MINIMUM WAGE: PERCHÉ NON PIACE AI SINDACATI

UNA SINTESI DELLE QUESTIONI DI NATURA POLITICO-SINDACALE ED ECONOMICA SOTTESE AL PROGETTO DI ISTITUZIONE DI UNO STANDARD RETRIBUTIVO MINIMO,  FATTO PROPRIO DAL DISEGNO DI LEGGE-DELEGA SUL LAVORO – E UN RICHIAMO CONCLUSIVO ALL’UTILITÀ DEL METODO SPERIMENTALE IN QUESTA MATERIA

Intervento nella rivista Colloqui giuridici sul lavoro diretta da Antonio Vallebona, 3 novembre 2014 – In argomento v. anche il mio saggio La nozione di giusta retribuzione nell’articolo 36 della Costituzione.

1. La disciplina vigente – In estrema sintesi, oggi l’ordinamento statuale italiano si astiene dallo stabilire uno standard retributivo minimo legale di carattere generale, privilegiando il riferimento agli standard stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale (applicazione giurisprudenziale diffusa dell’articolo 36 Cost.). Esso tuttavia consente la deroga agli standard stabiliti dai contratti collettivi nazionali, cioè ai minimi tabellari, da parte dei contratti aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente maggiormente rappresentative nel luogo di lavoro (d.-l. n. 138/2011, art. 8). Gli accordi interconfederali che tra il 2011 e il 2014 hanno disciplinato i rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, invece, escludono i minimi tabellari nazionali dal novero delle materie sulle quali il contratto aziendale può derogare al contratto nazionale. In altre parole, i contratti aziendali stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative potrebbero stabilire livelli retributivi inferiori, ma le associazioni stesse si auto-inibiscono di negoziare nei luoghi di lavoro deroghe su questa materia.

2. Il progetto di definizione di un salario minimo – Nel disegno di legge-delega sul mercato del lavoro attualmente in discussione in seconda lettura alla Camera dei Deputati è previsto che il Governo emani una disposizione legislativa volta a istituire uno standard retributivo minimo valevole per tutte le posizioni di lavoro subordinato o parasubordinato che non siano già soggette a un minimo stabilito da un contratto collettivo nazionale applicabile. Il fondamento teorico di questa opzione di politica del lavoro è costituito dagli studi empirici – tra i quali il più importante è forse quello di D. Card e A.B. Krueger del 1995, Myth and Measurement – The new Economics of Minimum Wage, riferito agli effetti del minimum wage nel mercato del lavoro statunitense – che mostrano come lo standard retributivo minimo legale, se determinato in modo opportuno, possa correggere efficacemente la distorsione monopsonistica tipica del mercato del lavoro soprattutto nella fascia più bassa, determinando al tempo stesso un aumento delle retribuzioni in quella fascia, ma anche altri effetti positivi sul sistema economico. Gli stessi studi empirici, però, avvertono che, se invece il minimum wage è determinato in misura inappropriata, cioè al di sopra del punto di equilibrio tra domanda e offerta di manodopera, l’effetto è quello di un aumento della disoccupazione.

3. Il problema politico-sindacale del minimum wage – Se dunque, in adempimento della delega legislativa, verrà istituito anche in Italia uno standard retributivo orario minimo allineato con i minimi tabellari dei principali contratti collettivi, il rischio è che ne consegua una perdita di occupazione nella fascia professionale più bassa, dove oggi una frazione non irrilevante della forza lavoro è occupata in settori a bassa produttività con retribuzioni inferiori ai 6 euro orari, e talvolta persino inferiore ai 5: mi riferisco, per esempio, alle retribuzioni di molti badanti nel settore del lavoro domestico, correttori di bozze “a progetto” nel settore editoriale, redattori free-lance nel settore giornalistico, traduttori e interpreti nel settore del turismo, merchandisers e promoters nel settore della grande distribuzione commerciale, e così via. Se, invece, verrà istituito uno standard minimo legale più basso rispetto ai minimi tabellari dei contratti collettivi, questo potrà avere l’effetto di indurre la parte meno produttiva delle imprese che oggi adottano come parametro gli standard stabiliti dalla contrattazione collettiva a distaccarsene, assumendo come standard quello legale. E forse anche l’effetto di indurre alcune imprese iscritte alle associazioni imprenditoriali firmatarie di contratti collettivi nazionali a revocare la propria iscrizione, per poter disapplicare i contratti stessi. Questo è il motivo per cui le organizzazioni sindacali maggiori sono contrarie a questo nuovo istituto previsto nel disegno di legge-delega. D’altra parte, se il Governo è convinto che i minimi tabellari dei contratti nazionali si collocano a un livello troppo alto per poter essere assunto come standard minimo universale, è suo dovere disattendere la pretesa delle organizzazioni sindacali di avere l’esclusiva della determinazione di questo standard minimo.

4. Un altro problema: la necessità economica della differenziazione territoriale del minimum wage – Sul piano sostanziale, stabilire uno  standard retributivo minimo nominale unico e uguale su tutto il territorio nazionale, in un Paese come il nostro nel quale si registrano livelli molto diversi di costo della vita da regione a regione, equivale a stabilire standard retributivi diversi da regione a regione: più alti per le regioni a più basso costo della vita e più bassi nelle altre. Dal punto di vista della politica economica, questo non ha alcun senso. Se dunque il il Parlamento delegherà il Governo a istituire lo standard retributivo minimo, logica vuole che la delega consenta di differenziare lo standard per regioni o per macro-regioni almeno in riferimento al costo della vita. Per lo stesso motivo sarebbe opportuna anche una differenziazione degli standard salariali stabiliti dalla contrattazione collettiva: differenziazione che dovrebbe essere perseguita con la rimozione del divieto, posto dagli accordi interconfederali (v. § 1), di deroga negoziata in sede aziendale al minimo tabellare nazionale. A questa linea d’azione si suole opporre da parte della vecchia sinistra politica e sindacale l’obiezione secondo cui così si reintrodurrebbero le “gabbie salariali”; ma è agevole replicare che la rimozione di quel divieto significherebbe, al contrario, “sgabbiare” la contrattazione collettiva decentrata, permettendole di adattare gli standard alle condizioni economiche delle singole regioni. Chi sostiene lo standard retributivo minimo unico e indifferenziato sul piano nazionale dovrebbe anche considerare che questa scelta presupporrebbe comunque delle misure di riequilibrio: o una forte politica di aiuti di Stato alle imprese delle regioni più arretrate (oggi vietati dal diritto europeo), o una forte politica di incentivo alla mobilità della forza-lavoro verso le regioni dove la produttività delle imprese è più elevata; ma in genere l’idea di attivare questo flusso migratorio viene avversata con maggior forza proprio dai sostenitori più convinti dello standard minimo unico e indifferenziato.

5. Necessità di fondare le scelte in questa materia sul metodo sperimentale – Le questioni sinteticamente poste in queste brevi note dovrebbero essere discusse, invece che sulla base di scelte di principio astratte (a priori pro o contro le “gabbie salariali”, a priori pro o contro la centralizzazione della determinazione dello standard retributivo, ecc.), sulla base di una applicazione pragmatica del metodo sperimentale. Si potrebbe pensare, per esempio, alla scelta delle confederazioni imprenditoriali e sindacali maggiori di consentire sperimentalmente per un paio d’anni in una regione del Mezzogiorno caratterizzata da tassi più alti di disoccupazione e/o di lavoro nero la contrattazione aziendale di minimi retributivi inferiori rispetto a i minimi tabellari nazionali, affidando a un team di ricercatori costituito di comune accordo la rilevazione e misurazione degli effetti di questa scelta. Oppure, si potrebbe pensare alla scelta del Governo nazionale, in accordo con una regione del Mezzogiorno scelta secondo il criterio anzidetto, di sperimentare in quella regione per due anni un minimum wage inferiore rispetto al resto del territorio nazionale, affidando alla Banca d’Italia di misurarne le conseguenze. Tre anni fa un convegno internazionale di giuristi ed economisti dedicato proprio all’utilizzazione del metodo sperimentale per dare fondamento scientifico alle scelte di politica del lavoro si è concluso con l’affermazione della piena liceità etica e giuridica della differenziazione parziale e temporanea dei trattamenti in funzione della sperimentazione. D’altra parte, se è vero che la sperimentazione richiede anni per dare risultati apprezzabili, è anche vero che il dibattito puramente ideologico ritarda il processo decisionale molto di più, senza fornire alcun risultato apprezzabile. A ben vedere, compiere scelte importanti come quelle di cui qui si discute sulla base di un dibattito e di un voto esclusivamente politico, anche se è ciò che abbiamo sempre fatto fin qui, non conviene a nessuno.

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