IL NUOVO POLO DELLA CONSERVAZIONE

DI FRONTE ALLA SCOMMESSA EUROPEA LA DISTINZIONE DESTRA/SINISTRA VA (TEMPORANEAMENTE) IN SOFFITTA, MENTRE SI FORMANO AGGREGAZIONI INEDITE, COME QUELLA TRA LA CGIL, LA LEGA E IL M5S PER L’ABROGAZIONE DELLA RIFORMA PENSIONISTICA

Articolo pubblicato sul Foglio il 21 novembre 2014 – In argomento v. anche, ultimamente: Ancora sullo spartiacque destra/sinistra, del 29 ottobre scorso, e Se Salvini vuol portare via i voti a Grillo, del 9 novembre

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Quando ho letto della decisione della Cgil di dare il suo sostegno al referendum promosso dalla Lega Nord contro la riforma delle pensioni, mi sono convinto che nella discussione di un anno fa con Franco Debenedetti sullo spartiacque destra/sinistra forse avevo davvero ragione io: oggi non è quello lo spartiacque più rilevante della politica italiana, e non tornerà a esserlo finché non sarà superato il difficile passaggio che il Paese sta affrontando.

La questione cruciale della politica italiana oggi consiste nella scelta se mantenere il Paese nel suo equilibrio sistemico tradizionale di tipo mediterraneo, oppure imboccare la via di un suo spostamento verso un equilibrio che gli consenta di integrarsi con le altre grandi economie centro- e nord-europee. La profonda riforma necessaria per questa seconda opzione è di tale difficoltà tecnica e politica, urta interessi costituiti e rimuove rendite di tale entità, che essa richiederebbe una grande coalizione tra i partiti maggiori di destra e di sinistra. Senonché, sia all’interno del centrodestra, sia all’interno del centrosinistra, ci sono blocchi politici molto forti che non sono e non saranno mai disponibili per questa “riforma europea”: il loro dna e una loro irremovibile vocazione conservatrice sono nel senso del mantenimento dell’Italia nel suo attuale “equilibrio mediterraneo”. Questi sono i veri “moderati” in Italia oggi, che si contrappongono a chi è disposto a rischiare sul terreno dei mutamenti molto incisivi necessari per battere la via più ambiziosa.

Il blocco politico conservatore, sul versante del centrodestra, si manifesta con immediata evidenza, per esempio, quando si sentono parlare i Gasparri, i Tremonti, o i Salvini della questione della liberalizzazione delle professioni, della direttiva Bolkestein sulla concorrenza nei servizi, o delle licenze dei taxi: quella parte della destra è inequivocamente lì per difendere il vecchio assetto. Simmetricamente, un blocco della stessa natura è ben visibile nel centrosinistra, ogni volta che esso si trova davanti alla proposta di qualche cosa di minimamente incisivo sul terreno della spending review nel settore pubblico, oppure sul terreno della rimozione di una parte almeno delle bardature normative che soffocano il nostro mercato del lavoro. Quando si parla di chiudere un carrozzone totalmente inefficiente e spostarne il personale dove esso può servire, oppure di emanare un codice del lavoro semplificato, l’opposizione della vecchia sinistra si unisce al vecchio establishment ministeriale nella difesa dell’inamovibilità e irriformabilità dell’enorme macchina pubblica e dell’enorme coacervo della normativa esistente in materia di lavoro.

Ora le due ali anti-riforma europea si saldano: la Cgil sostiene il referendum della Lega, Pippo Civati e Niki Vendola sono in sintonia sostanziale – pur con argomentazione e linguaggio molto diversi – con la strategia anti-euro di quello stesso Bebbe Grillo che a Strasburgo si allea con l’Ukip di Farage.

Dunque, per un verso è indispensabile una convergenza di forze tradizionalmente collocate sia nel centrosinistra sia nel centrodestra, se vogliamo puntare davvero sulla riforma europea dell’Italia. Ma la loro convergenza non può assumere la forma di una grosse Koalition: occorre rassegnarsi all’idea che – se tutto andrà bene – il polo della riforma europea dell’Italia metterà insieme poco più del 50 per cento dei consensi, quale che sia la forma politica – conforme o no al disegno di Matteo Renzi – che esso è destinato ad assumere. E avrà contro un’opposizione, di destra e di sinistra, molto forte.

Con questo non intendo dire, beninteso, che la distinzione fra destra e sinistra abbia perso significato: la distinzione tra chi considera la diseguaglianza sociale come un disvalore e chi no conserva sempre un suo significato rilevantissimo. Ma di fronte al bivio tra la conservazione del nostro Paese nel suo vecchio equilibrio mediterraneo e la scelta di una sua integrazione piena nell’Unione Europea, lo spartiacque più rilevante non è quello fra destra e sinistra: è quello tra chi crede nella necessità e possibilità di questo passaggio e chi no. Quelli che ci credono oggi si trovano all’incirca in pari misura a destra e a sinistra; ed è Matteo Renzi a incarnare il progetto che li unisce.

La summa divisio tra destra e sinistra potrà tornare a essere lo spartiacque decisivo in un futuro non vicinissimo, quando questo difficile passaggio sarà stato superato dal nostro Paese. Ma oggi il discrimine fondamentale è l’altro: quello che corre tra chi vede nell’integrazione in Europa la nostra sola speranza, per quanto difficile da realizzare, e chi invece la considera una prospettiva impossibile, e preferisce dunque affrontare subito il trauma catastrofico della rinuncia a perseguirla.

 

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