UNA STRATEGIA PER ABBATTERE IL MURO TRA DOMANDA E OFFERTA DI LAVORO

NONOSTANTE LE MODIFICHE APPORTATE DALLA CAMERA DEI DEPUTATI, IL DECRETO SUL LAVORO RESTA UN PASSAGGIO IMPORTANTE IN DIREZIONE DI UNA REGOLAZIONE PIÙ SEMPLICE E DI UN MERCATO PIÙ FLUIDO – IL PROVVEDIMENTO DEVE ESSERE PERÒ RIEQUILIBRATO SUL VERSANTE DEL RAPPORTO A TEMPO INDETERMINATO

Intervista a cura di Eleonora Voltolina, pubblicata sull’e-magazine Next Hr del sito repubblicadeglistagisti.it il 24 aprile 2014 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico Lo strano modo della sinistra di ragionare sul lavoro.

Sul tema del lavoro è senz’altro uno dei massimi esperti italiani: per questo Next Hr ha chiesto questo mese a Pietro Ichino, giuslavorista e senatore, di commentare i primi passi del governo Renzi in materia. In particolare analizzando i due atti normativi messi in campo nelle ultime settimane: il decreto legge Poletti e il disegno di legge delega, entrambi in questo momento all’esame del Parlamento e al centro di un braccio di ferro non solo con l’opposizione e le parti sociali, ma anche interno alla stessa maggioranza. Del resto su Next Hr avevamo già dedicato il numero di marzo alla situazione incandescente in materia di JobsAct, con Partito democratico e Nuovo centro destra arroccati su posizioni difficilmente conciliabili. Eppure qualche passo nella giusta direzione sembra essere possibile: a patto, ammonisce Ichino, che non si perpetui l’errore degli anni Settanta di ingessare il rapporto di lavoro per dare sicurezza al lavoratore.

Lei sostiene da anni che il diritto del lavoro italiano sia troppo rigido e che gli interventi normativi degli ultimi vent’anni non abbiano semplificato abbastanza la disciplina dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Il decreto Poletti servirà a questo scopo?
Questo decreto-legge costituiva, nella sua formulazione iniziale, un buon inizio per il lavoro di abbattimento del muro che oggi ostacola l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Esso infatti abbatteva in gran parte il muro sul versante del contratto a termine, pur rinviando a un secondo tempo l’abbattimento del mura sul versante del contratto a tempo indeterminato. Poi, in sede di conversione in legge, la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati è tornata a ricostruire… un muretto di ostacoli e complicazioni in materia di contratto a termine.

In materia di contratto a termine, resta comunque la parte più rilevante del decreto, cioè la soppressione dell’obbligo di indicare la causale. Questo è un principio che lei considera giusto?
Nella logica dell’abbattimento del muro che oggi rende troppo difficile in Italia l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, la soppressione del controllo giudiziale della motivazione dell’apposizione del termine al contratto va nella direzione giusta. Per lo stesso motivo per cui è opportuno, secondo l’impostazione del problema proposta nell’ormai famoso saggio degli economisti Blanchard e Tirole, sopprimere il controllo giudiziale sul “giustificato motivo” del licenziamento: i giudici sono in grado di accertare il motivo effettivo di natura discriminatoria o di rappresaglia, ma non di valutare il motivo di ordine economico-organizzativo addotto dall’imprenditore per la cessazione del rapporto di lavoro o per l’apposizione di un termine finale. Questa è la ragione per cui Blanchard e Tirole propongono l’adozione del metodo del “filtro automatico”, cioè di un costo di separazione, che – fermo restando il controllo del giudice sulle eventuali discriminazioni o rappresaglie – costituisca al tempo stesso un vaglio delle scelte imprenditoriali in materia di cessazione del rapporto e un disincentivo alla pratica dell’“usa e getta”, ovvero dell’eccessivo frazionamento dei rapporti di lavoro.

E questo metodo del “filtro automatico” può essere applicato anche al contratto a termine?
Sì. Questa infatti è la mia proposta: istituire una indennità di cessazione del rapporto – per esempio: una settimana di retribuzione per ogni trimestre di anzianità di servizio – applicabile nel primo triennio sia nel caso del contratto a termine “acausale” non rinnovato, o non convertito in contratto a tempo indeterminato, sia nel caso del licenziamento nel contratto a tempo indeterminato. In questo modo si consentirebbe all’impresa di assumere molto più ampiamente e fluidamente a tempo indeterminato, sdrammatizzandosi la scelta tra contratto a termine e contratto stabile. Oggi la sicurezza economica e professionale del lavoratore non può più essere costruita con l’ingessatura del rapporto, come facemmo negli anni ’60 e ’70. 

Il secondo fulcro della liberalizzazione del rapporto a termine contenuta nel decreto Poletti è la possibilità di reiterare per ben 8 volte (ridotte a 5 in sede di conversione in legge alla Camera), nell’arco di 36 mesi, un contratto di lavoro a tempo determinato acausale tra la stessa azienda e lo stesso lavoratore. Anche su questo principio lei è pienamente d’accordo? Non teme che questa facoltà porterà le aziende ad aumentare ancor di più la precarietà di questa tipologia contrattuale, riducendo la durata media dei contratti?
La tecnica protettiva del numero massimo di proroghe non è la migliore possibile. Se si adottasse quella del costo di separazione, di cui ho parlato prima, si potrebbe anche lasciare libere le parti di stabilire durata del rapporto e frequenza delle proroghe: la persona che lavora a termine avrebbe la stessa protezione prevista per quella che lavora a tempo indeterminato, costituita nel primo triennio da un’indennità di cessazione del rapporto. Per il resto, la sua sicurezza economica e professionale dovrebbe essere basata sulle garanzie di continuità del reddito e di assistenza intensiva nell’eventuale passaggio da un’azienda a un’altra. Nel sistema economico attuale la rigidità delle protezioni ha il solo effetto di creare precariato, come effetto della “vendetta del mercato” contro la rigidità stessa.

Se il decreto Poletti permette sette rinnovi entro i primi 36 mesi, lei però teme che ci sia ancora un rischio di contenzioso giudiziario. Qual è ad oggi l’incidenza di cause giudiziarie legate ai contratti a termine?
Non conosco il dato preciso, ma so che è abbastanza rilevante: una percentuale a due cifre rispetto al totale delle cause di lavoro.

Il centro studi Adapt ha evidenziato alcuni problemi di coordinazione fra le norme decreto Poletti e quelle precedenti in materia di contratti a termine: per esempio il rapporto tra l’ampliamento dell’istituto della proroga e il permanere inalterato della disciplina dei rinnovi e degli intervalli tra più contratti a termine successivi. A suo avviso, vige ancora l’obbligo di una pausa tra un contratto a termine e l’altro con lo stesso lavoratore, oppure si può concludere un contratto e riavviarne immediatamente un altro senza soluzione di continuità, così come è stato annunciato dal Pd?
Vedremo come il decreto uscirà dalla seconda lettura in Senato. Credo, comunque, che il risultato finale sarà nel senso che – secondo l’intendimento del Governo – il problema degli intervalli tra un contratto e l’altro risulterà superato.

Il decreto Poletti prevede anche che l’assunzione di personale a tempo determinato non possa superare il limite del 20% dell’organico complessivo: ma qui vi è molta incertezza sul calcolo della base di computo della percentuale del 20%. Andranno conteggiati tutti i dipendenti con tipologia contrattuale subordinata? O anche i collaboratori? Come dovranno regolarsi le aziende?
Andranno computati solo i subordinati. D’altra parte va anche considerato che, dopo l’entrata in vigore della legge Fornero del giugno 2012, l’elusione del diritto del lavoro mediante ricorso alla collaborazione continuativa autonoma si è notevolmente ridotta.

Rispetto all’apprendistato, le semplificazioni apportate vanno tutte nella giusta direzione? Molte voci del sindacato hanno denunciato che l’alleggerimento degli obblighi formativi non sarebbe un passo avanti. Ma secondo lei perché finora le aziende non hanno usato il contratto di apprendistato? E con queste semplificazioni davvero cominceranno a farlo?
La Camera ha modificato notevolmente il decreto per questo aspetto. Resta a mio avviso discutibile la norma che lascia sostanzialmente libere le Regioni di imporre un contenuto formativo oppure no. Credo comunque che in seconda lettura il Senato interverrà su questo punto del decreto.

Oltre al decreto legge Poletti, per sua stessa natura immediatamente entrato in vigore, ora sul tavolo delle riforme in tema di lavoro c’è il disegno di legge “Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità ed alla conciliazione”. Un suo primo giudizio complessivo sul ddl?
Avrei preferito un disegno di legge che puntasse esplicitamente a un nuovo testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro inserito nel Codice civile e a un testo unico sugli ammortizzatori sociali. Il disegno di legge presentato dal Governo può comunque portare a questo stesso risultato. In Senato lavoreremo in questa direzione.

La convince l’articolo 2, quello che riguarda la riforma dei servizi per il lavoro e politiche attive?
Ho l’impressione che qui ci sia un problema di compatibilità tra il contenuto del disegno di legge e la ripartizione costituzionale delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Lo si può comunque risolvere applicando il principio di sussidiarietà: lo Stato interviene là dove la Regione non adempie la propria funzione.

Già, ma come lo si accerta?
Non è difficile individuare indici obiettivi di efficienza ed efficacia dei servizi per l’impiego, sia per quel che riguarda i servizi all’incontro fra domanda e offerta, sia per quel che riguarda quelli di orientamento e quelli di formazione professionale.

Rispetto al riordino degli ammortizzatori sociali, Renzi promette una universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ma prevedendo prima dell’entrata a regime un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite. Secondo lei davvero c’è bisogno di una sperimentazione? Non basterebbe decidere, e aprire il sostegno a tutti gli aventi diritto?
In questo campo il metodo sperimentale mi sembra indispensabile: in Italia siamo troppo indietro – nel senso della mancanza di know-how specifico – sul terreno della necessaria coniugazione di sostegno del reddito e misure di reinserimento, cioè della condizionalità del trattamento economico di disoccupazione, per poter pensare a una riforma organica che prenda forma definitiva dall’oggi al domani.

Nel disegno di legge la questione della sperimentazione ritorna più volte. Per esempio rispetto al contratto unico, che Renzi aveva finora sostenuto, si legge nel testo che l’obiettivo di riforma si limiterebbe alla «redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro […]che possa anche prevedere la introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori». Un passo indietro dunque. Chi ha spinto perché Renzi lo facesse? Gli alfaniani alleati al governo o quella minoranza Pd che ha sempre visto il contratto unico come fumo negli occhi?
Il condizionamento negativo è venuto da entrambe le parti. Ma non dispero che si riesca a superarlo già in fase di conversione in legge del decreto n. 34. Non sarebbe difficile anticipare nel decreto una norma che preveda almeno un avvio del nuovo contratto a tempo indeterminato a protezioni progressive, salvo poi inserire organicamente la relativa disciplina nel testo unico delle norme sui rapporti individuali di lavoro.

A una domanda sul Jobs Act che un giornalista del Fatto le aveva fatto prima che il testo del ddl fosse reso pubblico, lei aveva risposto che «la delega legislativa per ora sembra formulata a maglie molto larghe. Se il suo contenuto non verrà reso più preciso e stringente prima della presentazione al Parlamento, sarà quest’ultimo a doverlo fare». Dunque secondo lei il Parlamento adesso dovrà mettere mano al disegno di legge, rendendolo più puntuale?
Sì: mi sembra necessario.

E nel frattempo il progetto di Contratto di ricollocazione di Scelta Civica che strada sta facendo?
Per quel che ne so, Lazio e Trentino Alto Adige stanno già attivandone la sperimentazione. E alla Edison hanno stipulato un accordo aziendale che prevede proprio l’attivazione del contratto di ricollocazione, anche senza finanziamento pubblico, come strumento per attuare nel modo migliore una riduzione degli organici. Il compito di implementare questa misura è stato affidato dalla Edison alla agenzia Intoo.

Il ministro Poletti ha risposto all’interrogazione parlamentare in cui lei e altri senatori chiedevate conto del Fondo per le politiche attive del lavoro? Questi 50 milioni, già pochissimi, ci sono o non ci sono?
Non ancora. Lo stanziamento è previsto dalla legge di stabilità, ma non è stato ancora emanato il regolamento che consente di attivare la sperimentazione con quelle risorse. Avrebbe dovuto essere emanato entro marzo.

Che tempi prevede per questa riforma del lavoro? C’è chi ha ricordato che l’iter parlamentare della legge Biagi durò tre anni: anche per la riforma Renzi si aspetterà così tanto?
Le variabili che possono influire sui tempi dell’iter parlamentare sono molte. La più importante è quella che riguarda la capacità di questa legislatura di durare oltre il prossimo autunno. Dipenderà anche dall’esito delle elezioni europee. È certo, comunque, che non sarà un iter rapidissimo; per semplificarlo e velocizzarlo sarebbe meglio dividere il disegno di legge in due provvedimenti distinti, uno dedicato al testo unico sui rapporti di lavoro, cioè al Codice semplificato, e l’altro dedicato alla materia degli ammortizzatori sociali.

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