LA RATIO DI UNA SCELTA IN MATERIA DI SANZIONE PER IL CONTRATTO A TERMINE IRREGOLARE, CONTESTATA UN PO’ TROPPO AFFRETTATAMENTE DAI LEADER DI CGIL E CISL, MA CHE CORRISPONDE ALL’ESSENZA DELLA SVOLTA NELLA POLITICA DEL LAVORO PERSEGUITA DAL GOVERNO
Commento all’emendamento 1.3000 all’articolo 1 del d.-l. n. 34/2014, presentato dal Governo il 2 maggio 2014 alla Commissione Lavoro del Senato
.
Il secondo emendamento presentato dal Governo all’articolo 1 del decreto-legge n. 34 (comma 1, lettera b-septies) riguarda la sanzione civile destinata ad applicarsi nel caso in cui il contratto a termine sia stato stipulato in eccedenza rispetto al limite del 20 per cento dell’organico aziendale. La sanzione prevista consiste in una ammenda amministrativa, pari a un quinto della retribuzione complessiva oggetto del contratto in questione per il primo caso di superamento del limite nella singola unità produttiva, che aumenta alla metà della retribuzione complessiva per i casi successivi. Questa scelta è stata vivacemente contestata nei giorni scorsi in Commissione dai Colleghi del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Ecologia e Libertà, e fuori dal Parlamento dai segretari generali di Cgil, Cisl e Ugl – ma non dalla Uil – per il suo contenuto di rottura rispetto alla sanzione tradizionalmente applicabile nei casi di questo genere, secondo un orientamento giurisprudenziale nettamente prevalente, cioè rispetto alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Ciò che ha indotto Governo e maggioranza a questo nuovo orientamento sono tre considerazioni.
La prima considerazione riguarda l’evidente irrazionalità di una sanzione che comporti la stabilizzazione non del contratto a termine stipulato in azienda da maggior tempo, ma di quello stipulato per ultimo: perché mai proprio l’ultimo assunto dovrebbe “vincere il terno al lotto”, essendo stabilizzato lui invece di chi già lavora a termine nell’azienda, magari da un anno o due?
La seconda considerazione, assai più radicale, riguarda il mutamento del presupposto negoziale tipico che giustifica il vecchio orientamento giurisprudenziale nel senso della conversione a tempo indeterminato. Questo orientamento tradizionale si è sempre fondato sulla presunzione secondo la quale il termine finale pattuito costituisce, nell’intendimento dell’imprenditore stipulante, soltanto un espediente per eludere la disciplina del licenziamento, ma non un elemento essenziale del contratto, poiché l’imprenditore stesso avrebbe comunque stipulato il contratto stesso anche senza quella clausola; cioè lo avrebbe comunque stipulato, anche a tempo indeterminato. Senza questo presupposto – si osservi attentamente – non si giustificherebbe che, essendo dichiarata nulla l’apposizione del termine, il contratto venga tuttavia conservato in vita e stabilizzato. Se, invece, il termine apposto costituisce per lo più elemento essenziale del contratto, poiché senza quel termine esso non sarebbe stato stipulato – come è ragionevole presumere, nella situazione di incertezza enormemente maggiore rispetto al passato in cui oggi operano le nostre aziende – , allora la sanzione per la irregolarità del termine apposto non può evidentemente più consistere nella nullità della relativa pattuizione accompagnata dalla conversione del contratto stesso in contratto a tempo indeterminato. Si potrà prevedere la sanzione economica ritenuta più efficace, ma l’imposizione del contratto di lavoro stabile sine die è una forzatura inaccettabile rispetto ai principi generali dell’ordinamento.
La terza considerazione è infine questa: se il contratto a termine non è più considerato in sé una anomalia che necessita una specifica giustificazione per essere ammesso dall’ordinamento, bensì un tipo contrattuale – certo non l’unico – di cui l’impresa può avvalersi liberamente per il primo inserimento di un lavoratore in azienda, come dispone l’articolo 1 del decreto, la sanzione correlata a una circostanza estrinseca rispetto al singolo contratto (ovvero il fatto che ci sia già in azienda un 20 per cento di dipendenti assunti in quella forma) non può evidentemente più consistere come in passato nella conversione del contratto a tempo indeterminato: essa può e deve consistere in una diversa misura, dotata di un’adeguata efficacia deterrente (anche in ossequio alla direttiva europea n. 1999/70), ma non sconvolgente rispetto all’assetto negoziale del rapporto tra le parti.
Il discorso si sposta così dalla ratio della scelta di una tecnica sanzionatoria diversa rispetto al passato alla ratio della quantificazione della sanzione pecuniaria. La sua determinazione nel 20 per cento della retribuzione lorda corrisponde all’intendimento, per un verso, di collocare l’esborso al di sopra del “ricarico” normalmente praticato dalle agenzie specializzate nella somministrazione di manodopera, il quale si aggira per lo più intorno al 15 per cento della retribuzione lorda; per altro verso di non penalizzare in modo eccessivo il primo sforamento rispetto al limite, che può essere causato da mera imprecisione nel computo degli organici aziendali. Quando invece il contratto a termine eccedente il limite non sia il primo, la sanzione aumenta al 50 per cento della retribuzione oggetto del contratto irregolare: un aumento di costo evidentemente idoneo a scoraggiare efficacemente qualsiasi abuso, senza generare la distorsione e l’irrazionalità della stabilizzazione del solo “ultimo contratto stipulato”.
.