25 APRILE: IL DOVERE DELLA MEMORIA

A TRATTI I NAZISTI RIUSCIRONO A FAR PASSARE LE LORO ATROCI RAPPRESAGLIE COME ATTI DI GIUSTIZIA RETRIBUTIVA; ED È TRISTE CHE NEL CASO DELLA STRAGE DELLE FOSSE ARDEATINE ESSI SIANO STATI IN QUALCHE MODO ASSECONDATI IN QUESTA FALSIFICAZIONE ANCHE DA UN INFELICISSIMO (QUANTO GELIDO) COMMENTO DEL QUOTIDIANO VATICANO

Brani tratti dal libro di Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (Donzelli, 1999)

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“Il 25 marzo 1944, i lettori dei giornali romani trovarono il seguente comunicato dell’agenzia ufficiale Stefani, emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22,55 del 24 marzo: ‘Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti.
La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. (…) Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. (…) Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. L’ordine è già stato eseguito’.”

Lo storico Alessandro Portelli dedica, nel 1999, il libro frutto delle sue accurate ricerche (L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli) a confutare il luogo comune “intriso di disinformazione”, invalso dopo l’attentato di via Rasella, per cui la rappresaglia tedesca si sarebbe potuta evitare se i partigiani attentatori “si fossero presentati”: mentre, per dirla con le sue parole, “l’annuncio della rappresaglia fu dato solo dopo che era già stata eseguita. Non ci fu nessuna richiesta allora e nessuna occasione di ‘presentarsi’ ai tedeschi per evitarla. Non ci fu nessun manifesto affisso sui muri, nessun comunicato radio, nessun serio tentativo di catturare chi aveva compiuto l’azione.”

Secondo Portelli, l’editoriale pubblicato il 25 marzo dall’organo ufficiale della Santa Sede, L’Osservatore Romano, “è in questo senso un testo esemplare e fondante”: ‘Di fronte a simili fatti – scrisse allora L’Osservatore – ogni animo onesto rimane profondamente addolorato (…). Trentadue vittime da una parte; trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto, dall’altra (…) invochiamo dagli irresponsabili il rispetto della vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai; il rispetto per l’innocenza che ne resta fatalmente vittima; dai responsabili la coscienza di questa loro responsabilità, verso se stessi, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà”. “È appena avvenuto il massacro delle Fosse Ardeatine, ma le vittime sono solo i tedeschi; gli uomini uccisi alle Ardeatine compaiono solo come “persone ‘sacrificate’”. E’ difficile immaginare che l’organo ufficiale della Chiesa cattolica usi un termine come sacrificate in maniera neutra, casuale. Un sacrificio, atto di rendere sacro, è la riparazione per una colpa, un gesto di purificazione. (…) Di chi sia la colpa che rende necessario il sacrificio non c’è dubbio: i ‘colpevoli sfuggiti all’arresto’”. Il “vero successo” a distanza della terribile rappresaglia nazista sta proprio nello “spostamento della colpa sui vili partigiani” nascosti e, dunque, “irresponsabili”; nell’essere riusciti ad “avvelenare la memoria dell’evento, e con essa quella della resistenza, dell’identità e dell’origine della Repubblica”.

Proprio per questo Portelli, dopo averci condotto per mano attraverso la realtà di una città terrorizzata dai ripetuti eccidi tedeschi, affamata e in balia della borsa nera, tagliata fuori dalle notizie (non tutti potevano permettersi la radio), giunge a raccontare di quello che gli appare “il momento più alto del processo Priebke”, la testimonianza di Giulia Spizzichino (ebrea come moltissimi degli uccisi alle Ardeatine) che nella strage perse sette parenti, e che risponde alla domanda del PM se costoro fossero in qualche modo implicati nell’attentato di via Rasella: ‘Ma assolutamente, assolutamente no. L’unica arma che conoscevano era il coltello da macellaio, perché facevano tutti e tre i macellai.’ (…) Ma poi, anziché partire da questo per separarli dai partigiani, ha uno scatto di orgoglio: ‘Magari potessi dire che erano lì per combattere per la libertà di Roma, ingiustamente e inutilmente chiamata Roma città aperta. Non posso farmi questo vanto.’. Ma i suoi parenti, la famiglia Di Consiglio sterminata alle Ardeatine e nei lager, se quando sono stati presi non facevano parte della Resistenza, “ne fanno parte adesso, grazie alla coscienza e alla memoria di chi è vissuto per ricordarli. Quanto vorrei – esclama Portelli – che avessimo parole nuove capaci di designarli tutti insieme. Martiri ha una connotazione religiosa troppo forte, una speranza di ricompensa ultramondana, che non sempre rispecchia tutte le soggettività; il più laico eroi ha connotazioni superomistiche, maschili, militaresche (come, in forma più attenuata, caduti). Avremo mai parole laiche e civili per designare questi fondatori della nostra coscienza, parole che non li consegnino, col solo nominarli, alla bandiera e al Crocifisso, alle Chiese e agli Eserciti, delegati permanenti all’amministrazione della morte?”

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