, che è stata preannunciata da notizie di stampa in realtà non fondate: la scelta, cioè, di riservare la reintegrazione al solo caso di dimostrata insussistenza di un fatto contestato “costituente reato”. In realtà la reintegrazione sarà riservata soltanto ad alcuni casi nei quali il legislatore ravvisa un livello più grave di antigiuridicità (non del fatto contestato al lavoratore, ma) del comportamento del datore di lavoro, come nel caso del licenziamento discriminatorio o del licenziamento disciplinare calunnioso. Rientra, poi, tra le scelte che il Governo sta vagliando anche quella di riservare la reintegrazione al solo caso di “insussistenza positivamente dimostrata del fatto materiale contestato al lavoratore”: in questo caso verrebbe escluso dalla reintegrazione il caso del lavoratore assolto sul piano disciplinare per insufficienza di prove. Questa scelta si giustificherebbe facilmente, sul piano costituzionale, con questa considerazione: non si può imporre a un’impresa di confermare la propria fiducia a un dipendente a carico del quale non è risultata pienamente dimostrata la colpevolezza, ma sussistono pur sempre indizi rilevanti di colpevolezza (v. Il ragionevole dubbio sulla colpa e la ragionevole sfiducia che ne consegue).

L’alto magistrato giuslavorista sostiene poi che la legge-delega consentirebbe di ridisegnare (per i nuovi rapporti) soltanto l’apparato sanzionatorio, ma non la nozione di giustificato motivo di licenziamento: onde sarebbe inibito al legislatore delegato di intervenire per chiarire, o ancor peggio modificare, il contenuto di questa nozione. Ma l’incarico di ridisegnare l’apparato sanzionatorio implica evidentemente la possibilità che il legislatore delegato distingua tra motivi del licenziamento che possono dar luogo a una sanzione e motivi che possono dar luogo a un’altra. Così, per esempio, rientra sicuramente nella delega il chiarire che cosa debba intendersi per “licenziamento economico”, o “per motivo oggettivo”, e quindi anche di chiarire che – come è da sempre riconosciuto in giurisprudenza e dottrina – lo scarso rendimento può costituire al tempo stesso un motivo oggettivo di licenziamento e/o un motivo di natura disciplinare. Con conseguente facoltà del datore di lavoro di far valere l’eventuale profilo della colpa del lavoratore, al fine di esimersi dal pagamento dell’indennizzo, oppure di far valere soltanto il profilo oggettivo della perdita attesa conseguente al difetto di rendimento del dipendente rispetto allo standard normale dei lavoratori di pari qualifica.

L’intervista prosegue con questa domanda dell’intervistatore: “per la Costituzione il lavoro è un diritto: si può barattare un diritto con un incentivo economico?“. Qui mi sarei atteso che l’alto magistrato correggesse l’intervistatore, ricordandogli che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 46/2000, ha sancito la piena compatibilità della sanzione indennitaria in materia di licenziamento con il principio del “diritto al lavoro” di cui all’articolo 4 della Carta. Ricordandogli, altresì, che se così non fosse avrebbe dovuto considerarsi fin qui costituzionalmente illegittima la disciplina dei licenziamenti nelle imprese di piccole dimensioni, la cui legittimità costituzionale è invece stata più volte confermata dalla stessa Corte. Invece l’intervistato si limita a considerare la scelta compiuta con la legge n. 183/2014 come frutto di “un compromesso tra forze politiche pro-labour e forze pro-business”, reso inevitabile dal carattere composito della maggioranza che sorregge il Governo in questa legislatura. Non lo sfiora il dubbio che il regime ispirato al principio della job property, quindi incentrato sulla sanzione della reintegrazione del lavoratore nel suo posto, possa essere un regime intrinsecamente, per sua stessa natura, produttivo di dualismo nel mercato del lavoro tra i core workers che possono esserne protetti e i peripheral workers che necessariamente ne sono esclusi, perché sono quelli che devono sopportare tutte le fluttuazioni della domanda e gli shocks economici.

Quanto al Codice semplificato, l’intervistato non manca, poi, di ammonire severamente che la delega avente per oggetto un “testo unico” non può comportare modifiche nel contenuto delle norme, salve le modifiche espressamente specificate nella delega stessa, in materia di mutamento di mansioni e di controlli a distanza. In realtà, la delega contenuta nel comma 7 dell’articolo unico della legge n. 183/2014 non ha per oggetto soltanto un intervento di carattere compilativo, bensì un intervento volto a una drastica semplificazione della disciplina legislativa dei rapporti di lavoro, con espressa menzione della necessità di coerenza con il diritto europeo, di riduzione degli oneri “diretti e indiretti” che gravano sul contratto di lavoro a tempo indeterminato (lettera b), nonché dell’“abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative”  (lettera i).  È dunque chiaro che le modifiche più incisive, rispetto alla vecchia disciplina, saranno quelle inerenti a mutamento di mansioni, controlli a distanza e contemperamento tra esigenze produttive e diritti di riservatezza personali; ma anche negli altri capitoli della disciplina dei rapporti di lavoro dovrà essere operata una riscrittura volta al tempo stesso alla semplificazione, all’armonizzazione con il diritto europeo, al superamento delle disposizioni generatrici di contenzioso o di difficoltà applicative. Non mi spiego perché il presidente De Luca ritenga di dover dare una lettura della delega che oblitera del tutto questo rilevantissimo contenuto della delega.

Questo mi colpisce molto nell’intervista all’ex-presidente della Sezione Lavoro della Cassazione: la tendenza pregiudiziale a ridurre le potenzialità della riforma, come se l’ordinamento attuale costituisse un bene in sé da conservare il più possibiler; la ricerca attentissima di tutti i possibili profili di incostituzionalità della riforma, senza alcun cenno critico circa i gravissimi profili di contrasto con i valori costituzionali di un ordinamento protettivo, quale quello oggi in vigore, che per sua natura taglia fuori metà della forza-lavoro, discrimina pesantemente tra i lavoratori sul piano dei trattamenti di disoccupazione, è fonte di rendite di posizione da un lato, di esclusione permanente dall’altro.  E di fatto priva tutte le persone che vivono del proprio lavoro dei servizi indispensabili nel mercato per trovarlo, quando non si dispone delle reti amicali, parentali e professionali con cui in Italia oggi il lavoro normalmente si trova.

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