CIÒ CHE HA RESO ODIOSO QUESTO ISTITUTO È L’USO CHE NE VENNE FATTO DALLE CAMERE PER QUATTRO DECENNI; ESSO PUÒ PERÒ RITROVARE IL CONSENSO DELL’OPINIONE PUBBLICA SE SI AFFIDA ALLA CORTE COSTITUZIONALE IL COMPITO DI ARBITRARE TRA POTERE GIUDIZIARIO E PARLAMENTO
Intervento svolto nella seduta pomeridiana del Senato del 4 luglio 2014, nella discussione sull’articolo 8 del disegno di legge costituzionale n. 1429/2014.
ICHINO (SCpI). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Vi sono molti senatori che chiedono la parola. La Presidenza non sta effettuando un controllo fiscale sui tempi, ma invito tutti i colleghi a tenere conto dei tempi a disposizione dei Gruppi, anche di quelli per gli interventi in dissenso. Vista la delicatezza del tema, pertanto, faccio appello alla valutazione dei senatori.
Prego, senatore Ichino, ha facoltà di parlare.
ICHINO (SCpI). Cercherò di essere molto breve, anche perché è stato già detto molto su questo tema, in particolare dai colleghi Chiti, Quagliarello e Casini; molte delle osservazioni svolte in questi interventi sono difficilmente contestabili, anzi sono pienamente condivisibili. In particolare, mi sembra difficilmente contestabile la necessità dell’immunità parlamentare come garanzia di equilibrio fra i poteri dello Stato, così come mi sembra altrettanto difficilmente contestabile la necessità che questa garanzia sia disposta per entrambi i rami del Parlamento. Il Senato ha un ruolo diverso da quello della Camera nel nuovo sistema costituzionale, ma non inferiore a quello della Camera.
Il problema dell’immunità si pone per tre motivi. Il primo è che nei primi quarant’anni questa garanzia è stata esercitata male, in modo distorto. Come il collega Casini ha ricordato, per quattro decenni questa garanzia è stata usata in modo tale da trasformare l’immunità in impunità. Da qui il secondo aspetto del problema: quello di un’opinione pubblica insofferente nei confronti di questa garanzia. Vorrei però attirare l’attenzione del senatore Casini sul fatto che questo secondo problema non può considerarsi risolto soltanto perché dopo quattro decenni di eccesso in una direzione si sia passati a un eccesso di segno opposto. Arriviamo così al terzo aspetto del problema. Se dal momento dell’inversione di tendenza si è instaurata una situazione in cui, per timore dell’opinione pubblica, le Camere concedono l’autorizzazione in tutti i casi indifferentemente, per compiacere un’opinione pubblica ostile, evidentemente qui c’è ancora qualcosa che non funziona.
Questo è il motivo per cui, ferma restando l’esigenza fondamentale – su cui mi sembra vi sia un largo, anche se non unanime, consenso – di mantenere questo istituto di garanzia nella forma attenuata in cui essa è oggi in vigore, credo che sia giusto riflettere su come strutturare questa garanzia diversamente rispetto al suo assetto attuale. Dobbiamo chiederci, in particolare, se la forma migliore di questa garanzia sia l’autodichia, cioè se sia opportuno che il governo di questa garanzia sia affidato direttamente all’organo che ne è titolare.
A questo proposito, il senatore Chiti proponeva una soluzione, quella cioè della possibilità di ricorso alla Corte costituzionale contro la decisione del Parlamento. La nostra proposta va in questa direzione, ma in modo più radicale. La metto in termini problematici perché qui di certezze nessuno ne ha: perché non ipotizzare che questa garanzia sia governata direttamente dall’organo che è istituzionalmente, per sua natura, l’arbitro fra i poteri dello Stato? Il senatore Palma ha obiettato che si tratterebbe di uno “snaturamento delle funzioni della Corte costituzionale”. Io francamente questo snaturamento non lo vedo, dal momento che la Corte è, per sua natura ed essenza, arbitro fra i poteri dello Stato.
Il senatore Casini obietta invece che sarebbe “illogico” affidare questa garanzia, di cui è titolare il Parlamento, a un altro organo. Ma non c’è nulla di illogico – dal momento che la garanzia verte sul rapporto fra due poteri, il giudiziario e il legislativo – nell’affidare il governo della garanzia stessa a chi, come si è detto, è per sua natura arbitro tra quei poteri. Tanto più che in altra parte di questa riforma costituzionale affidiamo alla stessa Corte costituzionale il compito del controllo preventivo di legittimità costituzionale della legge elettorale: funzione, per così dire, amministrativa più che giudiziaria.
I Costituenti non compirono questa scelta nel 1946-47, perché ancora non era accaduto tutto quanto è accaduto nel mezzo secolo successivo; noi oggi riformiamo la Costituzione anche facendoci carico di quanto è accaduto nel frattempo e traendone insegnamento.
Detto questo, condividiamo fondamentalmente l’impostazione che su questo punto viene proposta dai relatori e prima ancora dal Governo, che ha l’iniziativa su questo terreno. Qui rispondo molto brevemente ai molti che, nel corso della scorsa settimana, hanno veementemente e anche un po’ rumorosamente contestato il ruolo del Governo su questo terreno. In questa legislatura, l’iniziativa del Governo sul terreno della riforma costituzionale nasce dal fatto che nell’ultima fase della legislatura passata, essendo stati ripartiti i compiti fra Governo e Parlamento, nel senso che al Governo spettasse l’iniziativa sul terreno economico e al Parlamento spettasse l’iniziativa sul terreno delle riforme costituzionali, si è visto il fallimento dell’iniziativa parlamentare sulle riforme costituzionali. È dunque bene, anzi necessario, che oggi sia il Governo a fare ciò che il Parlamento si è mostrato non in grado di fare nell’altra legislatura; che sia, cioè, il Governo a prendere l’iniziativa su questo terreno.
Su questo presupposto, se verremo invitati da relatori e Governo al ritiro del nostro emendamento 8.0.16, che va nel senso di affidare alla Corte costituzionale la decisione circa il fumus persecutionis e quindi l’emanazione dell’autorizzazione a procedere a carico del parlamentare, ritireremo il nostro emendamento.c
Riteniamo però che una riflessione su questo punto sia necessaria e che la soluzione dell’arbitrato affidato alla Corte costituzionale possa essere quella che salva il principio e al tempo stesso evita i possibili effetti indesiderati, sul piano dei rapporti tra Parlamento e opinione pubblica. (Applausi dal Gruppo SCpI).
.