PREOCCUPA GLI OSSERVATORI STRANIERI, E NON SOLO LORO, UN VISTOSO ALLENTAMENTO DELL’ATTENZIONE POLITICA SULLA NECESSITÀ URGENTE DI RIDURRE LA SPESA PUBBLICA, PARTENDO DAGLI ENORMI SPRECHI FACILMENTE INDIVIDUABILI
Fondo di Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera del 12 dicembre 2014.
Nella bozza inviata a Bruxelles, la legge di Stabilità è presentata come strumento «per la crescita»: meno pressione fiscale su imprese e famiglie e dunque – si spera – più investimenti, consumi e posti di lavoro. Le cifre confermano che stavolta l’impegno del governo è significativo: 36 miliardi fra entrate ed uscite. L’Irap e i contributi sociali per i neo-assunti (a tempo indeterminato) scenderanno. Il bonus di 80 euro sarà confermato, mantenendo le promesse fatte a maggio. I lavoratori che lo vorranno potranno attingere da subito a una quota del Tfr. Per la prima volta, poi, si concede un po’ di respiro fiscale a quel milione circa di «partite Iva» senza le quali interi settori produttivi sarebbero già scomparsi.
Non sono previsti tagli diretti alla spesa sociale. Anzi, ci saranno risorse aggiuntive per gli ammortizzatori, la famiglia e la scuola. Qui l’intento è virtuoso, ma tutto dipenderà da come i soldi verranno spesi. Colpisce l’inadeguatezza dei fondi destinati al contrasto alla povertà, nonostante le esortazioni a fare di più su questo fronte ricevute a giugno proprio dalla Ue.
Le coperture sono il punto più debole della manovra. Non solo (e forse non tanto) per gli 11 miliardi di maggior deficit, ma per l’aleatorietà di molti dei tagli previsti. Quella spending review che doveva dare inizio ad una incisiva razionalizzazione dell’intero settore pubblico ha partorito una covata di sfuggenti topolini. Ci sono alcuni tagli lineari, una gran quantità di microriduzioni, blocco generalizzato dei contratti nel pubblico impiego, tetti a Regioni ed Enti locali (sui quali si sta originando una spirale di polemiche: come spesso succede, la verità sta nel mezzo). Sicuramente la scure eliminerà varie spese inutili. Non c’è però stata una svolta nell’individuazione di inefficienze e sprechi, andando alla radice dei problemi. Inoltre molti dei provvedimenti di riduzione della spesa non saranno immediatamente esecutivi. Come al solito, richiederanno quella catena di misure attuative e «concerti fra ministeri» che hanno già affossato molte passate riforme.
Come reagirà l’Unione europea? Non è da escludere che la Commissione s’impunti (a questo punto assurdamente) su una questione di decimali. È possibile però che le perplessità Ue siano legate più alla bassa credibilità delle politiche italiane che ai livelli di deficit e debito. Senza nulla togliere alle capacità del ministro Padoan, fra lo smilzo documento in inglese presentato a Bruxelles e la disordinata bozza in italiano uscita dal Consiglio dei ministri c’è un divario preoccupante.
I documenti degli altri Paesi sono molto più ricchi di dettagli e valutazioni, i loro impegni risultano così più affidabili. Sul versante della «serietà», Matteo Renzi ha ancora molto lavoro da fare. Non solo per convincere l’Europa a concedere maggiore flessibilità, ma anche per garantire ai cittadini effettività ed efficacia dell’azione di governo. Condizione necessaria affinché le norme di legge abbiano un qualche impatto sulla realtà, nella direzione auspicata.
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