MENTRE LA SCUOLA, COME IL TITANIC, AFFONDA …

QUESTIONI FUTILI E QUESTIONI CRUCIALI PER IL RILANCIO DEL NOSTRO SISTEMA SCOLASTICO

Articolo di Andrea Ichino (andrea.ichino@unibo.it) pubblicato da Il Sole 24 Ore il 12 settembre 2008

Dato lo stato comatoso in cui versa la scuola italiana, si fa davvero fatica a trovare utile il dibattito sul grembiule (bianco o blu?), sul voto in condotta (il governo spera di fermare così, sul nascere, i futuri camorristi o almeno i tifosi che devastano i treni?) o sulla preferibilità dei voti rispetto ai giudizi (non c’è bisogno di essere dei matematici per capire che il valore informativo dei due sistemi è, a tutti gli effetti pratici, identico).
E perfino controproducenti potrebbero risultare i fumosi richiami a “incontrare il passato per progettare il futuro”, in una scuola che ha solo bisogno di tagliare con il passato essendo rimasta praticamente identica per oltre 70 anni nei quali invece il mondo è cambiato più rapidamente che in tutta la sua millenaria vita precedente. Pericoloso è anche gabellare come pedagogicamente preferibile il ritorno al maestro unico, quanto il dibattito scientifico sui pro e i contro non ha raggiunto conclusioni precise e soprattutto quando lo scopo vero di questa proposta è solo ridurre il numero dei dipendenti che pesa per il 97% sul bilancio prosciugando i margini per essenziali investimenti strutturali. L’obiettivo è giustissimo, ma il governo farebbe bene a dichiararlo con il suo nome almeno per non perdere ulteriormente la faccia nel momento stesso in cui, per motivi incomprensibili, continua a distruggere risorse pubbliche per salvare l’Alitalia e i suoi dipendenti.
Ciò di cui dovremmo invece parlare è stato ben messo in evidenza da Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore il 24 agosto scorso. Ha ancora senso un sistema di istruzione pubblico uniforme in ogni scuola e diretto dal centro in ogni suo ambito, dal vestito degli studenti ai metodi di insegnamento e ai contenuti? O sarebbe invece preferibile superare la paura della competizione tra scuole differenti (pubbliche e private) che possano gareggiare nell’offerta formativa entro spazi ben definiti ma ampi, che possano amministrarsi autonomamente nella gestione del personale e delle risorse, ma che siano soggette ad una valutazione attenta dei risultati nella misura in cui ricevano fondi pubblici? Per quel che mi riguarda, non ho dubbi a sottoscrivere insieme a Debenedetti la preferenza per la seconda soluzione. Una volta soddisfatta l’esigenza di assicurare un minimo di coesione sociale su alcuni valori fondamentali e una serie di conoscenze comuni di base (obiettivi raggiungibili attraverso l’imposizione di linee guida generali entro le quali possano muoversi liberamente scuole autonome), non si vedono altri motivi per cui lo Stato debba gestire in prima persona e in ogni dettaglio l’intera offerta formativa. E il problema dell’accesso dei poveri all’istruzione può essere facilmente risolto con il sistema dei buoni scuola (eventualmente negativi per le famiglie ad alto reddito) e con i prestiti d’onore agevolati. Per inciso, con una maggiore autonomia scolastica sarebbero le famiglie stesse a punire le scuole e le case editrici che speculassero sui libri di testo, senza bisogno di pericolose decisioni centralizzate su quale sia la vita ottimale di un libro di testo, che il nostro governo, chissà in base a quale criterio, ha stabilito essere di 5 anni.
Non capisco però Debenedetti quando confonde la necessità di misure standardizzate che consentano al governo e alle famiglie di valutare le scuole, con un’ennesima imposizione di uniformità. Proprio negli Stati Uniti, dove le scuole operano in totale autonomia, il mercato ha richiesto e prodotto spontaneamente i sistemi standardizzati di test dell’Educational Testing Service (www.ets.org) che appunto consentono di valutare in modo comparabile studenti di scuole diverse e i loro insegnanti senza pregiudicare la loro autonomia e indipendenza.
Come ho già scritto su queste pagine, è necessario che questo tipo di test venga presto introdotto in Italia in sostituzione (o almeno al fianco) degli attuali esami di terza media e maturità. Di un metro comune di valutazione abbiamo, infatti, un gran bisogno proprio perché ciò che più sorprende in questo dibattito è che di tutte queste riforme, importanti o no, si discute senza aver predisposto alcuna modalità di valutazione dei loro effetti. In questo modo potremo continuare all’infinito a discutere se il grembiule serva o no, e se sia meglio bianco o blu, ma non potremo mai sapere in modo statisticamente attendibile se gli effetti reali della proposta corrispondono a quelli sperati dai favorevoli oppure a quelli temuti dai contrari. Sarei prontissimo a ricredermi, per esempio, sull’importanza del grembiule se il Ministro fornisse i risultati di un esperimento controllato in cui confrontando due campioni di studenti statisticamente identici sotto ogni altro aspetto, quelli dotati di grembiule risultassero migliori (purché si chiarisca preventivamente il criterio di misurazione).
La valutazione delle politiche non è nè di destra né di sinistra. Nei Paesi avanzati le riforme vengono introdotte predisponendo per tempo gli strumenti statistici per valutarne l’efficacia, nello stesso modo in cui le terapie in campo medico sono sperimentate prima della loro introduzione su larga scala. I cittadini di un Paese moderno e maturo dovrebbero chiedere ai loro ministri una seria valutazione preventiva – e un serio sistema di misurazione e verifica sugli esiti ‑ delle iniziative dei ministri stessi, soprattutto quando comportano dispendio di risorse pubbliche, Ma noi italiani, invece di esigere dati precisi, previsionali e consuntivi, ci divertiamo a discutere di grembiuli. E intanto la scuola affonda.

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