LA PROPOSTA DI RICOLFI PER OTTENERE 300.000 NUOVI POSTI A COSTO ZERO

SE DAVVERO UNA RIDUZIONE DEL 75 PER CENTO DEL CUNEO FISCALE E CONTRIBUTIVO PUÒ PORTARE A UN RADDOPPIO DEI NUOVI POSTI A CARATTERE INCREMENTALE, UNA VISIONE DINAMICA DELLA COPERTURA FINANZIARIA DOVREBBE INDURRE LE RAGIONERIE DELLO STATO E  UE A CONSENTIRE CHE UNA MISURA-SHOCK  DI QUESTO GENERE VENGA ADOTTATA

Quello che segue è un ampio estratto dell’editoriale di Luca Ricolfi pubblicato sulla Stampa dell’8 ottobre 2014 – L’articolo è preceduto da una mia breve nota di commento – In argomento v. anche l’articolo pubblicato dallo stesso quotidiano il 7 marzo 2014, nel quale il sociologo torinese ha esposto per la prima volta il progetto: Maxi-jobs: una terapia d’urto per creare nuova occupazione

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Breve nota di commentoA una sollecitazione come questa di Luca Ricolfi, le Ragionerie centrali di Roma e di Bruxelles non possono limitarsi a opporre l’obiezione classica “noi vogliamo coperture effettive e non coperture presunte” (o, peggio, “elucubrazioni accademiche”). A ben vedere, del resto, anche le coperture oggi accettate sono frutto di previsioni, basate sul modo in cui le cose sono andate nell’ultimo anno. Se poi si vuole davvero, molto condivisibilmente, migliorare l’attendibiliità delle previsioni, perché il Governo non procede ad attivare (cosa oggi tecnicamente possibilissima con costi relativamente bassi) le necessarie sperimentazioni delle misure, esattamente come si fa di norma prima della commercializzazione dei farmaci? Certo, la sperimentazione richiede tempo; ma, se non si incomincia, ci si condanna a legiferare sempre al buio, sulla base di opzioni puramente ideologiche, oltre che di una valutazione statica e sostanzialmente molto rozza dell’impatto delle misure adottate. Sull’importanza e la possibilità tecnica e giuridica dell’applicazione del metodo sperimentale in questo campo v. il mio editoriale del 10 marzo scorso Detassare le imprese o i lavoratori? L’importanza del metodo sperimentale; inoltre la mia relazione al convegno su La sperimentazione al servizio del diritto del lavoro, dove è affrontata, tra l’altro, la questione della legittimità costituzionale delle disparità di trattamento inevitabili nell’applicazione del metodo sperimentale. Per un esempio di applicazione possibile di questo metodo v. l’articolo 4 del d.d.l. 21 marzo 2013 n. 247 in materia di promozione dell’occupazione femminile.
Merita infine una risposta l’obiezione sollevata dal senatore Stefano Lepri in un articolo di prossima pubblicazione sullo stesso quotidiano La Stanpa: il lavoro a basso costo – dice Lepri – c’è già, sotto forma di apprendistato (rapporto per il quale è prevista la contribuzione figurativa a carico dell0 Stato, in misura totale per le imprese fino a 10 dipendenti, in misura del 90 per cento per quelle di dimensioni maggiori); il punto è che anche dopo alcune semplificazioni recate dal decreto Poletti della primavera scorsa (n. 34/2014) l’apprendistato è gravato a) da costi di transazione notevolmente superiori rispetto al rapporto di lavoro ordinario, per la definizione e formalizzazione dei suoi contenuti formativi, b) dall’onere organizzativo relativo all’adempimento dell’obbligo formativo (che comprende anche la “didattica frontale”) in corso di rapporto, c) dal rischio della contestazione finale circa la corrispondenza del contenuto formativo effettivo rispetto al programma iniziale (in caso di accoglimento della contestazione da parte del giudice, l’imprenditore – oltre a doversi riprendere l’apprendista come lavoratore ordinario – è obbligato a pagare tutti i contributi omessi con le relative sanzioni), d) dal vincolo dell’utilizzabilità di questa forma di contratto solo per persone di età inferiore ai 30 anni.

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IL CONTENUTO DEL PROGETTO DI LUCA RICOLFI

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Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato?

Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì. L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più? Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali.

Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali).

Il nodo del gettito

In breve, quel che la Pubblica Amministrazione deve chiedersi non è: quanto gettito perdo se i nuovi contratti di lavoro pagano meno contributi sociali? Ma semmai: le nuove tasse che riscuoto grazie a posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati bastano a compensare il gettito che perdo per i minori contributi sociali?

Ebbene, quando un anno fa formulammo la proposta del maxi-job non eravamo in grado di rispondere a questa domanda, perché non avevamo la minima idea di quanti posti di lavoro in più si sarebbero potuti creare con il nuovo tipo di contratto. Non sapevamo, in altre parole, qual era la «reattività» delle imprese. O, se preferite, qual era il moltiplicatore occupazionale del nuovo contratto. Però una cosa eravamo in grado di dirla: esiste una soglia di reattività sotto la quale il gettito diminuisce e sopra la quale il gettito aumenta. Tale soglia è circa 1.4 e significa questo: se i nuovi posti di lavoro passano da 100 a 140 il nuovo contratto non costa nulla, perché il gettito della Pubblica amministrazione resta invariato; se passano da 100 a meno di 140 (ad esempio a 120), il nuovo contratto costa, perché fa diminuire il gettito; se passano da 100 a più di 140 (ad esempio a 180) il nuovo contratto non solo non costa, ma fa aumentare il gettito.

La ricerca

Ecco perché gli ultimi sei mesi li abbiamo passati a cercare di scoprire quale potrebbe essere la reattività delle imprese. In primavera, con l’aiuto della società Kkien e dell’Unione industriale, abbiamo condotto un’inchiesta su 50 imprese chiedendo direttamente quanti posti di lavoro in più avrebbero creato con il nuovo contratto. Il risultato è stato sorprendente: nelle imprese che pianificano di aumentare l’occupazione i nuovi posti di lavoro sarebbero balzati, in media, da 100 a 264: un moltiplicatore pari a 2.64. Avremmo voluto rendere pubblico questo risultato, ma ci sembrava eccessivamente ottimistico e basato su troppo pochi casi. Si è quindi deciso di aspettare.  A giugno è intervenuto un elemento nuovo: l’Unione delle Camere di Commercio del Piemonte ci ha offerto di inserire il questionario sul maxi-job nella loro indagine di metà anno sulle imprese manifatturiere piemontesi, in modo da disporre di un numero molto maggiore di risposte (oltre 1000). Con nostra grande sorpresa il moltiplicatore è ancora salito un po’, portandosi a 2.64.

È a questo punto che è nata l’idea di un nuovo contratto di lavoro, il job-Italia, che va molto oltre l’impianto del maxi-job. Altrettanto conveniente per le imprese, il job-Italia è molto più generoso con i lavoratori. In estrema sintesi funziona così:

1) la busta paga è compresa fra 10 e 20 mila euro annui

2) il costo aziendale aggiuntivo rispetto alla busta paga è del 25%, anziché del 100% come oggi

3) il job-Italia è riservato alle imprese che aumentano l’occupazione, e dura da 1 a 4 anni

4) la differenza fra costo aziendale e busta paga viene usata per pagare l’Irpef dovuta dal lavoratore.

5) quel che avanza dopo il pagamento dell’Irpef viene conferito interamente agli enti previdenziali (Inps e Inail)

6) lo Stato aggiunge l’intera contribuzione mancante, assicurando al lavoratore una piena tutela (malattia, infortunio, disoccupazione, pensione, liquidazione).

Un sogno?

Le stime

In termini statistici, direi proprio di no. Se anche il moltiplicatore fosse solo 2 (anziché 2.64), se anche il nuovo valore aggiunto per addetto (quello dei posti «in più») fosse un po’ minore di quello medio, il job-Italia farebbe comunque incassare allo Stato molti più soldi di prima. Una stima prudente suggerisce che, senza job-Italia, le imprese che intendono aumentare l’occupazione creerebbero circa 300 mila nuovi posti di lavoro tradizionali, mentre sepotessero usufruirne creerebbero da 600 a 800 mila job-Italia, soprattutto nelle piccole imprese. Risultato: il gettito contributivo si riduce di 3 miliardi, ma quello delle altre imposte aumenta di almeno 6, il che basta a pagare i contributi di tutti i maxi-job attivati, e verosimilmente lascia ancora qualcosa nelle tasche dello Stato.

Chi frena?

Ma allora perché non si fa? Una possibile risposta è che ci sia qualche fallacia nel mio ragionamento, o nelle stime della reattività delle imprese, o nella valutazione della lungimiranza della Ragioneria dello Stato, ancora molto legata a una visione statica dei conti pubblici: non posso certo escludere queste eventualità, la mia è solo una «modesta proposta», per dirla con Swift. L’altra risposta possibile è che la politica ha le sue regole, e che per gli equilibri del Palazzo (o per quelli dell’Europa?) sia più sicuro battere strade più convenzionali. Il problema, però, è che sulla via dei piccoli aggiustamenti siamo da anni, e i risultati sono terrificanti.

 

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