LO SCHEMA PER CUI QUANDO LE COSE NON FUNZIONANO SI VARA UNA RIFORMA LEGISLATIVA HA IL SIGNIFICATO DI UNA SISTEMATICA AUTOASSOLUZIONE: “NON È COLPA NOSTRA, SONO LE NORME CHE VANNO CAMBIATE”; IN REALTÀ PER LO PIÙ LE COSE NON FUNZIONANO PERCHÉ NOI NON SIAMO CAPACI DI APPLICARE LE NORME CHE GIÀ ESISTONO
Intervento svolto nel corso della sessione pomeridiana del Senato del 4 agosto 2014, in sede di discussione del disegno di legge di conversione del decreto-legge 24 giugno 2014 n. 90 – In argomento v. anche la relazione sugli aspetti previdenziali del decreto che ho svolto il 2 agosto alla Commissione Lavoro
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Ichino. Ne ha facoltà.
ICHINO (SCpI). Signora Presidente, signora Ministro, colleghi: «mille norme»; l’espressione usata dal relatore è difficilmente contestabile. Ha detto ancora il relatore che in questo provvedimento si rischia di perdere il senso del disegno generale della riforma perseguita; e, ancor più, egli paventa il rischio di un condizionamento delle burocrazie ministeriali in senso contrario agli intendimenti del Governo, dello stesso legislatore.
Purtroppo è così. Questo disegno di legge non si sottrae all’abitudine, al modello sbagliato che si è imposto nel nostro Paese per ciò che riguarda il modo di legiferare. La legge omnibus, a cui si attaccano via via nuove disposizioni, sempre più numerosi «vagoncini» – secondo la metafora ferroviaria – per risolvere i singoli problemi è l’emblema di un legiferare non per principi generali e con l’intendimento di produrre norme «generali e astratte» ma per risolvere uno per uno i singoli problemi. Ciascuna norma, ciascun vagoncino, ciascuna nuova disposizione viene inserita nel testo in relazione ad un caso specifico. Capisco che nell’emergenza sia difficilissimo evitare questo modo di procedere, ma dobbiamo assolutamente fare uno sforzo tutti insieme, perché qui non è colpa dell’uno o dell’altro ma è un intero sistema che deve trovare la volontà, la forza, le idee chiare per cambiare. E cambiare anche incominciando dal “genere letterario” delle leggi che in queste Aule si producono.
È da questo modo sbagliato di legiferare che è nata la vicenda sgradevole, poco commendevole anche dal punto di vista istituzionale, dell’articolo 1-bis introdotto come «vagoncino» alla Camera e poi soppresso al Senato. Ma per un articolo 1-bis soppresso in questo provvedimento, salvo farne oggetto di più meditata e opportuna collocazione, c’è anche un articolo 1-ter, rispetto a cui è difficile comprendere come e perché abbia potuto essere collocato in questo decreto-legge: che cosa ci stanno a fare le pensioni dei giornalisti in un decreto-legge sulla pubblica amministrazione? (Applausi dei senatori Morra e Fucksia).
Occorre poi fare ancora un passo indietro rispetto a queste considerazioni, per una valutazione autocritica di carattere più generale. Ancora una volta, è un’autocritica che dobbiamo fare tutti. Mi riferisco a quello stereotipo, caratteristico del nostro Paese, per cui se le cose non funzionano occorre produrre una nuova norma di legge per farle funzionare. Se guardiamo bene, questo stereotipo ha un significato profondo di autoassoluzione da parte di chi è responsabile del Governo, dell’amministrazione del Paese: dire che le cose non funzionano perché sono sbagliate le norme equivale a dire che non è colpa nostra, non è un difetto di capacità di implementazione delle norme esistenti. Invece, nella maggior parte dei casi, è vero proprio l’inverso. Le cose non funzionano perché non sappiamo implementare le norme esistenti. Non sappiamo o non vogliamo; ci autoassolviamo ed emaniamo norme. Queste stabiliscono come devono comportarsi i singoli dirigenti. In questo modo neghiamo l’essenza stessa della funzione del dirigente, che è quella di trovare lui la soluzione per garantire il raggiungimento del risultato. Quanto più noi regolamentiamo l’attività del dirigente, tanto più lo deresponsabilizziamo. Già oggi, invece, la legge vigente consentirebbe di responsabilizzare il dirigente. (Applausi della senatrice Fucksia).
Signora Ministro, è in vigore ormai da tredici anni l’articolo 21 del testo unico sul pubblico impiego che dice che il dirigente può essere rimosso dal suo incarico dirigenziale per mancato raggiungimento degli obiettivi che sono stati fissati e con lui concordati al momento dell’assegnazione dell’incarico stesso. Quanti casi si contano di rimozione di un dirigente per mancato raggiungimento degli obiettivi, da quando quella norma è in vigore, cioè dal 2001? (Applausi dal Gruppo M5S). Non ne conosco neanche uno, eppure questa è la chiave di volta per riformare l’amministrazione: fissare obiettivi precisi, specifici, misurabili e suscettibili di essere agganciati a termini temporali precisi e, poi, severamente e rigorosamente controllare che il dirigente raggiunga l’obiettivo per cui ha avuto ed ha accettato l’incarico. Certo, questo significa esporre il dirigente a una responsabilità oggettiva, perché i risultati qualche volta non si raggiungono senza colpa del dirigente. Ma il dirigente guadagna dieci volte rispetto ai suoi sottoposti (Applausi della senatrice Fucksia). Egli guadagna di più proprio perché corre quel rischio, proprio perché si suppone che abbia la capacità personale e la professionalità necessaria per correre quel rischio. Questo modo di organizzare l’amministrazione, la legge attuale già lo consente. Però questo non si fa. Gli obiettivi non sono precisi, specifici, misurabili e collegabili a scadenze temporali precise: non sono quelli che i nostri colleghi britannici chiamano gli obiettivi SMART (cioè Specific, Measurable, Repeatable, Achievable, Timely). Da noi questo modo di governare le amministrazioni non ha corso, non ha cittadinanza. Invece, questa è l’essenza della riforma dell’amministrazione.
Poi, trasparenza totale per consentire anche alla cittadinanza di controllare il conseguimento dell’obiettivo; perché il civic auditing è più importante della Corte dei conti. Non c’è Corte dei conti che possa fare quel controllo puntuale, capillare e in tempo reale sull’operato dell’amministratore, del dirigente pubblico, sul raggiungimento degli obiettivi, come può fare una cittadinanza che disponga degli strumenti, che possa esercitare il controllo beneficiando della trasparenza totale. Anche su questo terreno non abbiamo bisogno di nuove norme: possiamo perfezionarle, e l’implementazione può consigliare singoli ritocchi legislativi, ma queste cose si possono fare anche subito, senza bisogno di nuove norme. Però ancora non si fanno.
Veniamo così al tema cruciale più importante sul piano pratico di questo provvedimento: la mobilità. Signora Ministro, lei sa, anche per averne io parlato con lei subito dopo l’assunzione da parte sua della carica, che abbiamo una norma – l’articolo 33 del testo unico del 2001 – la quale prevede l’obbligo per ognuno dei dirigenti pubblici di rilevare l’eventuale eccedenza di organico; e Dio sa se non abbiamo un gran numero delle nostre amministrazioni in cui si verificano eccedenze di organico. Questa norma del 2001 è stata ripetutamente ribadita, con la comminazione di sanzioni sempre più severe: nel 2009 con la cosiddetta legge Brunetta e poi, di nuovo, nel 2011. Eppure, signora Ministro, mi sa citare un solo caso di un dirigente di amministrazione pubblica che abbia rilevato una eccedenza di organico? Non ne conosco uno solo; o meglio uno c’è, ma è un caso anomalo e non lo possiamo annoverare tra i casi fisiologici. Eppure, questa è norma vigente; e può funzionare. Riteniamo che il dirigente non sia la figura più adatta per rilevare le eccedenze di organico della struttura stessa che gli è affidata? Può essere; lo faccia allora qualche altro organo dell’amministrazione. Però se non incominciamo da lì non faremo mai passi avanti. È importante, certo, come fa l’articolo 4 di questo decreto, attivare anche l’amministrazione di destinazione, per attirare a sé il personale eccedente nell’amministrazione dove invece si registra l’eccedenza di organico; ma se non si parte dalla rilevazione e mappatura delle eccedenze, è evidente che nessuno si muoverà. O meglio, si muoveranno soltanto coloro che decidono per loro interesse personale di spostarsi; ma non è questa la mobilità nell’interesse dell’amministrazione. Mobilità nell’interesse dell’amministrazione non significa mobilità contro gli interessi del singolo addetto: deve esser chiaro che il 99 per cento della mobilità necessaria non è neanche a 10 chilometri di distanza, è mobilità nellop stesso territorio comunale, qualche volta nello stesso isolato; ma oggi neanche quella è praticata. Pensiamo, per esempio, quanto sarebbe utile trasferire il personale eccedente dei vecchi uffici di collocamento agli ispettorati del lavoro, per dare a ogni ispettore uno o due assistenti, che potranno diventare domani a loro volta ispettori; oppure trasferire il personale eccedente delle Forze Armate in parte alle polizie locali, in parte ai servizi di protezione civile, in parte ancora alle cancellerie dei tribunali!
PRESIDENTE. La invito a concludere, senatore.
ICHINO (SCpI). Termino subito, anche perché per tutta la parte del discorso che riguarda i risvolti previdenziali di questo decreto posso rinviare alla relazione che ho svolto l’altro ieri alla Commissione Lavoro. Per tornare all’utilità di una maggiore fluidità del sistema della mobilità nelle amministrazioni pubbliche e tra le amministrazioni stesse, pensiamo alle scoperture che abbiamo negli uffici del catasto e in tutti gli uffici dove per mancanza di organico si ritardano gli adempimenti cui i cittadini hanno diritto: questa è tutta mobilità che potrebbe essere attivata già da oggi. Va bene l’articolo 4, ma nessun articolo 4, come già nessun articolo 33 del testo unico del 2001, potrà supplire all’iniziativa e alla capacità di gestione che deve caratterizzare una buona amministrazione e in particolare i suoi dirigenti. (Applausi dai Gruppi SCPI, PD e M5S).
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