LO SCONTRO SUL JOBS ACT FUORI E DENTRO IL PD

NON SARÀ UN CONFLITTO DIROMPENTE, PERCHÉ ANCHE L’ALA SINISTRA  DEI DEMOCRATICI INCOMINCIA A RENDERSI CONTO DELLA NECESSITÀ DI NON RIPETERE I GRAVI ERRORI COMMESSI IN PASSATO SULLE POLITICHE DEL LAVORO

Intervista a cura di Maria Giovanna Della Vecchia, per l’Ordine, 28 settembre 2014.

Professore, cosa sta davvero accadendo intorno al nuovo scontro fra sindacati e politica?
Non parlerei di “scontro” tra sindacati e governo. Sappiamo che cosa questo termine ha significato in altre stagioni della politica italiana; e ora non si sta delineando niente di pur lontanamente confrontabile. I sindacati maggiori protestano contro l’affronto di non essere stati neppure consultati prima di una riforma così importante del mercato del lavoro; ma alla fine non ci saranno grandi mobilitazioni, perché sanno che le platee che essi rappresentano, verranno toccate solo molto marginalmente.

Che cosa intende dire?
La realtà è che Il Jobs Act riguarda poco i lavoratori che hanno un lavoro regolare stabile, i quali sono la costituency dei sindacati. Il Jobs Act riguarda invece moltissimo i precari, i disoccupati, le nuove generazioni, cioè quella parte del mondo del lavoro che oggi l’articolo 18 lo vede con il cannocchiale e il sindacato, nella quasi totalità dei casi, non lo vede proprio. Le grandi novità sono per questa parte del mondo del lavoro, senza togliere nulla all’altra.

All’interno del Pd, però, uno scontro sull’art 18 c’è eccome.
Sì, ma anche questo verrà superato senza morti né feriti. Perché anche all’interno dell’attuale minoranza del Pd c’è ormai una consapevolezza diffusa del rischio di ripetere un errore gravissimo, nel quale la vecchia sinistra è già caduta troppe volte.

Quale errore?
Quello di impedire l’allineamento del nostro Paese rispetto a uno standard europeo in materia di lavoro, in nome della difesa dei “diritti fondamentali dei lavoratori”, la loro libertà e dignità, salvo poi accorgersi ogni volta, a battaglia persa, di quanto essa fosse sbagliata. È accaduto così per il riconoscimento legislativo del part-time: la Cgil vi si oppose e il Pci votò contro nel 1984; poi di nuovo per il superamento della scala mobile, per l’abrogazione del monopolio statale dei servizi di collocamento, per l’introduzione in Italia del lavoro temporaneo tramite agenzia. Due o tre anni dopo che ciascuna di queste vicende si è conclusa, sempre con la sconfitta di una molto drammatizzata opposizione della sinistra politica e sindacale, quest’ultima ha sempre archiviato definitivamente la questione e nessun suo esponente si è più sognato di chiedere di tornare indietro.

Non andò così, però, nel 2002-2003 sull’articolo 18 tra Berlusconi e Cofferati.
Allora non andò così anche perché la questione dell’articolo 18 fece da catalizzatore di tutta l’opposizione nazionale contro Berlusconi. E poi in quell’occasione la riforma venne impostata male: venne proposto un depotenziamento della norma, senza che venisse predisposta la necessaria compensazione sul versante della sicurezza dei lavoratori nel mercato del lavoro.

Si trattava, però, di un depotenziamento molto modesto e marginale.
È vero. Ma allora ebbe molto peso l’argomento del “piano inclinato”: la preoccupazione che quello fosse soltanto il primo atto di un processo di smantellamento unilaterale, senza che il vecchio sistema di protezione venisse sostituito da uno nuovo.

Nella riscrittura dell’art. 18 perché ritiene che vada abolito il diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa?
La reintegrazione deve essere limitata al caso di licenziamento discriminatorio o di rappresaglia. Escluso questo caso, che i giudici sono perfettamente in grado di individuare, non può essere il giudice a valutare e determinare le scelte aziendali: il filtro di queste scelte deve essere costituito da un costo del licenziamento predeterminato , come di fatto accade in tutti gli altri ordinamenti europei.

Quanto ritiene ci sia di reale sul rischio segnalato dalla Cgil secondo cui, nel caso si arrivasse ad abolire l’art.18, verrà a mancare un grande deterrente contro gli abusi da parte degli imprenditori?
La protezione contro le discriminazioni e le rappresaglie non verrà meno: lì la reintegrazione viene conservata. Verrà invece superata l’ingerenza dei giudici nella gestione delle aziende. Le propongo un esempio: se un imprenditore oggi licenzia un centralinista monoglotta per sostituirlo con uno che sappia rispondere al telefono in inglese, oggi si apre una istruttoria sul numero delle chiamate che arrivano da interlocutori stranieri e un giudice decide se basta un 10 per cento di queste telefonate per giustificare la sostituzione del centralinista, oppure ne occorre il 30 per cento, oppure il 50; ma ci può essere anche un giudice che sostiene che l’impresa deve farsi carico di insegnare l’inglese al proprio centralinista monoglotta. Considerato il rischio di perdere anche solo un round di questa partita, con la reintegrazione del vecchio centralinista, l’imprenditore non ci prova nemmeno. Questo non giova né al sistema delle imprese, né agli stessi lavoratori, perché determina una peggiore allocazione delle risorse umane e una minore produttività media del lavoro.

Anche nel recente convegno genovese dei giuslavoristi lei ha detto che “i sindacati sbagliano perché “questa riforma non riguarda tanto il mondo del lavoro rappresentato da loro, ma riguarda tutta l’altra parte che loro non rappresentano”. Da parte loro tuttavia i sindacati sottolineano la necessità di tutele per i precari, con la Cisl che è possibilista anche all’eliminazione dell’art. 18 ma solo a fronte di chiarezza sulle tutele. Cosa ne pensa?
Mi sembra che su questo la Cisl abbia ragione. Ma mi sembra anche che il nuovo sistema di protezione dei lavoratori che stiamo delineando sia chiarissimo: vogliamo costruire la loro sicurezza economica e professionale non più sull’ingessatura del loro rapporto di lavoro, bensì sulla garanzia di continuità del reddito anche in caso di perdita del posto – con il nuovo ammortizzatore universale, cui tutti avranno diritto – e su di una assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, per mezzo del nuovo strumento del “contratto di ricollocazione”. Ogni lavoratore potrà scegliersi l’agenzia specializzata che gli dà più fiducia tra quelle accreditate presso la Regione, che verrà retribuita con un voucher a carico della Regione, ma soltanto a risultato ottenuto, cioè quando il lavoratore stesso avrà ottenuto un lavoro per un periodo minimo di sei mesi.

Si sente ripetere che le aziende sopra i 15 dipendenti sono poche ma i dati dicono che l’articolo 18 riguarda comunque almeno 8 milioni di lavoratori. Si andrà verso l’abolizione del reintegro anche per i già assunti?

Per ora no. Per un motivo facilmente comprensibile: se vogliamo davvero che la vecchia tecnica protettiva sia sostituita efficacemente dalla nuova, abbiamo bisogno di far entrare in vigore il nuovo regime gradualmente, via via che i nuovi rapporti di lavoro si costituiscono. Questo consentirà di portare a regime il nuovo strumento del “contratto di ricollocazione”, con la necessaria cooperazione e integrazione tra servizio pubblico e agenzie private interessate, attraverso la fase sperimentale che è già avviata.

E come ci si comporterà per i lavoratori già assunti che cambiano azienda?
Quelli che si muovono spontaneamente sono i più sicuri di sé perché professionalmente più forti. A questi non sarà difficile negoziare con il nuovo imprenditore un compenso monetario per la perdita della vecchia forma di protezione rigida, oppure una anzianità convenzionale che, aumentando il costo del licenziamento, garantisce una sicurezza equivalente alla precedente. È sempre possibile, poi, con il consenso dei due imprenditori, la cessione del contratto dal vecchio al nuovo, con l’effetto che il rapporto prosegue senza soluzione di continuità e senza alcuna modifica della disciplina applicabile.

La strada parlamentare per modificare lo Statuto dei lavoratori è ancora lunga. In proposito qual è secondo lei lo scenario più probabile?
Non mi sembra così lunga: il lavoro per l’elaborazione del decreto delegato è già avviato, e può avvalersi di un inteso lavoro già svolto negli ultimi anni. Potremmo avere il nuovo Codice semplificato già a gennaio prossimo.

Rimane il fatto che per costruire una flexsecurity con la rete di sostegno che possa renderla davvero tale servono risorse sul cui reperimento si sa ben poco. Come ci si riuscirà?
In realtà, costa di più continuare con il vecchio sistema di “mettere in freezer”  i disoccupati collocandoli in cassa integrazione e lasciandoli lì per anni e anni senza che nessuno se ne occupi. Guardi quello che è accaduto con i dipendenti di Alitalia che hanno perso il posto nel 2008: sette anni di ammortizzatore sociale, senza che ne sia stato ricollocato uno solo. Certo che il servizio delle agenzie specializzate, coinvolte per mezzo del nuovo “contratto di ricollocazione”, costerà caro; ma sarà sempre meno caro di quello che spendiamo oggi per non affrontare seriamente il problema.

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