LA COSTITUZIONE NECESSARIA DOPO LA CADUTA DEL MURO

VOLTIAMO PAGINA RISPETTO A UN ASSETTO ISTITUZIONALE PRODOTTO DALL’EPOCA IN CUI LA PRIORITÀ ERA LIMITARE LE CAPACITÀ DECISIONALI DEL GOVERNO – ORA RENZI MOSTRI LA STESSA DETERMINAZIONE SU LAVORO, GIUSTIZIA E P.A.

Dichiarazione di voto per il Gruppo di SC del senatore Alessandro Maran sul disegno di legge costituzionale n. 1429, nella seduta antimeridiana del Senato dell’8 agosto 2014 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico dello stesso giorno

Sono passati 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Lo ricorderemo il prossimo novembre, con le sue ricadute sul sistema dei partiti della prima Repubblica –  in Parlamento non c’è più nessuno dei partiti che dettero vita alla Costituzione – e sulle richieste autonomistiche e regionalistiche che, non per caso, emersero proprio in quella fase. È dalla scomparsa della divisione del mondo in due blocchi che il Muro ha simboleggiato – dunque è da almeno 25 anni – che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti in un processo segnato (più che negli altri Paesi) dalla Guerra Fredda. Non è un mistero per nessuno, infatti, che fu voluto dalla Costituente un sistema di governo debole, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal governo; e un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato un utile freno, volto espressamente a sfiancare (come dimostra quel che sta accadendo in quest’aula da settimane) qualunque maggioranza uscita dalle urne. E la presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari.

A dire il vero, non tutti attesero che crollasse il Muro per cominciare a riflettere sui nodi irrisolti del processo costituente: basterebbe ricordare la Commissione Bozzi (del 1983) e le prime riforme incrementali, come quella sulla limitazione del voto segreto. Giorgio Frasca Polara ha ricordato, in un suo scritto, che, nel lontano 1979, Nilde Iotti, allora Presidente della Camera, espresse tre idee sulla riforma istituzionale che corrispondono, in sostanza, ai contenuti del disegno di legge in discussione: basta con questo assurdo bicameralismo perfetto, basta con mille parlamentari (“quanti ne ha la Cina, ma loro sono un miliardo e trecento milioni”), federalismo istituzionalizzato trasformando il Senato in Camera delle regioni e dei poteri locali: “Perché il Senato non potrebbe essere come il Bundesrat tedesco?”. […]”. Così Nilde Iotti nel 1979.  Non per caso, come dimostrano i lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, è quasi impossibile, almeno in dottrina, trovare argomenti tesi a difendere lo status quo.

Eppure, la contemplazione ammirata e acritica del passato, e l’avversione e l’intolleranza per ogni innovazione, è forse quel che più colpisce nella discussione in corso sulla riforma del Senato. Così, per i critici della riforma, una seconda camera eletta dai consigli regionali e non dai cittadini sarebbe, in sostanza, una istituzione non democratica. Eppure, in Europa quella dell’elettività diretta della seconda Camera non è affatto una regola, ma tutto all’opposto. La maggioranza dei paesi dell’Unione europea (15 su 28) non hanno una seconda camera. Tra i 13 che hanno una seconda camera solo in cinque paesi i suoi membri sono eletti direttamente dai cittadini. Anche in Spagna, tra l’altro, una parte dei membri sono designati dalle Comunità  autonome. Tra questi 5 paesi solo in Italia, Polonia e Romania la seconda camera ha dei poteri legislativi rilevanti. E solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera.

La combinazione di premio di maggioranza e Senato non elettivo sarebbero poi un attentato alla democrazia. Come se solo una camera bassa eletta con sistema proporzionale fosse compatibile con un Senato non eletto direttamente dal popolo. Ora sono ovviamente legittime le perplessità (che sono anche le nostre) sulla proposta di legge elettorale, l’Italicum, che lo stesso presidente del consiglio si é detto disponibile a rivedere. Ma con questo metro di giudizio il Regno Unito sarebbe un sistema ben poco democratico. Tony Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35% dei voti e con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55% dei seggi. E la Camera dei Lords non è certo una istituzione eletta dal popolo. Stessa cosa in Francia. Con il 29% dei voti ottenuti al primo turno, il partito socialista di Francois Hollande ha conquistato il 53 % di seggi nella Assemblea nazionale. E il Senato francese non è eletto dai cittadini.

Se togliamo di mezzo le difese impossibili dello status quo,  ovviamente, una Camera regionale si può fare in molti modi. Una Camera che non può non essere a netta maggioranza regionale (perché luogo di dialogo tra legislatori), può essere composta dai Consigli regionali in modo simile all’esperienza austriaca (come nel testo in esame), dalle Giunte (quindi in modo simile al Bundesrat tedesco, come avremmo voluto), ma anche in raccordo con gli elettori al momento delle elezioni regionali (come avviene in Spagna e come ha proposto Vannino Chiti). Anche sui poteri, una volta scartato il rapporto fiduciario e quindi, di conseguenza, poteri paritari nella funzione legislativa, ovviamente ci può essere comunque un’ampia fascia di oscillazione tra le tipologie di leggi che sfuggano alla prevalenza della Camera, soprattutto nei rapporti centro-periferia. Basterebbe leggere il volume sui lavori della Commissione nominata dal Governo Letta per trovare argomenti a favore delle varie composizioni e delle varie forme di rinvio, in un ricco pluralismo di posizioni dottrinarie. Ma non si capisce perché, «innalzare» le regioni e i governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sembra ad alcuni inadeguato e perfino sacrilego. Dimenticando che sindaci e presidenti di regione sono autorità democratiche, elette direttamente, che non hanno nulla da invidiare in termini di pedigree democratico a senatori e deputati, magari eletti all’estero. Dimenticando che dall’azione delle regioni e dei comuni dipende larga parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi e delle politiche statali, e della spesa pubblica. Dimenticando che porre all’interno delle istituzioni costituzionali il luogo del coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori è una necessità imprescindibile per il buon funzionamento del sistema costituzionale, visto che nostra Repubblica è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. Infatti, comunque la si consideri, la riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra e confermata dal voto popolare nel referendum del 2001, ha apportato alla Parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, modifiche profondissime. Dimenticando che proprio la mancanza del luogo parlamentare di mediazione è il principale punto critico della riforma. In carenza di una stanza di compensazione istituzionale degli interessi, l’incertezza ha, infatti, generato numerosissimi conflitti e la Corte costituzionale si è trovata costretta a dirimere questioni che hanno un alto tasso di opinabilità interpretativa e dunque un alto tasso di politicità. Per questa ragione appaiono fuori luogo le critiche “benaltriste” secondo cui questa sarebbe una riforma sovrastrutturale che servirebbe solo ad allontanare nel tempo le riforme economiche. Eliminare il ricorso massiccio alla Corte di stato e regioni, dare quindi certezze sulla normativa in vigore, produce effetti economici diretti perché porta prevedibilità e stabilità nelle decisioni pubbliche. Basta pensare all’energia, al turismo o alle infrastrutture.

Certo, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. Madrid è tornata a crescere grazie alla riforma più difficile: quella del mercato del lavoro.  Ha inoltre rafforzato il sistema di formazione per i disoccupati e dato un stretta ai sussidi di disoccupazione che in Spagna avevano assunto un peso enorme. E di qui si passa. Noi ci aspettiamo che il governo affronti la riforma del lavoro (e la riduzione della spesa, la riforma della giustizia, della burocrazia) con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato. E’ necessaria una profonda trasformazione dell’Italia e dobbiamo cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei. Mi spiego con un esempio: nei paesi dell’Unione e dell’Ocse c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una forza di polizia per il contrasto della grande criminalità. In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di la della propria specializzazione. La conseguenza è che otteniamo, spendendo tre punti di Pil (il 30% in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. E l’elenco potrebbe continuare: vale per difetti della nostra giustizia civile o per il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali, che ci costano un punto di Pil ciascuno. Ecco il benchmarking, il confronto sistematico che permette alle aziende che lo applicano di compararsi con le migliori e soprattutto di apprendere da queste per migliorare. Bisogna cambiare. Vale per il Senato, deve valere per tutti.

Non è un caso che molti degli oppositori del progetto abbiano sin dall’inizio, per varie ragioni (in raccordo con quei settori sociali per i quali il rafforzamento delle istituzioni politiche comporterebbe una riduzione del proprio potere) falsato il dibattito col ricorso ad argomenti propagandistici sproporzionati (la deriva autoritaria, la P2, e così via). Non c’è da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario o parafascista. Sono a confronto due concezioni della democrazia. L’una è assembleare e fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento; l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana, quella del dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza. La seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati. Con i due referendum del 1991 e del 1993 abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa per affermare un modello di democrazia governante. E da allora che è iniziata una transizione che ora, a 25 anni dal crollo del Muro di Berlino, possiamo e dobbiamo portare a compimento. Nella situazione in cui siamo l’Italia ha bisogno di cambiamento, ha bisogno di fiducia, ha bisogno di riforme; e non può permettersi i ritardi culturali della vecchia sinistra speculari, del resto, a quelli della vecchia destra. Noi di Sc, come sempre, sosterremo questo sforzo.

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