LAVORO: IL MOLTO CHE RESTA DA FARE

CODICE SEMPLIFICATO DEL LAVORO, CONTRATTO DI LAVORO A PROTEZIONE CRESCENTE, SERVIZI PER L’IMPIEGO, ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO E APPRENDISTATO “DUALE”, ATTIVAZIONE DEL PROGRAMMA YOUTH GUARANTEE (OGGI IN GRAVE RITARDO): UN’AGENDA FITTA E MOLTO IMPEGNATIVA

Intervista a cura di Stefano Regondi in corso di pubblicazione sul numero di giugno del mensile dell’Enaip Extra Moenia.

Senatore come giudica complessivamente il d.l. Poletti sul lavoro convertito in legge il 15 maggio scorso?
Pur con diversi difetti di chiarezza su alcuni punti, peraltro agevolmente superabili con l’ausilio degli interventi e degli ordini del giorno che hanno accompagnato l’approvazione del testo legislativo in Senato, si tratta di un provvedimento utile e importante, che abbatte in parte il muro oggi frapposto dall’ordinamento tra domanda e offerta di lavoro regolari.

La flessibilità che porta nel circuito lavorativo le pare un buon dispositivo per ridare ossigeno al sistema?
Oggi le imprese italiane operano in una condizione di incertezza accentuatissima circa il futuro, anche a breve termine: incertezza non soltanto riguardo al se e al quando dell’uscita dalla congiuntura sfavorevole, ma anche riguardo a eventi che possono accadere nelle parti più lontane del globo, e che pure assumono una rilevanza notevolissima per l’andamento della nostra economia: si pensi, per esempio, all’andamento dell’economia cinese e di quella indiana, cioè di due nazioni dove vivono due miliardi e mezzo di persone, con la quale la nostra è sempre più strettamente interconnessa. Se il diritto del lavoro non si adatta a questa nuova situazione, esso finisce con l’avere effetti negativi sui livelli occupazionali. La sicurezza economica e professionale delle persone che lavorano resta sempre un obiettivo fondamentale; ma non può più essere costruita con l’ingessatura del rapporto di lavoro.

Ma era davvero principalmente la disciplina del contratto a termine che costituiva l’ostacolo decisivo?
No: anche la disciplina del contratto a tempo indeterminato è oggi troppo rigida, in relazione alla situazione di incertezza di cui si è detto. Ed effettivamente io avrei preferito che il decreto Poletti intervenisse sia sul versante del contratto a termine, sia su quello del contratto a tempo indeterminato: sarebbe stato un intervento più equilibrato, e anche più incisivo. Tuttavia va dato atto al Governo della perdurante forte opposizione della sinistra sindacale e politica – anche all’interno del Partito Democratico – a qualsiasi modifica della disciplina dei licenziamenti nel rapporto a tempo indeterminato, che ha reso necessario procedere come ha fatto il ministro Poletti. Ora, finalmente, quella stessa sinistra politica e sindacale si sta accorgendo di come la difesa a oltranza della vecchia disciplina del contratto a tempo indeterminato finisca col renderlo assai poco “competitivo” rispetto al contratto a termine liberalizzato; possiamo dunque confidare che, in sede di approvazione della legge-delega sul lavoro, venga dettata una disciplina organica più flessibile anche su questo versante. Lo stesso decreto Poletti, del resto, nel suo preambolo annuncia l’emanazione di un Codice semplificato del lavoro, in cui il contratto a tempo indeterminato assumerà la forma e la sostanza di un “contratto a protezione crescente”.

Per quanto riguarda gli apprendistati, nel decreto Poletti il principale intervento riguarda la quota di rapporti che le aziende devono trasformare in assunzione prima di poter avviare nuovi apprendistati: la quota viene ridotta al 20%, e si applicherà solamente per le aziende con più di 50 dipendenti. Nei percorsi di apprendistato viene definito un sistema di alternanza scuola-lavoro e sono introdotte modalità semplificate per la compilazione del piano formativo individuale sulla base di moduli e formulari stabiliti da enti bilaterali e dalla contrattazione collettiva. Il modello è quello tedesco? Se sì, è davvero perseguibile in un territorio così diverso come l’Italia?
Il riferimento al modello tedesco, nel decreto Poletti, compare soltanto nella disposizione che richiama l’“apprendistato duale” e l’alternanza scuola-lavoro. Ma è un modello che oggi – se si esclude qualche buna esperienza emiliana – soltanto le province autonome di Bolzano e Trento sono in grado di attivare per davvero. Nel resto del Paese siamo purtroppo molto lontani da quel modello. Col risultato che scuola e tessuto produttivo riescono a dialogare troppo poco e male; e conseguentemente l’apprendistato non riesce a decollare come canale normale per l’inserimento dei giovani nel tessuto produttivo.

Sul fronte del lavoro c’è poi il tema della Garanzia Giovani, programma europeo operativo in Italia dal 1° maggio, che ci porta in dote 1,5 miliardi di euro per il biennio 2014-2015 per favorire l’occupazione degli under 24. Come deve essere utilizzato questo patrimonio dalle istituzioni?
Il programma Youth Guarantee potrebbe costituire una grande occasione per rimettere in moto il nostro mercato del lavoro nel segmento giovanile, dove esso è più in crisi. Il guaio è che stiamo rischiando di sprecare questa grande occasione e le risorse che essa potrebbe portare con sé.

In che senso stiamo rischiando di sprecarla?
Incominciamo col dire che avremmo dovuto, secondo la raccomandazione europea dell’aprile 2013, partire il 1° gennaio di quest’anno, e invece ufficialmente siamo partiti soltanto il 1° maggio: quattro mesi di ritardo costituiscono una colpa grave, in un Paese che conta più del 40 per cento di disoccupazione giovanile. Ma ancor più grave è il fatto che il 1° maggio il programma è partito soltanto sulla carta: in realtà, siamo ai primi di giugno e ancora nessun giovane, tra i primi 60.000 che si sono iscritti attraverso il portale nazionale, è stato contattato dai Centri per l’Impiego, perché non è ancora stato attivato l’accesso delle Regioni ai dati raccolti attraverso quel portale. Se tutto va bene, nelle Regioni più attive e meglio attrezzate i primi colloqui partiranno a metà giugno, con quasi sei mesi di ritardo rispetto alla data di attivazione del programma europeo. Inoltre gli Assessori regionali al Lavoro non sono ancora in grado di governare direttamente il personale dei Centri per l’Impiego, che dipendono dalle Province, ora “commissariate”, in attesa della riforma costituzionale che abolirà questo livello di amministrazione. Se non saremo capaci di dare un forte colpo di reni, vedo un serio rischio che l’Italia finisca col non essere in grado di utilizzare una parte consistente del finanziamento europeo; se non – Dio non voglia – col perderlo quasi del tutto.

Le statistiche ufficiali parlano di una perdita complessiva, in Europa, di circa 10 milioni di occupati nella fascia di popolazione con meno di 40 anni tra il 2007 e il 2012, pari a un calo di 9,5 punti percentuali. I dati Eurostat restituiscono un’Italia ultima per numero di laureati (22,4%) e prima per disoccupazione giovanile (42,7%). Oltre alle “risposte normative” quali asset occorre sfruttare per rilanciare il capitale umano del nostro Paese?
Innanzitutto è necessario rimettere in moto il mercato del lavoro, in modo che torni ad aumentare il tasso di occupazione femminile, quello giovanile e quello dei cinquantenni e sessantenni: un primo modo efficacissimo per valorizzare il capitale umano consiste nell’attivarlo, utilizzarlo effettivamente nel tessuto produttivo. Poi è indispensabile una riqualificazione del nostro sistema scolastico, di quello della formazione professionale e di quello universitario: ma questo non può che essere un processo lungo, capace di produrre risultati positivi solo a distanza di diversi anni.

Si moltiplicano le cronache di giovani, specialmente al Sud Italia, che dopo anni di studi si trovano costretti a fare ritorno in famiglia per la mancanza di lavoro: ne derivano notevoli e drammatici disagi sociali. Come possono diventare una risorsa queste esperienze per i giovani e per il contesto in cui operano (famiglie, istituzioni, etc.)?
Le vie d’uscita per le popolazioni che si trovano in situazioni di arretratezza economica, oggi, sono solo due: la prima consiste nell’imparare a “ingaggiare” il meglio dell’imprenditoria mondiale, quella più capace di valorizzare il lavoro delle persone, inducendola a insediarsi in casa loro. Questa è una strategia molto diversa rispetto al rivendicare un capitalismo sovvenzionato dallo Stato, come abbiamo fatto finora per il nostro Mezzogiorno. Per praticare questa strategia occorre imparare a valutare i nuovi piani industriali, la capacità imprenditoriale di chi li propone, e, se la valutazione è positiva, essere disposti a una scommessa comune con l’imprenditore sulla riuscita dell’intrapresa: cioè essere disposti, oltre che a negoziare a 360 gradi le condizioni di lavoro, anche a rischiare qualche cosa in proprio. Se non si è capaci o disposti a farlo, l’unica altra via d’uscita è la mobilità: spostarsi dove le proprie capacità sono meglio valorizzate. La migrazione non corrisponde sempre soltanto a un impoverimento delle regioni d’origine: accade anche che dopo qualche tempo gli emigranti ritornino in patria portando con sé esperienze, competenze e relazioni preziose per impiantare nuove imprese di successo nelle terre d’origine. In ogni caso, non vedo alternative serie oltre a queste due.

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