SVEGLIARSI UNA MATTINA CON UN OCCHIO FUORI USO E ACCORGERSI DI QUANTO LA VISTA È UN DONO FRAGILE E PREZIOSO
Racconto dal vivo, 13 dicembre 2014 (S. Lucia).
Immaginate di svegliarvi una mattina, recarvi con gli occhi ancora semichiusi dal sonno a raccogliere il giornale sullo zerbino della porta di casa, dare un’occhiata ai titoli della prima pagina e non riuscire a leggerli perché lettere e immagini vi appaiono mescolate come in un’insalata russa. È quello che mi è accaduto ai primi di novembre a causa – ma questo lo ho saputo dopo, dall’oculista – di un improvviso buco che si era formato nella retina del mio occhio destro. Più precisamente nella macula, che ne costituisce la parte centrale e più importante per l’acume della vista.
L’esame strumentale dà un esito preoccupante: il foro è al quarto stadio, cioè ha un diametro molto ampio. Occorre intervenire d’urgenza per una sorta di rammendo di questa membrana ultrasottile; ma con un foro così la probabilità di successo dell’operazione non è superiore al 50 per cento. Di colpo mi scopro a volere un gran bene al mio occhio sinistro. E incomincio ad abituarmi all’idea che d’ora in poi vedrò solo con quello. Gli oggetti mi appaiono più piccoli; perdo la terza dimensione, la profondità, al punto che la mia mano non incontra quella di chi mi tende la sua per una stretta o per porgermi un oggetto; ho difficoltà a versare con una sola mano l’acqua dalla bottiglia centrando il bicchiere; afferro le cose male. Ma con l’abitudine le cose miglioreranno.
Fra due settimane incomincia la discussione della riforma del lavoro in Senato, dove sarò relatore sul provvedimento; ma rimandare il rammendo della retina a dopo non si può. Ok per lunedì prossimo, dunque, sperando che una settimana basti per poter tornare in pista; e per poterci tornare in condizioni compatibili con quel passaggio impegnativo. Esami preparatori: tutto il resto per fortuna è a posto. Arriva il giorno dell’operazione; so che va fatta, ma non voglio caricarla di attese indebite. Vado alla sala operatoria con l’idea di compiere un atto dovuto, ma che non risolverà gran che. Mi sveglio dall’anestesia con l’occhio bendato e mi rallegro che il mondo resti, tutto sommato, abbastanza ben visibile con l’altro. Il chirurgo ha ricomposto i lembi della macula e li ha tamponati con una bolla di gas che li mantiene in posizione. Ora, per una settimana dovrò tenere la testa china, cercare di non guardare mai verso l’alto, dormire il più possibile bocconi, in modo che il gas comprima la retina rammendata facendo rimarginare la ferita. I punti di sutura che chiudono i tre fori praticati dal chirurgo nell’occhio danno noia, sotto la palpebra, ma è un fastidio sopportabile, che si riduce mettendo una pomata.
Passata la prima settimana, la prescrizione sarebbe di togliere la benda e tenere l’occhio operato il più possibile aperto. Ma è molto fastidioso, perché il gas crea una cortina impenetrabile che si sovrappone a quel che vede l’occhio sano, annebbiando tutto. Leggere e scrivere, poi, è impossibile: per riuscirci non posso fare a meno di chiudere l’occhio inutile per impedirgli di essere pure dannoso. Ma anche così la fatica è notevole: non riesco a stare al computer più di un’ora di seguito. Quando incrocio una persona in un corridoio, o in un luogo affollato, rischio di urtarla. Guidare l’auto non se ne parla proprio. Cerco di convincermi che col tempo le cose andranno meglio, l’occhio sano si abituerà. Ma quando sono solo, a casa, mi scopro a chiudere anche quello per immaginare la mia vita se si spegnesse come l’altro: penso a una vecchiaia fatta per la maggior parte di musica, di radio, di scacchi giocati a memoria. Mi preoccupa l’idea di non vedere i miei capelli in disordine e le macchie sui vestiti, di poter apparire trasandato: chiederò a chi mi sta intorno di aiutarmi a evitarlo. Mi incuriosisce il grande mondo dell’associazionismo dei non vedenti: mi prefiguro che possa essere una esperienza nuova e importante.
La seconda settimana senza benda è la più difficile, perché è quella del dibattito in Aula sulla riforma del lavoro. Tutto viene ripreso dalle tv: non voglio comparire con l’occhio bendato o chiuso mentre leggo la relazione, faticosamente negoziata parola per parola con il Gruppo PD. Trovo la soluzione di stamparla in corpo 16, in una colonna poco più larga di mezza pagina in modo che l’occhio buono non debba fare troppo avanti-indietro. Ma poi ci sono le due giornate di dodici ore ciascuna, nelle quali devo prendere appunti su ciascun intervento e preparare la replica finale. Una prova molto faticosa. Mi scopro a pensare che, se a un certo punto non vedrò più, sarà giustificato sottrarmi a queste fatiche.
Intanto, la bolla di gas che tampona la retina ha incominciato a ridursi: soprattutto quando mi chino in avanti vedo comparire sopra la lente grigio-verde una lunetta attraverso la quale, chiudendo l’occhio sinistro, posso intravedere qualcosa del mondo circostante. Dunque l’occhio destro c’è ancora! Ma anche nella lunetta la vista è molto appannata. Chiedo al chirurgo come sia possibile che il gas stia in basso; mi spiega che l’occhio è come una macchina fotografica, nella quale l’immagine si imprime rovesciata sulla pellicola e viene poi raddrizzata dal cervello: la bolla di gas, in realtà, sta in alto, ma a me appare il contrario perché per qualche strano motivo il cervello quella non la raddrizza.
È solo alla fine della terza settimana che la bolla si riduce a metà. In una domenica di sole mi sveglio con la sensazione che gli oggetti intorno a me si siano di nuovo ingranditi e che il mondo circostante sia tornato a tre dimensioni. Chiudo l’occhio sano e mi accorgo che continuo a vedere abbastanza bene. Dunque anche il secondo occhio sta tornando a funzionare quasi normalmente. Forse non perderò questo bene prezioso, potrò continuare a vedere quanto è bello il creato. E al creato stesso – poiché del creatore non mi è data altra percezione o conoscenza – rivolgo il mio ringraziamento gratissimo dal profondo del cuore. Guardo le nubi bianche contro il cielo azzurro, mi sembra che nulla di più bello possa essere guardato da occhio umano. E ripenso con stupore a quella membrana sottilissima capace di tradurre i raggi di luce in segnali per il cervello, che li trasforma in immagini: un prodigio ineguagliato di tecnologia ottica. Prodotto dell’evoluzione della specie? Sì, certo; ma mi è difficile concepire che un apparecchio di tanta complessità e perfezione tecnica possa essere frutto del caso, essere prodotto soltanto dal meccanico succedersi – sia pure per milioni di volte – di generazioni di organismi viventi.
La bolla si riduce ancora. Ora se tengo la testa diritta si riduce a una lunetta trasparente, in basso; si deforma quando mi muovo, ma non dà nessuna noia. Di un colore azzurro luminoso, con un orlo rosso scuro straordinariamente elegante. Al sole assume iridescenze bellissime, al buio è leggermente fosforescente. Un giorno si divide in due, poi in quattro: come un quadrifoglio coloratissimo, che posso vedere in tutta la sua bellezza chinando la testa. Ma giorno dopo giorno si rimpicciolisce. E io mi scopro ad averne quasi nostalgia prima ancora che se ne sia andata del tutto: le devo di avere riacquistato l’occhio destro. In realtà, anche l’occhio sinistro: prima non avevo capito bene quanto valesse.