L’INCONCLUDENZA DELLA POLITICA ITALIANA, LE SUE RADICI E IL RISCHIO DEL SUO PERDURARE NONOSTANTE LA CRISI – IL SENSO DEL PROGRAMMA “SCEGLI L’EUROPA” E DELLA COALIZIONE DI FORZE LIBERAL-DEMOCRATICHE UNITE NELLA LISTA DELL’ALDE PER LA RIFORMA EUROPEA DELL’ITALIA
Intervento nel corso della manifestazione svoltasi a Milano il 12 aprile 2014, per l’inaugurazione della campagna di Scelta Civica in vista delle elezioni europee del 25 maggio – In argomento v. anche il mio intervento del 15 novembre 2012 alla Leopolda, a Firenze, in occasione dell’inaugurazione della campagna per le primarie di Matteo Renzi.
1. Il costo dell’inconcludenza della politica italiana… – L’emergenza più grave che il nostro Paese sta attraversando, per certi aspetti più grave ancora di quella economica, è la frattura che è venuta enormemente allargandosi negli ultimi due decenni tra i cittadini e i loro rappresentanti nelle assemblee elettive, tra il sentire comune della gente e il sistema politico stesso. Un’emergenza che Matteo Renzi ha, certo, messo a fuoco tempestivamente; ma che egli stesso con il PD attuale non è in grado di superare, perché anche il PD ne è stato pienamente corresponsabile, sia pure soltanto per la parte maturata nei sette anni della sua esistenza, e lo è in parte tuttora.
Questa frattura ha un nome e una causa fondamentale: l’inconcludenza.
2. … di destra… – Inconcludenza totale della destra, per cominciare. Più precisamente di un centrodestra che si è riempito la bocca per vent’anni delle parole “libertà” e “liberalismo”, ma che porta la parte maggiore della responsabilità della crescita vertiginosa del debito pubblico negli ultimi vent’anni, conseguenza di un’invadenza dello Stato nell’economia che non ha pari in Europa. Con l’effetto della pressione fiscale enorme che sta soffocando la nostra economia, mai di fatto contrastata dai governi Berlusconi.
Questo stesso centrodestra ha tutt’intera la responsabilità del peccato più grave commesso della mia generazione nei confronti di quelle dei nostri figli e dei nostri nipoti: la dissipazione del cosiddetto “dividendo dell’euro”, cioè di quelle diverse centinaia di miliardi di interessi passivi che la traduzione in euro del nostro debito pubblico ci avrebbe consentito di risparmiare, e che secondo il patto di Maastricht con i nostri partner avremmo dovuto destinare interamente alla riduzione del debito stesso. Pensate: se lo avessimo fatto, invece di finanziare con quel prezioso dividendo l’ulteriore aumento della spesa corrente strutturale, nei dieci anni tra il 2001 e il 2011 avremmo potuto ridurre il nostro debito pubblico quasi al 70 per cento del PIL; saremmo cioè vicinissimi all’obiettivo che il Fiscal compact ci chiede di raggiungere entro vent’anni e dal quale invece proprio in quel decennio ci siamo pericolosamente allontanati.
3. … e di sinistra… – Ma non meno grave è l’inconcludenza della sinistra italiana: una sinistra presuntuosa e autoreferenziale, che per molti decenni ha guardato dall’alto in basso le altre sinistre europee, considerando come spregiative le loro qualificazioni come “socialdemocratica” o “laburista”. Salvo ignorare i risultati che queste conseguivano sul terreno del funzionamento concreto del mercato del lavoro e del welfare nei rispettivi Paesi, e lasciare invece che in Italia il mercato del lavoro assumesse le forme mostruose dell’apartheid tra iper-garantiti e iper-precari, con i servizi per l’impiego peggiori e con i tassi di occupazione femminile, giovanile e degli anziani più bassi d’Europa. Ma al tempo stesso con le retribuzioni orarie nette più basse tra i Paesi dell’OCSE, a parità di mansioni. Intanto, nella stessa Italia in cui fino al 2011 quasi tutta la spesa sociale è stata destinata a mandare in pensione i lavoratori regolari a cinquant’anni, e i più poveri sono assistiti peggio che in qualsiasi altra parte del continente, è pure diminuita la mobilità sociale. Questo è il bilancio disastroso di mezzo secolo di sinistra italiana.
Obiettano: “ma in quel mezzo secolo non siamo mai stati al governo per più di un anno o due di seguito”. È vero, e se ne capisce bene il motivo; ma è un fatto che tutti i disastri menzionati sono in larga parte il prodotto di ciò che quella sinistra ha in concreto rivendicato e difeso, sul piano sindacale come su quello politico, anche quando era all’opposizione: sul terreno previdenziale come su quello della disciplina dei rapporti di lavoro individuali e collettivi, o dei servizi nel mercato del lavoro. Basti ricordare su quest’ultimo punto la difesa a oltranza del monopolio statale del collocamento protrattasi fino alle soglie degli anni 2000, della quale si trovano ancora ben visibili le tracce nella resistenza ancora prevalente nel Pd contro ogni forma di coinvolgimento delle agenzie specializzate nel servizio pubblico per l’impiego.
4. … ma anche di destra e sinistra insieme – Insieme, poi, destra e sinistra italiane hanno la responsabilità di avere chiuso ermeticamente il Paese agli investimenti stranieri. Sono sempre state accomunate, queste nostre vecchie destra e sinistra, dall’ostilità contro le multinazionali straniere e dalla difesa dell’“italianità” dei “campioni nazionali”. La perdita conseguitane si può valutare, per confronto con la media europea, in un minor flusso di circa 50-60 miliardi all’anno di investimenti diretti in entrata, con tutto ciò che essi portano con sé in termini di piani industriali innovativi, di aumento della produttività del lavoro e di domanda aggiuntiva di occupazione.
È responsabilità comune di questa destra e di questa sinistra il degrado dell’istruzione pubblica, l’aver lasciato che tutta la politica scolastica si riducesse a una colossale gestione di stipendi e di aumenti automatici per professori di ruolo inamovibili, nonché di una coorte di precari aspiranti al posto fisso (dove la questione cruciale non è il che fare per istruire meglio gli studenti, ma soltanto come soddisfare i diritti acquisiti di chi ce li ha e le attese di chi aspira ad averli).
Infine, ma non certo ultima per importanza, va ricordata la perdita progressiva di efficienza dell’amministrazione giudiziaria e di senso civico nel Paese: responsabilità bi-partisan della politica italiana, divisa tra una destra la cui unica politica giudiziaria è consistita per vent’anni nel tentativo di impedire che il suo capo rispondesse delle imputazioni rivoltegli dalla magistatura, e una sinistra altrettanto diffusamente propensa ad affidare alla magistratura compiti del tutto impropri di supplenza, che degenerano facilmente in vera e propria ingerenza nell’area di competenza della politica e dell’esecutivo.
5. Perché questi disastri? – Che cosa è mancato alla politica italiana, tanto a destra quanto a sinistra? È mancata una cosa che possiamo chiamare “substrato di cultura politica nazionale”, o “tessuto connettivo repubblicano”, oppure ancora “patrimonio comune di valori civili”; ma credo che si ottiene maggiore chiarezza indicando questa cosa che è mancata come il minimo comune denominatore liberal-democratico che in un Paese moderno dovrebbe accomunare l’ala destra e l’ala sinistra dello schieramento politico. O meglio: dovrebbe costituire il terreno d’azione accettato da entrambe e sul quale esse tra loro competono, salvo ovviamente differenziarsi per l’entità dell’impegno dedicato a garantire la parità di opportunità a tutti.
6. Il minimo comun denominatore liberal-democratico: nelle amministrazioni… – Di questo patrimonio politico-programmatico proprio tanto di una destra quanto di una sinistra moderne, dovrebbe far parte innanzitutto l’impegno di ciascuna generazione a non far pagare alle generazioni successive i debiti conseguenti ai propri sprechi e dissennatezze (e qui, come si è visto, il bilancio italiano è pesantissimo). Ma dovrebbe farne parte anche l’impegno a garantire al Paese un’amministrazione pubblica totalmente trasparente – la full disclosure dei Freedom of Information Acts – e totalmente orientata al servizio dei cittadini; con dirigenti responsabilizzati su obbiettivi specifici, misurabili, volti a allineare progressivamente i servizi più arretrati ai più avanzati. Questo non è un obiettivo né tipicamente proprio della destra, né della sinistra: l’una e l’altra dovrebbero misurarsi entrambe su questo terreno. Invece in Italia esse sono in pari misura responsabili dello stato delle nostre amministrazioni, dove regna l’opacità, dove l’interesse degli addetti prevale sistematicamente su quello degli utenti, dove i vertici e i dirigenti che da loro dipendono non sono quasi mai responsabilizzati per il raggiungimento di obiettivi incisivi e precisi, né mai valutati secondo questo parametro. E quando si parla di affondare per davvero il busturi anche nella più piccola piaga di questo tessuto malato, immancabilmente in Parlamento destra e sinistra si ritrovano come per incantesimo unite in un ferreo non expedit: queste cose in Italia non si possono fare.
7. … e nei mercati – Allo stesso modo, non è né di destra né di sinistra – o, se si preferisce, né pro-business né pro-labour – l’obiettivo di un mercato del lavoro capace di conciliare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza economica e professionale delle persone nel passaggio da un lavoro all’altro. Anche questo è uno dei terreni più importanti sul quale sinistra e destra dovrebbero confrontarsi e competere; invece in Italia non si sa quale delle due abbia tenuto, nei decenni passati e ancor oggi, un comportamento di fatto più conservatore e inconcludente, condannando il Paese a tenersi il mercato del lavoro che funziona peggio in Europa, se si esclude la solita benemerita Grecia.
Nel comune denominatore liberal-democratico che dovrebbe essere condiviso dalla destra e dalla sinistra c’è poi un capitolo fondamentale: la contendibilità di tutte le funzioni. Di quelle che sono oggetto dei mercati privati, ovviamente; ma anche e soprattutto di quelle pubbliche. Se, invece, l’Italia è il Paese dove le possibilità effettive di concorrenza sono più ridotte, sia nel mercato dei servizi alle persone e alle imprese, sia nelle funzioni pubbliche, questo è dovuto a una destra e una sinistra che fanno a gara nel proclamarsi “liberali” all’ingrosso, quando si tratta di enunciare il principio astratto, ma per lo più fanno altrettanto a gara nell’essere corporative al minuto: tendenzialmente pronte a stringersi la mano quando si tratta di difendere qualche gruppo di insider, rappresentato dalla lobby di turno, contro la concorrenza degli outsider. Sempre, ovviamente, motivando con l’esigenza di “proteggere l’interesse dell’utente alla migliore qualità della prestazione”.
8. Le riforme in affanno – Quando parliamo di “riforma europea dell’Italia” noi di Scelta Civica parliamo di introdurre nel nostro sistema e nella nostra cultura politica questo comun denominatore liberal-democratico, che in Italia troppo a lungo è drammaticamente mancato. Parliamo di costringere destra e sinistra a far propri questi valori e a confrontarsi su questo terreno. Siamo convinti che Matteo Renzi proprio questo, più o meno, si proponga di fare, quando parla di “cambiare verso” al nostro Paese. Ma talvolta su questa strada lo vediamo in affanno, in debito di ossigeno; e comunque constatiamo le enormi difficoltà che egli incontra quando, con questo intendimento, cerca di “cambiar verso” anche al Partito democratico. Per esempio, quando questo gli si mette di traverso (altro che “cambiar verso”) appena si incomincia a parlare di mobilità del personale nel settore pubblico, di eliminare una parte delle decine di migliaia di società mangiasoldi controllate da Stato ed enti pubblici, di introdurre il contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezioni crescenti, o il contratto di ricollocazione come metodo nuovo con cui affrontare le crisi occupazionali attivando i servizi di outplacement offerti dalle agenzie specializzate e ponendo fine all’abuso della Cassa integrazione “a perdere”, e di altro ancora… Il muro è ancora lì. Un esempio particolarmente significativo di queste difficoltà del premier è costituito dal capitolo programmatico del Codice del lavoro semplificato: ancora nel gennaio scorso esso costituiva il primo punto del Jobs Act annunciato dal sindaco di Firenze; poi, da Presidente del Consiglio, egli torna ad annunciarlo nella fatidica conferenza stampa del 14 marzo, e lo fa di nuovo negli incontri con Merkel e Cameron; ma poiché la Cgil obietta che “semplificazione uguale precarizzazione”, per ora in Parlamento del Codice semplificato resta solo l’annuncio.
9. La riforma europea dell’Italia – Per rafforzare nella politica italiana il comun denominatore liberal-democratico di cui ho parlato è necessario innanzitutto rafforzare il processo di integrazione dell’Italia nell’Unione Europea: è questa la nostra unica speranza di successo. Dobbiamo costringere ogni amministrazione ad allinearsi progressivamente ai migliori standard delle amministrazioni omologhe dei Paesi nostri partner, e al tempo stesso cooperare attivamente con questi nella costruzione dell’Europa federale, cioè degli Stati Uniti d’Europa. Per farlo, visto lo stato delle nostre destra e sinistra, è necessario dotare il Paese di un robusto polo liberal-democratico, capace di costringerle a sprovincializzarsi e modernizzarsi, confrontandosi e competendo, senza diversivi, sul terreno decisivo dell’integrazione europea.
Questo è ciò che ci proponiamo con il programma che abbiamo elaborato con i nostri alleati e interlocutori del coordinamento liberal-democratico. E questo è il motivo per cui nella campagna che ci attende tutti i nostri slogan elettorali, che si riferiscano alla politica economica, al fisco, all’amministrazione pubblica, al lavoro, alla scuola, o ad altre materie, si concluderanno con le parole “Scegli l’Europa”. Ed è il motivo per cui ci presentiamo alle elezioni del 25 maggio con il simbolo “Scelta Europea”.
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