CHE COSA PENSO DELL’IDEA DI TRASFERIRE IL TFR IN BUSTA-PAGA

È L’EFFETTO DI UN ERRORE DEGLI ANNI ’60, CONSEGUENZA DI UNA CONCEZIONE PATERNALISTICA DEL RAPPORTO DI LAVORO DIPENDENTE – È POSSIBILE SUPERARLO EVITANDO DANNI ALLE IMPRESE O ALL’INPS SUL PIANO FINANZIARIO

Conversazione svoltasi con Chiara Del Priore in preparazione di un suo articolo per il sito articolo36.it, 9 ottobre 2014, nel quale si dà conto anche dell’opinione sul tema di Giampiero Falasca.

Professor Ichino, che cosa pensa dell’idea di trasferire il trattamento di fine rapporto in busta-paga?
Vedo numerosi aspetti positivi di questo progetto, che mi sembra prevalgano su quelli negativi.

Incominciamo da quelli positivi.
Primo: il TFR è una forma di risparmio obbligatorio a carico del lavoro dipendente, che esiste soltanto in Italia. Già questo dovrebbe farci riflettere. L’istituto nasce da un errore commesso dal legislatore nel 1966, quando quella che era una indennità di licenziamento venne trasformata in retribuzione differita. Una forma di paternalismo, che rende la struttura della retribuzione dei lavoratori italiani più complessa e meno trasparente.

Secondo?
Il TFR obbliga i lavoratori a risparmiare, ma noi oggi per rimettere in moto la nostra economia abbiamo bisogno di ridurre la propensione delle famiglie al risparmio, di promuovere la loro propensione al consumo. E poi, se anche una persona intende risparmiare, perché vincolarla a prestare i propri risparmi al datore di lavoro? Il principio europeo della libera concorrenza nel mercato dei capitali non imporrebbe di lasciarla libera di investirli dove le pare?

Però…
Però per le imprese più piccole questa è una forma di finanziamento preziosa: perderla può causare loro dei danni, nella fase della transizione verso il nuovo regime.

Dunque?
Una soluzione c’è. Oggi l’accantonamento per il TFR rende al lavoratore circa l’1,5 per cento ogni anno. Le banche, invece, possono procurarsi denaro dalla BCE a un costo annuo molto vicino allo zero; e hanno il problema di come utilizzare tutta questa liquidità senza rischiare troppo. Si può pensare, dunque, di stabilire che l’impresa a cui il dipendente chieda il TFR in busta paga abbia diritto a un prestito di entità identica, garantito dal Fondo di Garanzia dell’Inps, senza commissioni e a un tasso di interesse inferiore rispetto al rendimento del TFR. Il problema è che questo meccanismo rischia di costare in termini di attrito burocratico; però, se sia la Banca sia l’impresa ne hanno un guadagno…

Altri aspetti negativi?
C’è anche l’esigenza di favorire la scelta, da parte dei lavoratori, di spostare i loro accantonamenti dal TFR alla previdenza complementare, per farla decollare. Questa esigenza si pone in contrasto con quella di favorire il consumo delle famiglie. Poi c’è il problema degli accantonamenti operati dalle aziende di maggiori dimensioni, che sono gestiti per legge dall’Inps: se quegli importi non vengono più accantonati è anche l’Inps a perdere una fonte importante di finanziamento. Però qui vale lo stesso discorso fatto prima: poiché quegli accantonamenti danno un rendimento superiore al costo del denaro per le banche, l’Inps, se ne ha bisogno, potrebbe ottenere quello stesso finanziamento dalle banche a un costo inferiore.

Per concludere?
A me sembra che la cosa migliore sia di lasciar libera la persona che lavora di scegliere il modo di impiegare queste somme, pari al sette per cento circa del suo reddito. Magari incentivando sul piano fiscale la destinazione alla previdenza complementare. E obbligando le banche a prestare a rischio zero e a tassi molto bassi alle imprese fino alla cessazione quello che i loro dipendenti non saranno più disposti a prestare, fino alla cessazione dei rispettivi rapporti.

 

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