LE RAGIONI DEL FLOP DEGLI INCENTIVI PER L’OCCUPAZIONE GIOVANILE 2013

QUANDO GLI INCENTIVI ECONOMICI VENGONO SOVERCHIATI DAI COSTI DI TRANSAZIONE NECESSARI PER POTERNE BENEFICIARE, IL LORO RISULTATO SI AZZERA

Intervista a cura di Valerio Mammone, pubblicata sul sito repubblicadeglistagisti.it il 3 luglio 2014.

Grazie agli incentivi stanziati dal governo Letta (il cosiddetto “bonus giovani”), sono stati assunti 22mila under 29. La stima del governo, per il triennio 2013-2015, era di 100 mila. Si tratta di un “flop”, come la maggior parte dei giornali ha scritto, o comunque di un’operazione di successo?
Mi pare difficile qualificarla come un’operazione di successo. Anche perché c’è un grande punto interrogativo che pesa sulla valutazione: quante di queste 22mila assunzioni sarebbero mancate in assenza di questo incentivo, e quante invece sarebbero avvenute comunque?

Che cosa non ha funzionato nel provvedimento adottato dal Governo Letta?
I costi di transazione. Perché un incentivo funzioni bene occorre che gli operatori possano averne una notizia chiara in modo facile e diretto. Se, invece, per capire di che cosa si tratta è necessario il consulente, una parte dell’incentivo si perde per remunerare il consulente; e tutti coloro che non si avvalgono di un consulente non entrano nel gioco. D’altra parte, questi costi aumentano per il fatto che la misura governativa ha carattere temporaneo: se essa avesse carattere più duraturo, il costo necessario per acquisire l’informazione in proposito si suddividerebbe su di un periodo di tempo più lungo, così riducendosi.

A parità di fondi disponibili, Lei avrebbe adottato una soluzione diversa?
Quando i fondi sono limitati, come in questo caso, è meglio dedicarli a una sperimentazione che sia, al tempo stesso, quantitativamente limitata, ma qualitativamente più robusta. E sarebbe preziosa per acquisire dati indispensabili sul come muoversi in futuro. Per esempio: una sperimentazione impostata scientificamente, mirata a misurare l’elasticità della domanda e dell’offerta giovanile, o femminile, o delle persone anziane, in relazione a un determinato incentivo fiscale, consentirebbe di mettere in cantiere la prossima volta misure calibrate in modo molto più preciso e di entità molto più rilevante. Perché se si conosce di quanto aumentano domanda e offerta a seguito di un incentivo, si sa anche quale aumento di gettito fiscale consegue all’attivazione dell’incentivo stesso.

Secondo lei, gli incentivi statali posso risolvere il problema  della disoccupazione (giovanile e non)? Non si corre forse il rischio di aiutare soltanto quelle imprese che avrebbero comunque assunto nuovo personale o stabilizzato quello pre-esistente?
La risposta sta nel discorso che ho appena proposto: la sperimentazione, che consente di conoscere con precisione gli effetti di una misura di incentivazione. Per esempio: ipotizziamo che lo Stato dedichi oggi 20 milioni di euro per sperimentare gli effetti di un incentivo fiscale sull’occupazione giovanile, oppure su quella femminile, secondo il metodo del confronto tra “campione trattato” – per esempio una provincia – e “campione di controllo” statisticamente identico; e che dall’esperimento risulti che da un azzeramento dell’Irap sui nuovi rapporti di lavoro a carattere incrementale, cioè aggiuntivi rispetto all’organico aziendale iniziale, derivi un aumento del 30 per cento del flusso delle nuove assunzioni, con conseguente aumento del gettito dell’Irpef che compensa in parte o del tutto la perdita del gettito dell’Irap. Questo evidentemente consentirebbe in un secondo tempo di adottare la stessa misura su scala molto più ampia, essendo molto più facilmente risolvibile il problema della sua copertura finanziaria.

Che fine faranno i soldi inutilizzati?
La stessa fine che fanno, tristemente, i miliardi stanziati ma non spesi per incapacità di spenderli: verrando utilizzati per “tappare buchi” altrove.

Secondo Lei, i tre requisiti per l’accesso ai finanziamenti erano troppo stretti (o in particolare uno dei tre)?
Certo, col senno del poi si può affermare che, con requisiti meno stringenti, l’esito sarebbe stato più conforme alle attese.

Dai risultati ottenuti si può dedurre che il contratto a tempo indeterminato non è ormai conveniente nemmeno con gli incentivi?
Certo, il contratto a tempo indeterminato oggi è messo “fuori mercato” – almeno nel primo triennio del rapporto fra un datore e un prestatore di lavoro – dalla liberalizzazione del contratto a termine. Per renderlo più competitivo occorre innanzitutto ridurre drasticamente la protezione della stabilità nel periodo iniziale, limitando il controllo giudiziale alle discriminazioni e rappresaglie e affidando per il resto la protezione dell’interesse della persona che lavora a una indennità di licenziamento proporzionata all’anzianità di servizio: quello che oggi chiamiamo “contratto a protezione crescente”. Inoltre occorrerebbe concentrare sul contratto a tempo indeterminato la riduzione del cuneo fiscale e contributivo: se, per esempio, si potesse offrire alle imprese una riduzione del dieci o quindici per cento dell’aliquota contributiva, combinata con una incisiva flessibilizzazione almeno per il periodo iniziale, probabilmente la quota delle assunzioni a tempo indeterminato sul flusso totale delle assunzioni tornerebbe ad aumentare considerevolmente. A una condizione, però.

Quale condizione?
Che tutto questo sia previsto in modo semplice e stabile nel tempo. Cioè con costi di transazione bassi o nulli, in modo che tutti i milioni di imprenditori grandi e piccoli possano avere l’informazione necessaria semplicemente leggendo il giornale, e usufruirne senza il “filtro” necessario dei consulenti. È il discorso che abbiamo fatto all’inizio.

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