QUEGLI IMMOBILISSIMI LAVORATORI IN “MOBILITÀ”

GLI EFFETTI DI UNA ASSURDA POLITICA CHE INCORAGGIA I LAVORATORI A RESTARE AGGRAPPATI AL POSTO DI LAVORO, ANCHE QUANDO ESSO NON C’È PIÙ

Editoriale telegrafico per la Nwsl n. 313, 24 settembre 2014

Sono sempre lì, in dieci con la stessa T-shirt, in quarta o quinta fila, ospiti fissi del talk-show, gli ex dell’impresa informatica XY. Tre anni di cassa integrazione, uno e mezzo di mobilità. Ne rappresentano altri cinquanta nella stessa situazione. A ogni puntata ripetono la stessa filippica contro lo Stato che non ha una politica industriale degna di questo nome: se la avesse, avrebbe già investito sulla loro azienda, che sarebbe sana e avrebbe orizzonti di straordinario sviluppo se non fosse stata chiusa per l’incapacità del suo ultimo padrone. Quando osservo che ogni anno in Italia, secondo l’indagine periodica Unioncamere, centinaia di migliaia di posti di lavoro restano permanentemente scoperti per mancanza di lavoratori che abbiano la necessaria qualificazione, mi gridano che racconto fandonie; quando ricordo che ogni anno decine di migliaia di imprese artigiane chiudono per limiti di età del titolare, senza poterne trasmettere il know-how produttivo e l’avviamento alle nuove generazioni, obiettano che loro sono lavoratori high tech, che sarebbe una dispersione assurda di professionalità se si riconvertissero a una attività artigiana. Quando chiedo loro se in quattro anni è stata mai proposta loro l’assistenza intensiva di una agenzia che conosca la domanda di lavoro esistente nella zona si irritano ancora di più; certo che non è stato loro proposto nulla di questo genere, perché sarebbe perfettamente inutile: la domanda di lavoro non esiste. L’unico modo per tornare a lavorare è “la politica industriale”, cioè lo Stato che ci mette i soldi. Il piano industriale? C’è già, ce l’hanno loro; insomma, non serve un nuovo imprenditore. Così sono lì, del tutto immobili da quasi cinque anni nel loro “trattamento di mobilità”; e potrebbero restarcene altri cinque o altri dieci. Vittime non – come dicono e forse credono davvero – della mancanza di una politica industriale, ma della mancanza di una seria politica del lavoro.

 

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