RIFLESSIONI DOPO ALCUNI SCIOPERI FALLITI, DALLA RAI ALLA MASERATI, DALLA SPEZIA A GRUGLIASCO
Intervista a cura di Alberto Brambilla, pubblicata su Il Foglio il 18 giugno 2014
Da forma eccezionale di protesta libera dei lavoratori che fu, secondo la concezione originaria dei padri costituenti, lo sciopero si è ridotto a una forma di contestazione anacronistica e inefficace, quando si parla di manifestazioni aziendali, rituale e impopolare, quando si parla di servizi pubblici. Gli “scioperi all’ultimo minuto”, “quelli dell’ultima ora (prima della chiusura)”, quelli “per allungare il weekend” (del venerdì o del lunedì nei trasporti locali) sono per la grande maggioranza riti logori con cui il sindacato “manifesta debolezza, mostrando di non saper dare segni di vita diversi da questo e più producenti”. La pensa così Pietro Ichino, giuslavorista, senatore di Scelta civica, ex Pd. A sollevare la riflessione è il caso dello stabilimento Fiat di Grugliasco dove lunedì la Fiom ha realizzato uno sciopero di un’ora per protestare contro i turni e le condizioni di lavoro concordati tra Fiat e gli altri sindacati firmatari del contratto aziendale (Fiom quindi esclusa) per fare fronte alla crescente richiesta di Maserati lì prodotte. Evento “assolutamente incomprensibile”, ha risposto Fiat con un duro comunicato, in uno stabilimento “che sta creando posti e opportunità di lavoro”, rianimato dopo sette anni di fermo e diventato il perno del rilancio globale di Fiat-Chrysler con la promessa di un miliardo di euro di investimenti da parte dell’ad Sergio Marchionne. Il successo numerico dello sciopero è discusso. Per Fiom avrebbe raggiunto picchi del 30 per cento di adesioni in certi reparti. Per Fiat solo dell’11 per cento, con 11 vetture prodotte in meno. Anche dal punto di vista della Fiom il risultato è “contropruducente”, dice Ichino: tanto che il segretario Maurizio Landini “farà bene a considerare che da esiti come questo viene confermata la debolezza del suo sindacato, intesa come capacità di raccogliere un consenso maggioritario, ma anche come capacità di sintonizzarsi con un nuovo sistema di relazioni industriali non più corrispondente al paradigma anacronistico dell’antagonismo tra imprenditore e lavoratori”. In uno stabilimento dove la Cgil – èra pre-Marchionne – aveva una percentuale bulgara, un sondaggio Fiom della settimana scorsa ha ricevuto solo per il 20 per cento di adesioni (476 su 2.000 schede distribuite) con un lavoratore su tre che si diceva rappresentato anche dalle altre sigle. “Lo sciopero è efficace se dimostra la volontà dei lavoratori di manifestare il proprio consenso con le scelte del sindacato. Negli anni Settanta si scioperava magari solo per un quarto d’ora al fischio del delegato sindacale, e si fermavano tutti: era il segno della forza organizzativa del sindacato, della sua piena presa sui lavoratori”. Perché la conflittualità persiste nonostante un contratto aziendale che, in teoria, dovrebbe ridurla? “Quando si esprime nella forma dello sciopero, la riduzione della conflittualità non è determinata dallo spostamento della contrattazione dal centro alla periferia, ma dalla contesto di piena dall’esposizione dell’impresa alla concorrenza globale”, dice Ichino.
“Soprattutto se le imprese operano in un contesto globale perché i lavoratori percepiscono che se si indebolisce l’azienda si fa un regalo ai competitor – dice Ichino, d’altronde la competizione per Fiat si sente: le immatricolazioni europee sono in ripresa ma a ritmi più contenuti rispetto ai concorrenti – e perciò, a maggiore ragione, nel vedere l’inefficacia di uno sciopero un lavoratore potrebbe i lavoratori tendono dunque a preferire un giorno di paga a uno di protesta inefficace”. Così è andata con lo sciopero mancato di Pasquetta in un ipermercato di La Spezia: i dipendenti hanno lavorato snobbando la chiamata della Cgil, altro caso clamoroso. Ma tra mobilitazioni numericamente esigue e successo discutibile che senso ha lo sciopero nel XXI secolo? “Per i padri costituenti era un’arma estrema, eccezionale. Poi, negli ultimi quarant’anni lo sciopero ha subito una degenerazione – dice Ichino –; è quasi scomparso dal settore manifatturiero per diventare una forma di lotta utilizzata quasi esclusivamente nel terziario, in quello dei servizi e soprattutto nei trasporti. E qui la sua efficacia si esprime non tanto nel produrre un danno al datore di lavoro – il quale anzi trae sovente un vantaggio economico dallo sciopero, vedi le aziende del trasporto pubblico locale che nel giorno di stop non hanno usura dei mezzi né consumo di carburante – quanto nel produrre un danno alla cittadinanza, finalizzato a una pressione sui poteri pubblici”. E’ qui che la protesta ha perso Perdendo il “carattere di eccezionalità”, la protesta ha “assunto frequentemente un carattere marcatamente opportunistico, con il grave issimo difetto di confondere tutti nel gruppo degli scioperanti, tra chi vuole solo approfittare di un weekend lungo e chi invece manifesta reale consenso alle istanze sindacali”. Ciò ha tolto allo sciopero “il valore morale che originariamente aveva e ha isolato il sindacato suscitandogli contro l’ostilità dell’opinione pubblica prevalente”. Com’è stato nel caso dei tagli governativi alla Rai con la retromarcia del sindacato dei giornalisti, l’Usigrai, da una protesta impopolare che ha diviso i confederali (Cgil e Uil intransigenti, Cisl dialogante). Quale altra forma di contestazione allora? “Non ci si deve preoccupare troppo se lo sciopero perde il carattere della ‘normalità sindacale’ che ha assunto negli ultimi decenni, recuperando la natura eccezionale che deve essergli propria”, dice Ichino. “La negoziazione delle condizioni di lavoro deve basarsi sulla ‘madre di tutte le sanzioni’ di cui i lavoratori dispongono: la minaccia di porre la loro professionalità al servizio di altri. Usare il mercato del lavoro minacciando efficacemente non lo sciopero, che distrugge ricchezza e fa danno anche agli scioperanti stessi, ma l’ingaggio di un imprenditore diverso. Nell’economia globalizzata questo è diventato sempre più a portata di mano, quando c’è un sindacato che sa fare il proprio mestiere.