L’INTERVENTO DEL RAPPRESENTANTE DI SC SUL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO E I MODELLI DISPONIBILI NEL PANORAMA INTERNAZIONALE
Intervento svolto da Alessandro Maran nella sessione della prima Commissione permanente del Senato, Affari costituzionali, il 24 aprile 2014, in sede di discussione generale del disegno di legge costituzionale n. 7/2014 e connessi (revisione della Parte II della Costituzione)
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Come ha ricordato la relatrice, i disegni di legge propongono una serie di proposte ispirate a differenti impostazioni di politica costituzionale, che però hanno in comune l’obiettivo di offrire una soluzione alle criticità e alle disfunzioni del nostro sistema istituzionale.
Il testo base? Quello del Governo
Dico subito che, visti i testi depositati, il disegno di legge del Governo merita senz’altro di essere assunto come testo base, Ovviamente, da altri si potranno trarre emendamenti utili.
La proposta di riforma costituzionale del Governo presenta novità interessanti, qualche soluzione decisamente condivisibile e, com’è naturale, anche alcuni punti criticabili. Rilevo, tuttavia, che un osservatore competente e attento come il prof. Roberto Bin ha scritto addirittura che, di tutti i testi di riforma del Titolo V che sono stati prospettati dopo la riforma del 2001, quello attuale è l’unico che meriti seria attenzione.
Il testo si ispira alle soluzioni adottate dalle grandi democrazie europee e alle conclusioni più largamente condivise del dibattito italiano sulle riforme, da ultimo con la commissione nominata dal governo Letta.
Le critiche di principio all’impianto, che ripropongono vecchie anomalie nazionali o ne propongono di nuove, sono per lo più il frutto di un antistorico «complesso del tiranno».
E’ appena il caso di sottolineare, infatti, che fu voluto dalla Costituente un sistema di governo debole, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal governo; e un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato un utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Un relitto di quando ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro.
Non per caso, tutte le volte che viene posto all’ordine del giorno il tema della riforma costituzionale (in modo da dare ai governi italiani quella stessa forza istituzionale che hanno i governi in tutte le altre democrazie europee), si torna a parlare di svolta autoritaria o si tira fuori la P2.
Una democrazia «normale»?
Da quando in Italia si discute di riforme istituzionali (più o meno dalla fine degli anni ’70, cioè dall’inizio della crisi della rappresentanza delle forme politiche tradizionali: la Commissione Bozzi è infatti del 1983), la questione di fondo è sempre la stessa: l’Italia può essere, può diventare, una democrazia parlamentare «normale» o no? Ossia una democrazia nella quale chi vince le elezioni può attuare il suo programma dentro un quadro di garanzie (fornite soprattutto dalla Corte costituzionale) e nella quale la valorizzazione delle autonomie avviene senza conflittualità paralizzanti tra centro e periferia?
Il nodo politico sulla riforma del bicameralismo sta tutto qui. E, come sempre, il discrimine, lo spartiacque, è tra chi vuole cogliere l’occasione (offerta dalla crisi economica o dalla necessità di adeguare il nostro sistema istituzionale, poco importa) per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile, perché, manco a dirlo, «l’Italia è diversa», perché «in Italia queste cose non si possono fare», ecc.
Negli altri Paesi chi vince le elezioni nella prima Camera governa: le garanzie che non travalichi i limiti posti dalla Costituzione sono date dall’organo di giustizia costituzionale e non da un Senato pensato per fare (in modo anomalo) da contraltare al Governo. Le seconde Camere che non danno la fiducia (e dove il Governo non può porre la fiducia) hanno un potere paritario solo su leggi costituzionali e poco altro perché non devono impedire la governabilità. Anche la materia dello sviluppo dei diritti garantiti dalla Costituzione vede prevalere ovunque la prima Camera (sempre sotto i vincoli posti dalle Corti): quasi tutta la legislazione chiave varata dai Parlamenti tocca i diritti ed è compresa nelle piattaforme con cui ci si candida per il Governo.
Una seconda Camera serve davvero?
Per prima cosa, allora, ci si deve chiedere qual è la ragione d’essere di una seconda Camera oggi? Anche perché se non si trova una ragione convincente, il Senato sarebbe meglio abolirlo del tutto. Del resto, l’ipotesi di una pura e semplice abolizione del Senato non si vede quali controindicazioni avrebbe. Specie se l’obiettivo è solo quello di risparmiare.
Quel che occorre è un contrappeso?
A mio giudizio, non ha alcun senso politico e istituzionale ipotizzare che la seconda Camera debba avere la sua giustificazione in un ruolo politico di contrappeso rispetto alla prima, sia esplicito (mantenendo un doppio rapporto fiduciario) sia implicito (allargando l’area delle leggi bicamerali paritarie, rispetto al progetto del Governo, con clausole generiche, potenzialmente espansive e veicolo di conflitti di competenza come il riferimento ai diritti delle persone).
In questo modo, non rappresenterebbe affatto le autonomie ma sarebbe un doppione «peggiorato» della Camera. Perché l’unica garanzia certa sarebbe quella di minare la governabilità, portando a una «grande coalizione» di fatto con i principali gruppi parlamentari del Senato, anche quelli che fossero risultati perdenti alla Camera.
Del resto in che cosa dovrebbe consistere la garanzia? Specie se si considera che si tratta di un’esigenza che l’ordinamento affida già alla Corte costituzionale oltre che al Presidente della Repubblica. I diritti costituzionali devono essere tutelati dalla Corte (casomai prevedendo il ricorso preventivo davanti ad essa da parte di minoranze parlamentari), ma se la Costituzione non è violata, siamo di fronte a scelte di cui si deve assumere la responsabilità la maggioranza parlamentare.
Quel che occorre è un luogo di raccordo con i territori
Per come la vedo io, la ragione fondamentale di una seconda Camera è quella di essere luogo di raccordo con i territori completando e correggendo il disegno iniziato con la riforma del Titolo V. Fuori da questo schema non si giustifica nessuna seconda Camera.
Vediamo di ricapitolare. C’era una volta il «federalismo»; la domanda, cioè, di autonomia e di riforme istituzionali. Dopo anni di mancate promesse, la credibilità del federalismo è sfumata. Ma oggi che il federalismo non gode di grandissima popolarità e sembra diventato un problema, non sarebbe male tenere a mente che, per dirla con Ilvo Diamanti, quella di nuove regole e di nuove istituzioni è una strada «imposta da emergenze e fratture» che abbiamo scelto proprio «per sanare il contrasto fra società e Stato, fra società e politica». Un contrasto che non è risolto per il fatto che ora di marce sul Po non se ne fanno più e i giornali (e le associazioni degli industriali) hanno smesso di parlare del Veneto come se fosse l’Ulster. Non foss’altro perché una delle componenti del pensiero federalista è sempre stata la ricerca di spazi di autonomia e di libertà per i cittadini, proprio attraverso forme di contenimento e di distribuzione articolata del potere pubblico.
Un sistema regionale?
Parlo di «federalismo» perché, si sa, non c’è nessun indice preciso che consenta di distinguere un sistema federale da un sistema regionale: entrambi cercano di combinare una certa misura di unità con una certa misura di diversità. La distinzione guarda essenzialmente al passato, al modo in cui il sistema, lo Stato, si è formato. I sistemi regionali sono il frutto di un processo di decentramento delle funzioni di uno stato centralizzato (così l’Italia, la Spagna, la Francia e ora il Regno Unito). Di fronte ai grandi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi settant’anni nell’organizzazione e nella funzione dello Stato (le sollecitazioni sono state più o meno le stesse dovunque), più o meno gli stessi sono stati i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare e più o meno le stesse sono state anche le risposte elaborate. In Germania la Costituzione è stata modificata più di 50 volte dal 1949; e l’incisiva riforma del federalismo tedesco, approvata nel 2006 e diretta ad un miglioramento della capacità decisionale della Federazione e dei Laender, ha modificato 25 articoli della legge fondamentale.
La nostra Repubblica non è più quella di prima
Resta il fatto che la nostra Repubblica non è più quella di prima; è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. È da un pezzo che, ad esempio, la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco (a ben guardare, al «Sindaco d’Italia» ci siamo arrivati) e, comunque la si consideri, la riforma del Titolo V (che Augusto Barbera ha definito “sgangherata”) voluta dal centrosinistra, al termine della legislatura, sotto il secondo governo di Giuliano Amato, e confermata dal voto popolare del referendum del 7 ottobre 2001, ha apportato alla parte della Costituzione che regola i rapporti tra stato, regioni ed enti locali, modifiche molto profonde. E da qui bisogna partire.
I difetti della riforma del Titolo V
Che il Titolo V presenti seri difetti di funzionamento è ormai opinione condivisa. Il primo punto critico sta proprio nell’eccessiva fede riposta nel riparto per materie. L’ordinamento e le sue leggi non si prestano ad essere incasellate in apposite materie; e, in ogni caso, la predeterminazione delle materie non può essere esaustiva e rassicurante: emergeranno materie sempre nuove e sempre nuovi saranno gli intrecci tra l’una e l’altra di esse. La linea di confine tra materie è dunque incerta per definizione. Ma la mobilità del confine di per se non è un male, dato che gli ordinamenti federali moderni propendono per un riparto flessibile delle competenze, per «un sottile gioco di interferenze». Questa mobilità si trasforma in un problema molto difficile da risolvere quando mancano gli strumenti del coordinamento: in particolare, quando manca un ramo del Parlamento che possa assumere un ruolo di mediazione e di assorbimento dei conflitti tra Stato e autonomie.
La mancanza del luogo parlamentare di mediazione è, dunque, il secondo punto critico della riforma. Senza contare che in carenza di una stanza di compensazione istituzionale degli interessi, l’incertezza genera numerosissimi conflitti che sono devoluti alla Corte costituzionale, la quale si ritrova costretta a dirimere questioni che hanno un considerevole tasso di opinabilità interpretativa e di politicità. Il che non favorisce la fisiologica composizione degli interessi, ma incoraggia l’emersione del conflitto e la giurisdizionalizzaione dei rapporti tra interessi centrali e interessi del territorio. Insomma, non disponendo il Parlamento degli strumenti necessari, il luogo nel quale si sono sciolti i primi nodi si è spostato presso la Corte Costituzionale. E questa metamorfosi della politica in contenzioso giuridico ha imposto alla Corte, come ha sottolineato il suo Presidente, «un ruolo di supplenza non richiesto e non gradito».
Ma la riforma del Titolo V la vogliamo correggere o azzerare?
Posto dunque che l’attuale bicameralismo è insostenibile, la domanda è molto semplice: si vuole aggiustare e rivedere quella riforma, com’è necessario e urgente, o si ritiene invece che la riforma del Titolo V vada azzerata per ritornare allo status quo precedente?
A me pare che quello di tornare indietro sia un obiettivo arduo e irrealistico, oltre che poco condivisibile. Basterebbe chiedersi: se buona parte dell’attuazione amministrativa delle leggi grava sulle regioni e sul governo locale, come si fa a governare contro il sistema delle autonomie?
Ma se davvero abbiamo cambiato idea, se pensiamo davvero che non c’è modo di far funzionare le Regioni, se riteniamo, come è stato detto, che «il ceto regionale ha dato pessima prova», allora il Senato sarebbe meglio abolirlo del tutto.
Se invece vogliamo dare un ruolo effettivo ad una seconda Camera che non dispone più del voto di fiducia, la soluzione migliore è quella che assegna al nuovo Senato un ruolo circoscritto ma incisivo nel procedimento legislativo, sulla base di una esigenza reale di completamento della riforma del Titolo V. Anche perché il Titolo V, sia pure debitamente riscritto, funziona solo se ha come terminale una camera in cui sono responsabilizzati i legislatori regionali.
Il Senato delle Autonomie: come il Bundesrat
Vengo alla composizione del Senato. Se vogliamo mantenere l’impianto del Titolo V, bisogna fare una Camera regionale. Come? Si può ovviamente fare in molti modi. Il modello più sensato è però quello del federalismo tedesco, nel quale la seconda camera, il Bundesrat, non è elettiva ma è formata da rappresentanti dei governi regionali.
La Legge Fondamentale precisa infatti che tanto i partiti (attraverso i loro Parlamentari al Bundestag) quanto i Länder (grazie ai componenti degli Esecutivi regionali) collaborano («mitwirken») alla realizzazione della politica tedesca a livello federale. La funzione che deve rivestire il Senato in un assetto propriamente federale è chiara: non solo «Camera di riflessione» rispetto alle deliberazioni assunte nel primo ramo del Parlamento, ma, soprattutto, luogo di rappresentanza, nel processo decisionale della Federazione, degli enti territoriali (indipendentemente dalla loro denominazione di «Stati» o di «Regioni») che la compongono. Non è un caso, infatti, che in Germania la seconda Camera non sia organizzata in Gruppi parlamentari come il Bundestag, e che di norma nelle sue commissioni prevalgano gli orientamenti più propriamente tecnici su quelli partitici.
Dunque, se vogliamo mantenere un assetto regionale (e vogliamo finalmente farlo funzionare), dobbiamo fare il Bundesrat o qualcosa che gli somigli molto.mPerché bisogna evitare di riproporre anche nella seconda Camera le stesse contrapposizioni (dipendenti dalle influenze e appartenenze partitiche) che caratterizzano la quotidianità del ramo direttamente elettivo del Parlamento; finendo, in prospettiva, per snaturare il Senato in un improprio strumento di opposizione alla linea politica della maggioranza parlamentare, più probabile nell’eventualità in cui l’orientamento politico prevalente nella seconda Camera risulti di segno diverso da quello rappresentato nella prima. A farne le spese sarebbe lo stesso assetto regionalistico dell’organizzazione statuale.
Prendo atto che la proposta del governo si discosta dalla mia impostazione (per alcuni aspetti) e ritengo che andrebbe modificata andando il più possibile nella direzione che ho illustrato. Trovo perciò incoerenti i 21 senatori di nomina presidenziale e il carattere paritario tra sindaci e consiglieri regionali in una Camera che serve a mettere in dialogo i legislatori statali e regionali e che quindi dovrebbe essere più regionale. E trovo meno convincente ancora l’idea di inserire anche le cosiddette autonomie funzionali. Immettere un surrogato del Cnel, finalmente soppresso, nel Senato ne confonde la funzione di rappresentanza degli interessi territoriali. Sia i «saggi», nominati dal Presidente e quasi in rapporto fiduciario con lui (la durata pari al settennato del Presidente rende la loro posizione assai ambigua), sia la presenza di personalità non derivanti dal suffragio universale, possono incidere sulla formazione delle maggioranze. Ma il Senato delle Autonomie vota a maggioranza semplice, per cui l’eventuale contrasto di interessi tra regioni può finire con essere deciso dal voto dei «saggi». Mi sembra francamente sbagliato. Il Senato deve rappresentare gli interessi territoriali e nient’altro.
Inoltre, analogamente al modello tedesco, le Regioni possono essere suddivise in relazione agli abitanti, in modo da garantire un numero di seggi parzialmente diversificato che tenga conto delle differenze.
Sarebbe poi altamente preferibile sul meccanismo di voto adottare, come nel Bundesrat, come metodo ordinario il voto unitario per delegazione regionale. Ogni regione decide come votare nell’Assemblea ed esprime i suoi voti in modo unitario. Il che significa che il voto della regione è dichiarato “a pacchetto” da un unico portavoce, scelto di volta in volta dai diversi rappresentanti, secondo il modello tedesco (che è poi, in linea di principio, non dissimile da quello del Consiglio dell’Unione). E ovviamente, se tutti i componenti del Senato delle Autonomie rappresentano i territori, se non sono eletti direttamente come senatori, non ha senso vietare il vincolo di mandato.
Le competenze
Vengo alla ripartizione di competenze tra legge statale e regionale. Un punto critico mi pare la riserva di legislazione esclusiva in capo allo Stato in materia di “legislazione elettorale, organi di governo, principi generali dell’ordinamento e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane”. So bene che questo risponde alla visione centralistica dell’Anci, che teme di più il centralismo della regione rispetto a quello del ministero degli interni, ma la logica del sistema costituzionale non può piegarsi alla logica delle corporazioni.Meglio sarebbe dedicare al tema un comma apposito, spiegando cosa debba essere riservato allo Stato (il meno possibile) e cosa possa essere disciplinato dalle regioni, applicando il principio di sussidiarietà e (soprattutto) di differenziazione. Le garanzie di un livello adeguato di autonomia comunale rispetto alla regione andrebbero ricuperate prevedendo vincoli procedurali nella formazione delle leggi regionali relative agli enti locali.
Inopportuno mi sembra anche mantenere le Città metropolitane tra gli enti che “costituiscono la Repubblica” e citarle poi in seguito accanto ai comuni e alle regioni. Mi sembra fuori luogo porre un ente non necessario, quali sarebbero le Città metropolitane, sulla stessa linea degli enti necessari. Già con le province si è dovuto fare marcia indietro, converrebbe imparare la lezione. Che, inoltre, alla disciplina delle Città metropolitane si proceda con una (unica) legge nazionale mi pare un errore, che la loro previsione in Costituzione aggraverebbe: Roma e Firenze, Reggio Calabria e Milano non devono essere soggette allo stesso modello legislativo, perché devono necessariamente essere diverse. Bisognerebbe tenere fermo un punto: la differenziazione è lo scopo dell’autonomia e l’autonomia è lo strumento della differenziazione.
Più in generale, sul riparto di funzioni legislative e amministrative, va detto che la giurisprudenza costituzionale ha già sistemato le competenze secondo un quadro non molto diverso da quello contenuto nel disegno di legge governativo.
Quasi tutti i risultati che si vorrebbero ottenere eliminando le materie concorrenti (che non sono affatto quelle su cui si è sviluppato il contenzioso più pesante) o allargando il catalogo delle competenze esclusive dello Stato sono già stati da tempo assicurati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Ma é una prospettiva sbagliata.
Prevenire il contenzioso
Gli elenchi delle materie dovrebbero servire a risolvere il contenzioso tra Stato e Regioni. Il guaio é che il nostro principale problema non è come risolvere il contenzioso, ma come evitarlo. E prevenire il contenzioso significa governare prevenendo il conflitto con comportamenti adeguati. Il contenzioso è nato soprattutto da un ruolo eccessivo delle burocrazie centrali e da una conseguente visione autoritaria del rapporto centro-periferia: è questo atteggiamento che va superato. Su questo punto si è soffermato il prof. Roberto Bin con osservazioni che potrebbero tornarci utili. Per questo chiedo che sia sentito nelle audizioni che abbiamo previsto. Il prof. Bin suggerisce, per esempio, «di recuperare l’esperienza fatta prima del 2001 con i decreti di trasferimento delle funzioni (quelli del 1970-71, il dPR 616/1977 e i “decreti Bassanini”, per intenderci) e con i decreti di attuazione degli Statuti speciali, prevedendo una procedura per il riempimento dei contenitori designati dalle “etichette” usate dall’art. 117 per definire le materie. Che cosa sia concretamente l’urbanistica o l’istruzione non può dirlo solo l’etichetta costituzionale della “materia”, né può essere delegato alla Corte costituzionale attivandola ogni volta che il problema si prospetti in relazione a una legge (statale o regionale che sia)».
«Il rimedio – secondo Roberto Bin – può essere trovato nella previsione che una legge bicamerale fissi le procedure per la formazione di atti amministrativi (per es. dPCM) “condivisi” (per es. con il parere conforme del Senato) ai quali spetta il compito di determinare il riparto delle funzioni e dei compiti all’interno delle singole materie. Le soluzioni tecniche possono essere diverse, ma il principio deve essere tenuto fermo: l’accordo politico tra stato e regioni definisce i rispettivi compiti settore per settore, e questa attività viene svolta quando è necessario, ossia quando e dove si stia addensando il conflitto sull’interpretazione del riparto delle funzioni».
Le norme transitorie
Ultima osservazione: è bene che la riforma costituzionale sia dotata di un apparato di norme transitorie che garantisca alle sue norme innovative di essere applicate da subito. E sarebbe opportuno che la riforma dicesse da subito, sia pure in via transitoria con una norma finale, come si compone il Senato delle Autonomie in attesa della legge ordinaria, chi la presiede, quali norme regolamentari si applicano per la prima seduta.
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