IL FOGLIO: IL JOBS ACT IN DIRITTURA D’ARRIVO

PER RENZI È MOLTO PIÙ FACILE MANTENERE GLI IMPEGNI SU CODICE SEMPLIFICATO E CONTRATTO A PROTEZIONE CRESCENTE, VOLTANDO PAGINA RISPETTO ALLE VECCHIE DIATRIBE, CHE RALLENTARE RIMANENDO IN MEZZO AL GUADO

Intervista a cura di Claudio Cerasa, pubblicata dal Foglio il 27 agosto 2014.

 

Roma. Dice Matteo Renzi, nella sua lettera inviata agli organizzatori della festa nazionale del Pd, che il suo partito e il suo governo non hanno bisogno di prendere lezioni da nessuno, che sanno perfettamente, ci mancherebbe, qual è la giusta agenda da seguire, che sono stufi, aridaje, di dover ragionare ancora con la logica dei compiti a casa e che, nonostante i gufi, i rosiconi, i salotti, i soliti noti che godono per il fallimento dei successi altrui, il programma dei mille giorni che verrà grosso modo presentato domani in Consiglio dei ministri sarà così scoppiettante ed eccitante che, come per magia, riuscirà a convincere gli accigliati partner europei sulle capacità riformatrici del governo Leopolda. Eppure, nonostante il tono sicuro del presidente del Consiglio, il profilo riformista del governo, più che dalle parole, dagli annunci, dalle (mezze) riforme e dai tweet, verrà misurato, come successo in passato anche con il governo spagnolo guidato da Mariano Rajoy, dalla natura e dalla qualità di un provvedimento chiave: la riforma del lavoro. Mario Draghi, governatore della Bce, nei suoi frequenti colloqui telefonici avuti con Renzi, ha ripetuto in modo deciso al presidente del Consiglio che non vi sarà mai un vero programma di flessibilità dell’Europa rivolto all’Italia senza che prima vi sia un progetto serio e competitivo legato al famoso “Jobs Act”. E a Bruxelles (sede della Commissione europea) e a Francoforte (sede della Bce) sono in molti a notare che in passato proprio alla Spagna è stata concessa una maggiore flessibilità sul deficit pochi mesi dopo aver approvato una buona riforma del lavoro. Pietro Ichino, giuslavorista e senatore di Scelta civica, indicato dal governo come relatore per la riforma del lavoro al Senato, conversando con il Foglio dice: “Qualora il governo italiano dovesse davvero presentarsi a Bruxelles con la riforma del Codice semplificato interamente ispirata ai princìpi della flexsecurity, questo gli darà un prestigio e un potere negoziale persino superiore a quello guadagnato dal governo spagnolo con la sua riforma del lavoro”. “Personalmente – si sbilancia Ichino – su questo tema sono ottimista. Renzi si è impegnato in modo troppo esplicito e ripetuto sul capitolo del Codice semplificato del lavoro, prima e dopo l’assunzione della carica di capo del governo, perché ora possa pensare a rinvii o a misure pasticciate. In molti fingono di dimenticarselo ma questo impegno, tre mesi fa, è stato ribadito nelle prime righe del decreto Poletti, con il consenso di tutta la maggioranza”. Il cronista fa notare che nella premessa al decreto non c’è però alcun accenno al capitolo relativo all’articolo 18.

 

Ichino fa un cenno con la testa ma spiega che il percorso della maggioranza, sindacati o non sindacati, ormai è segnato. O quantomeno, dovrebbe esserlo. “Quella premessa preannuncia la trasformazione del contratto a tempo indeterminato secondo il modello del contratto a protezione crescente. Questo implica che si riscriva la disciplina dei licenziamenti. Ma soprattutto preannuncia l’emanazione del Codice semplificato, che significa riscrivere l’intera legislazione del lavoro di fonte nazionale. E l’impegno, insisto, è nel senso di farlo sotto il segno della flexsecurity, che è l’esatto contrario del regime di job property che ha caratterizzato il mercato del lavoro italiano nell’ultimo mezzo secolo. E comunque sarebbe davvero curioso – anzi, sarebbe proprio il segno dell’incapacità di riformare il sistema – che si riscrivesse tutto lo Statuto dei lavoratori, tranne il solo articolo 18…”.    

 

Da questo punto di vista, prosegue Ichino, convinto che il presidente del Consiglio non avrà difficoltà a sconfiggere la minoranza sindacale del suo partito, il compito di Renzi sarà quello di “sottrarsi alle pastoie della vecchia diatriba pro/contro l’articolo 18, facendo percepire al paese che non si cambia una singola norma, ma un intero sistema di protezione del lavoro divenuto ormai inservibile”. E per questo “l’accento del premier dovrà cadere sui termini ‘semplificazione’, ‘sicurezza del lavoratore nel passaggio dalla vecchia occupazione alla nuova’, ‘riapertura del diritto del lavoro alle nuove generazioni’. Modello spagnolo? Francamente io direi qualcosa di più. Quello che infatti Renzi ha promesso ai suoi interlocutori europei nel marzo scorso è molto di più di quello che è stato fatto in Spagna, dove Rajoy si è limitato a ridurre i vincoli nella disciplina del contratto di lavoro. La riforma promessa dal governo italiano prevede una semplificazione profonda della legislazione e la sostituzione della sicurezza costruita sull’ingessatura del rapporto di lavoro con la sicurezza costruita sulla garanzia di continuità del reddito e i servizi di assistenza intensiva nel mercato del lavoro offerti dalle agenzie specializzate: quello che riassumiamo nell’espressione ‘contratto di ricollocazione’”.

 

Chiediamo a Ichino: ma con una buona riforma del lavoro realisticamente cosa sarebbe possibile ottenere, verrebbe da dire “strappare”, all’Europa e alla Bce in termini di concessioni e flessibilità? “Sicuramente una maggiore flessibilità nel calendario della riduzione del debito pubblico. Ma anche probabilmente la possibilità di un ‘bilateral agreement’ che consenta un drastico abbattimento del cuneo fiscale e contributivo, finanziato per metà con la riduzione della spesa pubblica e per l’altra metà con un temporaneo aumento del deficit. Che è poi la stessa cosa di cui ha bisogno anche la Francia”.

 

In Germania, ricordiamo a Ichino, ai tempi di Schröder, nel 2000, la prima vera riforma sul lavoro venne fatta dai sindacati (guidati da Martin Kannegiesser, allora potente leader della Gesamtmetall, l’associazione delle imprese metallifere e metalmeccaniche) che scelsero di proporre al sindacato dei lavoratori uno scambio tra salari e posti di lavoro, sperimentando anche forme di produzione innovative e metodi di contrattazione insolita. Vennero fatti sacrifici tosti, vi furono significative riduzione dei salari, vennero introdotti nuovi metodi di lavoro nell’ambito della competitività. Che sacrifici andrebbero chiesti ai sindacati?

 

“In Germania – dice ancora Ichino – c’è un sistema di relazioni industriali degno di questo nome, che ha l’orgoglio di affermare e difendere la propria capacità di darsi le regole guardando all’interesse generale del paese. Noi non abbiamo questa fortuna. Dunque sono il governo e il Parlamento che devono riformare il mercato del lavoro: non possiamo sperare che lo facciano le associazioni imprenditoriali e sindacali di comune accordo”. Anche ieri Renzi, che comprensibilmente è alla costante ricerca di un nemico contro il quale poter misurare la propria forza riformista, ha individuato nei soliti noti (gufi, rosiconi, salotti) le forze contrarie alla trasformazione del paese. Eppure, ragioniamo ancora con Ichino, a voler essere sinceri in questa fase è difficile individuare dei nemici veri e forti di Renzi. Si può dire che se la riforma del lavoro non verrà portata avanti in maniera coraggiosa la responsabilità sarà solo del governo, e non del Mineo di turno? “La questione politica sottesa alla riforma del lavoro è molto più profonda di quella che si è aperta in Senato durante la discussione della riforma costituzionale. Sui temi del lavoro si confrontano direttamente le due anime del Pd. Da questo punto di vista la questione è, indubbiamente, più difficile. Ma a differenza di quanto è accaduto per la riforma costituzionale, su questa del lavoro governo e Parlamento hanno troppi occhi addosso perché possano prevalere i gattopardi: la Ue, la Bce, i mercati finanziari, gli investitori stranieri. E tutti questi sono perfettamente in grado di distinguere una riforma vera da una non-riforma. Qui se Renzi sbaglia si gioca l’osso del collo”. Vuol dire che c’è il rischio che in caso di riforma timida sul lavoro il governo segni la sua fine? “Proprio la sua fine magari no, ma certo una grave perdita di credibilità sul terreno della capacità di cambiare verso al paese per davvero”.

 

 

 

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