LA RIFORMA RIGUARDA POCO I LAVORATORI CHE UN LAVORO STABILE REGOLARE CE L’HANNO, MENTRE APRE LE PORTE DEL LAVORO REGOLARE A TEMPO INDETERMINATO A TUTTI COLORO CHE OGGI SONO FUORI DA QUESTA CITTADELLA FORTIFICATA
Intervista a cura di Giampiero Guadagni pubblicata su Conquiste del Lavoro il 23 settembre 2014
Venerdì scorso nella trasmissione Mix24 a Minoli che gli chiedeva come si possa riformare il mercato del lavoro senza il consenso dei sindacati, ha risposto: “Bisogna fare la riforma del lavoro anche senza i sindacati, se non ne capiscono l’importanza”.
Ma Pietro Ichino, senatore di Scelta civica, e soprattutto insigne giuslavorista, che da anni è impegnato sul tema, non vede il rischio di questo modo di procedere?
Io vedo semmai il rischio del ripetersi di quelle interminabili consultazioni rituali nella sala verde di Palazzo Chigi, caratteristiche di una stagione politica che si è drammaticamente caratterizzata per la sua inconcludenza. Vedo il rischio del rafforzarsi della caratterizzazione delle confederazioni come “partiti extraparlamentari”, con i quali di volta in volta le maggioranza parlamentari stringono alleanze selettive e improprie. Ma soprattutto vedo, e condivido, il messaggio che Matteo Renzi ha inteso lanciare al mondo del lavoro.
Quale messaggio?
Il Jobs Act riguarda poco i lavoratori che hanno un lavoro regolare stabile, i quali sono la costituency dei sindacati: la loro posizione non viene toccata se non marginalmente. Il Jobs Act riguarda invece moltissimo i precari, i disoccupati, le nuove generazioni, cioè quella parte del mondo del lavoro che oggi l’articolo 18 lo vede con il cannocchiale e il sindacato, nella quasi totalità dei casi, non lo vede proprio. Le grandi novità sono per questa parte del mondo del lavoro, senza togliere nulla all’altra.
Bonanni si dice pronto a trattare sul Jobs Act se il contratto a tutele crescenti riuscirà a combattuto davvero il precariato. Una posizione diversa da quella della Cgil, come peraltro spesso accaduto negli ultimi anni. Renzi non doveva fare distinzioni nel suo attacco al sindacato?
Almeno di una cosa Renzi deve dare atto alla Cisl: negli ultimi quarant’anni su tutte le questioni cruciali nell’evoluzione del diritto del lavoro del nostro Paese, dal riconoscimento del part-time al superamento del monopolio statale del collocamento, dalla scala mobile alle agenzie di lavoro temporaneo, dalla struttura della contrattazione collettiva alla vicenda Fiat del 2010, Cisl e Cgil si sono trovate su posizioni contrapposte; ogni volta era la Cisl a stare dalla parte giusta; e ogni volta la Cgil è arrivata a capire l’importanza della tappa evolutiva soltanto dopo, quando la svolta era già avvenuta, nonostante la sua opposizione. Accadrà così anche questa volta.
Ma sulla eliminazione dei contratti truffa come le partire Iva, sono arrivare indicazioni concrete dalla Commissione lavoro del Senato?
I filtri contro l’abuso delle partite Iva e delle collaborazioni autonome continuative li ha già posti, e in modo molto severo, la legge n. 92 del 2012, che su questo terreno ha prodotto un risultato abbastanza evidente di spostamento dall’area del lavoro parasubordinato a quella del lavoro a termine. Oggi non mi sembra che il problema principale stia più lì. Invece, se vogliamo che il contratto a tempo indeterminato torni a essere la forma normale di assunzione, occorre che, oltre a renderlo meno costoso, lo liberiamo dalle molte ingessature che lo caratterizzano.
La politica continua a spaccarsi sull’articolo 18, che per questo è da sempre al centro del dibattito pubblico. In attesa di conoscere i veri dati sul monitoraggio della riforma del Governo Monti, lei crede che l’eventuale abolizione possa davvero risolvere i problemi del mercato del lavoro italiano?
Se il tema fosse davvero l’abolizione dell’articolo 18, le risponderei senza esitazione “no”. Ma con questo disegno di legge l’articolo 18 non viene affatto abolito, bensì confermato nella funzione che gli è essenzialmente propria e per la quale originariamente era stato ideato da Brodolini: quella della prevenzione e repressione delle discriminazioni e rappresaglie. E in questa funzione è garantito a tutti i lavoratori. Per il resto, il Jobs Act si propone di sostituire una protezione, di cui oggi gode meno di metà dei lavoratori italiani, con un nuovo sistema di protezione di cui potrà godere la totalità dei lavoratori.
In sintesi?
Una assicurazione contro la disoccupazione finalmente davvero universale, che potrà essere rafforzata da trattamenti complementari nel contesto dei contratti di ricollocazione. E poi la possibilità per chi perde il posto di scegliere l’agenzia specializzata che preferisce, tra quelle accreditate, per un servizio di assistenza intensiva, retribuito con un voucher regionale pagabile soltanto a ricollocazione avvenuta. Col risultato di escludere automaticamente gli operatori incapaci e di riqualificare la spesa pubblica in questo campo.
Il ministro Poletti invita ad aspettare i decreti attuativi della delega. Ma c’è o no un problema di interpretazione sulla questione del reintegro?
È vero che questa delega lascia un notevole margine di discrezionalità al Governo nella riscrittura semplificata della legislazione del lavoro. Ma sulla materia politicamente più sensibile, cioè quella della disciplina dei licenziamenti, il principio enunciato è molto preciso: la tutela dovrà crescere in proporzione all’anzianità di servizio. Questo significa, innanzitutto, che deve essere adottata una tecnica di protezione suscettibile di modulazione, di progressività nel tempo; e già questo significa in modo inequivoco che la sanzione della reintegrazione deve essere riservata ai soli casi estremi, quelli del motivo illecito determinante, come la discriminazione o la rappresaglia antisindacale.
La delega così come uscita dalla Commissione lavoro riuscirà a reggere la prova dell’aula del Senato?
Credo proprio di sì. E non credo che sarà una prova drammatica.
La componente bersaniana del Pd, però, è molto forte a Palazzo Madama, e in quel partito le tensioni restano molto forti…
Ma l’ala sinistra del Pd sta rapidamente abbandonando l’idea che il vecchio articolo 18 costituisca l’unico possibile baluardo della libertà e della dignità dei lavoratori. Si potrà dissentire sulle modifiche del sistema di protezione recate da questa legge, ma nessuno nel Pd ne farà più una questione di vita o di morte. E, come in tutti i partiti seri, la minoranza rispetterà la scelta compiuta da una larga maggioranza del partito.
Senatore, il modello indicato da molti, e che anche lei apprezza e propone, è quello tedesco. In Germania c’è però tra l’altro un sistema funzionante di partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda. In Italia invece non si riesce a realizzare nulla di concreto sul fronte della democrazia economica. Non è questa la strada migliore per rendere le imprese più competitive, favorendo investimenti e quindi la creazione di posti di lavoro?
Sì. In questo primo anno di legislatura la Commissione Lavoro del Senato è tornata a lavorare sul disegno di legge-delega in tema di forme partecipative nelle imprese, riprendendo dal punto in cui eravamo rimasti con la delega contenuta nella legge n.92/2012, rimasta inattuata. Il frutto di questo lavoro della Commissione avrebbe potuto essere riversato nel disegno di legge che l’Aula del Senato incomincerà a discutere domani; ma il ministro ha preferito farne oggetto di un provvedimento a sé stante. In ogni caso lo si dovrà fare presto.
Se Renzi entro novembre presentasse a Bruxelles e Francoforte questa riforma del lavoro, cosa potrebbe ottenere in termini di allentamento delle politiche di rigore?
Sarebbe un argomento fortissimo per ottenere la flessibilità di bilancio necessaria, per esempio, per abbattere l’Irap sulle buste paga. E allora davvero l’effetto combinato del Codice semplificato e della riduzione del costo del lavoro potrebbe dare uno shock molto positivo al nostro sistema economico stagnante.
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