IL POLITOLOGO TORINESE INDICA LE DUE PRIORITÀ PER RIMETTERE IN MOTO IL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO
Intervista a Luca Ricolfi, professore di Scienza Politica all’Università di Torino, a cura di Giulia Cazzaniga, pubblicata su Libero il 18 luglio 2014
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Luca Ricolfi è docente di Analisi dei dati presso la facoltà di Psicologia all’Università di Torino. Ha pubblicato una ventina di libri, tra manuali e opere. L’ultima, «La Repubblica delle tasse». Gli chiediamo del disegno di legge delega sul lavoro. Lui arriverà a parlarci di sindacati, industriali, giornalisti troppo politicizzati. E di un Paese che guarda ancora troppo alle poltrone invece che alle soluzioni per uscire dal guado.
Professor Ricolfi, come si sta giocando la partita del lavoro questo governo? Quale il suo giudizio in merito alla legge delega in discussione in Parlamento?
Il diavolo sta nei dettagli: finché non avremo il testo definitivo è difficile esprimersi, occorrerà valutare anche tutti i regolamenti attuativi. Un testo funzionante esisteva e si è scelto di non vararlo: il Codice semplificato del lavoro di Pietro Ichino era pronto da un anno quando Renzi è andato al potere. Peccato sia andato tutto alle calende greche. Quindi una prima scelta di non fare c’è stata.
Con la proposta del contratto a tutele crescenti sia il Pd che il partito di Alfano stanno rimettendo al centro della discussione l’articolo 18. Da togliere? Da modificare? Da lasciare intatto?
Il contratto a tutele crescenti potrebbe essere il contratto ragionevole che oggi manca, se l’indeterminato tutela troppo il lavoratore e il determinato troppo poco. Penso invece che l’articolo 18 sia solo una parte del problema. Certo, per prima cosa non è chiaro se il Partito Democratico sia sensibile o meno alla volontà di porre fine a una situazione in cui la magistratura mette il naso anche in cose su cui non è in grado di esprimersi. Penso all’Ilva, a Stamina, persino alle bocciature scolastiche. Ci sono decine di ambiti in cui i giudici intervengono senza avere gli strumenti per farlo. Un magistrato non può capire le complicate ragioni per cui un’azienda decide di licenziare un lavoratore. Poi, seconda cosa, c’è la questione della creazione di posti di lavoro.
Da questo punto di vista quell’articolo rappresenta un blocco?
È un tappo – riduce certamente le possibilità occupazionali – ma è non il principale, conta meno di altri. Ipotizziamo di proporre a un imprenditore due buste: nella prima c’è l’abolizione del 18, nella seconda un abbattimento dei costi che gravano sul lavoro. Io fossi in lui prenderei la seconda: gli imprenditori non assumono perché costa troppo. E poi c’è una questione meramente politica: i partiti che alzano oggi la voce su questo tema non lo hanno fatto quando si trattava di prendere accordi per andare al governo. È una mossa meramente elettorale, a parer mio.
La legge delega punta anche a semplificare. Una necessità?
La complessità che si para davanti oggi a chi vuole fare impresa deriva principalmente da doveri fiscali e amministrativi di ogni genere. A questi bisogna metter mano. Non è certamente il numero dei contratti a dover diminuire, perché la grande maggioranza di essi riguarda soltanto una nicchia di persone. Dopodiché, da decenni chi fa le leggi tende ad aggiungere e non a sostituire. Deve invece valere il principio che vale nei musei: uno dentro, uno fuori. Se continuiamo a stratificare, aggraveremo una situazione che non ha pari nell’Ocse, con il nostro imprecisato numero di leggi e normative. Si cancellino quelle che non servono, e soprattutto non siano ambigue. Alcuni passaggi del decreto Poletti sono stati scritti volutamente – a detta degli stessi membri della commissione – in modo ambiguo, così da poterne poi discutere in aula. Non mi sembra un criterio ragionevole proporre leggi ambigue per garantire equilibri politici.
Dov’è urgente mettere le mani, insomma, per far ripartire il mercato del lavoro?
La mia proposta risale a qualche mese fa ed è stata completamente ignorata dalla politica. Cosa che per altro mi diverte e che già avevo previsto. L’ho chiamata “maxi job”. Consiste in benefici concreti per le aziende che assumono a tempo pieno. A ogni nuovo assunto rispetto all’anno precedente queste potranno dare in busta paga 100 spendendone 125, quando secondo un calcolo rozzo in media ne spendono 200. In sostanza, l’80% del costo aziendale viene trattenuto in busta e il resto va in Irpef allo Stato e all’Inps.
Ma quanto costerebbe una operazione del genere?
Allo Stato nulla. Se crei posti di lavoro crei valore aggiunto e incasserai tramite Iva, Ires, Irap, Imu. E in base ai miei calcoli se le assunzioni reagissero in modo appena decente il maxi-job non solo si autofinanzierebbe, ma aumenterebbe il gettito dello Stato. In Piemonte una indagine tra le aziende dice che i posti di lavoro potrebbero più che raddoppiare. Non abbiamo prove, ma indizi, per ora. Sono però numeri impressionanti. Unioncamere piemontese ha preso sul serio quest’idea e vuole approfondire il sondaggio tra gli imprenditori.
E nessuno dei Palazzi ne ha voluto discutere con lei?
Gli stessi industriali sembrano disinteressati a risolvere i problemi del Paese, questa è la mia impressione. Hanno la testa più sulle poltrone che alla concretezza. Di buone intenzioni è lastricata la via dell’Inferno. Politici, giornalisti, sindacati e persino imprenditori, ragionano ormai in modo politico, badando agli equilibri di rapporti più che alle soluzioni. E chi studia queste soluzioni, come hanno fatto per una vita Tito Boeri e Ichino, non diventa nemmeno sottosegretario. Purtroppo la politica funziona come i concorsi universitari fino a poco tempo fa: si sceglie non il più bravo ma il più fedele.
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