MA SE RENZI VUOLE DAVVERO SEGUIRE IL MODELLO TEDESCO, DEVE PRENDERE IN MANO PERSONALMENTE IL DISEGNO DI LEGGE-DELEGA SUL LAVORO PER CORREGGERLO INCISIVAMENTE NELLE SUE PARTI PIÙ DEBOLI
Articolo di Marco Leonardi pubblicato su Europa il 3 settembre 2014
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Anche Mario Draghi nel suo discorso al simposio annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole, ha deciso di parlare di disoccupazione. Si, quel discorso di Draghi che ha suscitato uno scambio di telefonate con una preoccupata Angela Merkel, non parla di moneta o di banche ma parla solo di disoccupazione. Per dire che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui l’Europa ha affrontato la crisi se oggi il problema di policy più importante è che la disoccupazione europea aumenta mentre quella degli Stati Uniti diminuisce. Draghi dice che farà la sua parte anche osando di più di quel che ha fatto finora e poi rimanda ai singoli paesi per le necessarie riforme nel mercato del lavoro.
L’occasione è da prendere al volo perché è il primo riconoscimento da parte delle istituzioni europee che non solo con le regole si crea nuovo lavoro. Ci sarà uno sforzo per aumentare la domanda aggregata , ma a quel punto le riforme sul mercato del lavoro devono facilitare la creazione di nuovo lavoro. La commissione europea nelle sue raccomandazioni per l’Italia ha sempre insistito sull’articolo 18. Ma cosa sappiamo veramente degli effetti dell’articolo 18 sull’occupazione? E cosa sappiamo dei risultati della modificazione dell’articolo 18 operata solo meno di due anni fa dalla legge Fornero?
L’articolo 18 protegge dal licenziamento individuale i lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti. Non ha un effetto sullo stock dell’occupazione totale, ma riduce i flussi di assunzioni e di licenziamenti. Non ha un effetto significativo sulla crescita delle imprese oltre i 15 dipendenti ma è provato che le aziende mettono in atto tutta una serie di accorgimenti per limitare i costi dell’articolo 18: pagano salari inferiori ai nuovi assunti, riducono le assunzioni a favore di investimenti in capitale, assumono con contratti a termine.
La legge Fornero dopo un’accesa discussione ha già cambiato la legge sul licenziamento individuale, indebolendo l’articolo 18 e avvicinando molto l’Italia alle equivalenti regole tedesche. Oggi è obbligatorio un tentativo di conciliazione di fronte al giudice prima di andare in giudizio e la reintegrazione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziamento ingiustificato. Nella maggioranza dei casi basta una indennità monetaria (tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità giusta per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo).
I dati a nostra disposizione – per la verità non definitivi- dicono che la conciliazione obbligatoria funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale (come in Germania). Dei casi che arrivano in giudizio per la metà vincono i lavoratori e in alcuni casi più gravi c’è la reintegrazione. I numeri dei licenziamenti ex articolo 18 sono molto bassi, meno di 10,000 all’anno. Ma questo non vuol dire che l’articolo 18 non serve: non si usa il licenziamento individuale esattamente perché c’è l’articolo 18 e anche dopo la riforma Fornero le aziende temono i licenziamenti individuali. Se non ci fosse l’articolo 18, come nella proposta di contratto a tutele crescenti, il licenziamento individuale (ovvero l’interruzione del contratto) dietro pagamento di un’indennità diventerebbe molto più frequente. Questo non è necessariamente un male perché il contratto a tutele crescenti dovrebbe sostituire molti dei contratti a termine di oggi per cui i lavoratori sono sempre in scadenza di contratto.
Qual è dunque la proposta di ulteriore riforma del mercato del lavoro e perché sembra così difficile arrivare ad un accordo? Il problema di introdurre un nuovo contratto a tutele crescenti è duplice. Il primo problema è il costo del lavoro: le aziende ora assumono in gran maggioranza con contratti a termine, se questi dovessero essere sostituiti da un contratto a tutele crescenti, in caso di licenziamento le imprese dovrebbero pagare un’indennità cosa che ora non fanno. Il secondo problema è che il contratto a tutele crescenti senza articolo 18 sarebbe solo per i nuovi assunti (di ogni età) e non per tutti. In tutti i paesi europei (compresa l’Italia con la legge Fornero) si è più volte cambiata la legge sui licenziamenti individuali ma la si è cambiata per tutti i contratti, non solo per i nuovi assunti. Questo perché l’introduzione di un contratto diverso e meno protetto per i nuovi assunti potrebbe portare a incentivi perversi per cui i lavoratori non vorrebbero cambiare lavoro per non cambiare tipo di contratto mentre le aziende potenzialmente vorrebbero licenziare tutti per poi assumere tutti con il nuovo tipo di contratto.
Per ora il decreto Poletti ha liberalizzato i contratti a termine. Se il problema è trovare una via alla stabilizzazione dei giovani, in primis bisogna incentivare le trasformazioni da contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Ad oggi un lavoratore di 25 anni con un contratto a termine ha il 60% di probabilità di averne uno a tempo indeterminato in 3 anni e il 70% in 5 anni. Ma le trasformazioni vanno incentivate, se il contratto a tempo indeterminato diventa troppo costoso rispetto al contratto a termine, le imprese non vorranno stabilizzare nessuno.
Per avvicinarci ulteriormente alla Germania (che ha la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia) bisogna che i contratti a tempo indeterminato siano più convenienti in termini di costo del lavoro e le indennità di licenziamento per i lavoratori più giovani vanno ridotte. Ma soprattutto va riformata la contrattazione dei salari: la Germania e la Spagna oltre che la teoria economica ci insegnano che salari flessibili creano molto più lavoro dell’articolo 18. Se Renzi vorrà davvero seguire la strada tedesca, deve prendere in mano il Jobs Act in prima persona, le difficoltà saranno molte.
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