IL PASSAGGIO DA UN ORDINAMENTO FONDATO SULLA JOB PROPERTY A UNO FONDATO SULLA FLEXSECURITY È PIENAMENTE COMPATIBILE CON LA COSTITUZIONE ITALIANA – MA ABBIAMO BISOGNO ANCHE DI UNA LEGISLAZIONE DEL LAVORO PIÙ SEMPLICE, CHIARA E MENO INTRUSIVA, PRODUTTIVA DI UN MINOR VOLUME DI CONTENZIOSO
Intervista a cura di Massimo Bornengo, 17 dicembre 2014, destinata al volume Art. 18 – La risoluzione del rapporto di lavoro dalla riforma Fornero al Jobs Act, in corso di pubblicazione per iniziativa dell’Unione Indutriale di Latina presso l’Editore Franco Angeli – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico per la Nwsl n. 325, del 22 dicembre 2014, Per il Codice semplificato occorre un metodo nuovo
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La delega al Governo in materia del lavoro, capitolo centrale del c.d. Jobs Act, contempla la modifica di numerosi istituti, la riforma degli ammortizzatori sociali dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, compreso il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva; una delega che possiamo definire molto ampia. Professor Ichino, ritiene che ci troviamo di fronte ad una vera rivoluzione del diritto del lavoro?
Rivoluzione è un termine un po’ troppo enfatico, e forse anche talora abusato. Mi sembra più appropriato, ma al tempo stesso più incisivo e preciso, dire che con questa legge l’ordinamento italiano dà l’addio al regime centrato su di un principio di job property, ispirato al modello del vecchio impiego pubblico, per porre al centro il principio della flexsecurity. Che significa coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale delle persone. Una sicurezza che, ovviamente, non può più essere costruita sull’ingessatura del singolo posto di lavoro, ma su di un sistema moderno di sostegno del reddito in caso di perdita del lavoro e su di una assistenza efficace nella ricerca del nuovo posto di lavoro.
Pensa che avremo tempi lunghi per i decreti attuativi, ovvero, per vedere operativa la riforma ?
I primi due decreti dovrebbero entrare in vigore già in gennaio. Gli altri quattro – ivi compreso quello che conterrà il nuovo Codice semplificato del lavoro – non possono entrare in vigore dopo l’11 giugno 2015, perché la legge-delega stessa fissa questo termine.
La legge delega non solo è molto ampia, in quanto contempla molti istituti, ma anche molto generica. L’estrema genericità del principio di delega concede a nostro giudizio, al Governo, o meglio al Ministero del Lavoro, una estesa discrezionalità nella determinazione del contenuto della nuova legislazione del lavoro: rischio di incostituzionalità per difetto di principi direttivi abbastanza precisi?
Nell’ultimo mezzo secolo la Corte costituzionale ha ritenuto compatibili con il requisito della determinatezza dell’oggetto leggi-delega molto più generiche di questa. Non credo proprio che si porranno problemi di costituzionalità sotto questo profilo. Anche perché il principio fondamentale, che emerge con molta chiarezza dalla legge 10 dicembre 2014 n. 183, è quello del passaggio da un regime centrato sulla job property a un regime centrato sulla flexsecurity: su questo punto la nuova legge è inequivoca.
Non c’è il timore di una “concorrenza” nel mercato del lavoro tra apprendistato e il contratto a tutele crescenti?
Non lo vedo come un timore: sia il contratto a tempo indeterminato sia l’apprendistato devono riguadagnare molto terreno rispetto al contratto a termine, che oggi costituisce la figura dominante nelle nuove assunzioni, dove essa occupa due terzi del flusso: c’è ampio spazio per entrambi i “contendenti”, oggi relegati rispettivamente a un sesto del flusso e a un cinquantesimo. Del resto, quello della concorrenza è sempre un metodo migliore rispetto alle scelte obbligate.
Per i nuovi contratti a “tutele crescenti” viene superata definitivamente la possibilità di reintegrazione per i licenziamenti determinati da ragioni economiche e/o organizzative: non teme l’intervento della Corte Costituzionale?
No: la Corte si è già pronunciata, con l’importante sentenza n. 46/2000, nel senso della piena compatibilità con il dettato costituzionale sia dell’apparato sanzionatorio basato sulla c.d. “tutela reale” sia dell’apparato basato sulla c.d. “tutela obbligatoria”. Se non fosse così, l’intero ordinamento in materia di licenziamento applicabile nell’ultimo quarto di secolo nelle imprese di piccole dimensioni avrebbe dovuto essere considerato incostituzionale.
Cosa succederà nelle aziende sotto i 16 dipendenti? Sarà anche a loro applicata la nuova disciplina delle “tutele crescenti” con il rischio di rendere più gravoso per queste aziende l’istituto del licenziamento?
Se – come mi sembra auspicabile – la scelta sarà nel senso di applicare anche ai nuovi rapporti costituiti nelle piccole imprese il nuovo regime, con indennizzi dimezzati e conservando il tetto delle sei mensilità, non ne deriverà affatto una maggiore rigidità della disciplina dei licenziamenti in questo settore. Al contrario, nei primi anni del rapporto l’indennizzo si ridurrà rispetto al minimo attuale, pari a due mensilità e mezza. Inoltre si applicherà anche in questo settore una nuova definizione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, più precisa rispetto a quella in vigore da mezzo secolo, che determinerà una minore alea del giudizio.
Effettivamente, le aziende chiedono a gran voce certezza nelle conseguenze dei licenziamenti, meno discrezionalità nella interpretazione della norma da parte dei giudici per evitare quelle insicurezze e contrastanti sentenze che si sono verificate nel nostro Paese. Lei ritiene davvero che le cose cambieranno in questo senso?
Innanzitutto si ridurrà il tasso del contenzioso in materia di lavoro. Oggi questo tasso in Italia è molto superiore rispetto agli altri maggiori Paesi europei, anche per un eccesso di giuridificazione del rapporto di lavoro, e per l’adozione di tecniche normative che sembrano fatte apposta per attribuire ai giudici del lavoro un ruolo centrale nella gestione del rapporto. Le nuove tecniche normative applicate nel Codice semplificato tenderanno, all’opposto, a rendere la disciplina della materia al tempo stesso meno intrusiva e strutturata in modo da ridurre l’alea dell’eventuale giudizio, con la conseguenza immediata di ridurre il tasso di contenzioso.
È prevedibile che il Sindacato farà di tutto per sabotare i decreti delegati facendo impugnare in giudizio dai propri iscritti questa o quella norma?
Va detto innanzitutto che c’è sindacato e sindacato: la Cisl non si è messa di traverso rispetto a questa riforma; e anche la Uil, che oggi si è affiancata alla Cgil nello sciopero, tre anni fa per bocca del suo segretario generale Angeletti ha dato pieno appoggio al progetto cui la riforma oggi si ispira. Per altro verso, va considerato che gli iscritti al sindacato oggi, quando non sono pensionati, sono quasi tutti dipendenti stabili di imprese di dimensioni medio-grandi. A loro, dunque, la nuova disciplina dei licenziamenti non si applicherà, essendo riservata soltanto ai rapporti di nuova costituzione; non ci sarà dunque materia per l’apertura di un contenzioso particolarmente vivace da parte loro. Con questo non voglio dire che non ci sarà qualche tentativo di ostruzionismo giudiziario; però credo che la svolta culturale portata da questa riforma finirà coll’essere fatta propria anche dalla magistratura del lavoro.
La riforma produrrà occupazione?
Indirettamente sì. Innanzitutto perché allineerà il nostro ordinamento ai migliori standard europei, per quel che riguarda forma e contenuto della disciplina del lavoro, così eliminando uno degli ostacoli all’ingresso delle multinazionali nel nostro Paese; a rimuovere un altro ostacolo, quello costituito dal cuneo fiscale e contributivo, provvede la legge di stabilità 2015. Ma la riforma favorirà l’aumento dell’occupazione anche perché un tessuto produttivo e un mercato del lavoro più fluidi consentono e stimolano una migliore allocazione delle risorse umane e un più rapido aggiustamento degli organici nelle aziende: entrambi fattori di aumento della produttività e quindi della competitività delle imprese. Maggiore competitività vuol dire aumento delle commesse e quindi anche della domanda di lavoro.
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