L’ARTICOLO 18 E LA FLEXSECURITY

DALLA CRISI NUOVE TECNICHE DI PROTEZIONE DEL LAVORO

Intervista a cura di Giusi Brega per Il Giornale – Dossier,  27 aprile 2009

 

Lo scorso luglio è stata presentata alla Camera una proposta di riforma dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, concernente la facoltà del datore di lavoro di corrispondere al prestatore di lavoro un’indennità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. Qual è la sua opinione in merito a questa proposta?

Immagino che lei si riferisca alla proposta di Giuliano Cazzola. Credo che questa riforma sia politicamente proponibile solo nella logica della flexsecurity europea: cioè se, nel momento in cui si allenta il vincolo di stabilità del posto, si offrono elementi di maggiore sicurezza ai lavoratori nel mercato del lavoro.

 

Potrebbe essere una misura utile in un momento di crisi economica generalizzato come questo?

Soltanto se la nuova disposizione viene applicata alle nuove assunzioni: in questo modo si favoriscono le assunzioni con rapporto regolare a tempo indeterminato. Applicata anche alle vecchie posizioni, invece, questa misura potrebbe produrre l’effetto di aggravare la crisi.

 

Già nel 2001 il Governo Berlusconi aveva avanzato una proposta del genere, ma la proposta portò al conflitto con i sindacati e non se ne fece niente. Parlare di riforma del sistema del licenziamento individuale è un tabù in Italia?

Anche in quell’occasione si è cercato di modificare la disciplina dei licenziamenti senza contestualmente rafforzare gli “ammortizzatori sociali”: trattamenti di disoccupazione e assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca della nuova occupazione.

 

In quale altro Paese europeo esiste una tutela per i lavoratori che può essere paragonata a quella che offre l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori italiano?

L’ordinamento che si avvicina di più al nostro è quello tedesco, dove però, in caso di licenziamento ritenuto illegittimo, la decisione della reintegrazione del lavoratore è rimessa alla discrezionalità del giudice. E di fatto, nella RFT, la reintegrazione viene disposta soltanto nel cinque per cento dei casi di sentenza sfavorevole all’imprenditore: sostanzialmente solo nei casi di discriminazione illecita.

 

Su quali fronti occorre intervenire per far sì che l’ordinamento italiano sia effettivamente moderno e rispondente alle esigenze attuali della società e del mercato?

Occorre coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza per i lavoratori. Quindi deve essere una sicurezza fondata sulla garanzia, in caso di licenziamento per motivi economici, della continuità del reddito e dell’assistenza di alta qualità nel mercato del lavoro. Ed è una garanzia che può essere data dalle imprese stesse, in cambio della maggiore flessibilità. Questo, in estrema sintesi, è quanto prevede il disegno di legge “per la transizione a un regime di flexsecurity” che ho presentato al Senato il 25 marzo scorso con altri trenta colleghi.

 

Da più parti si invoca un sistema del lavoro che sia flessibile in entrata, ma anche in uscita. Una revisione dell’articolo 18 potrebbe essere utile in questo senso?

Il mio disegno di legge prevede, appunto, che alle imprese disposte ad offrire ai propri nuovi dipendenti, nel caso di perdita del posto, una garanzia di sicurezza strutturata secondo il modello danese si applichi anche una disciplina del licenziamento di tipo danese. Questo significa lasciare all’impresa una grande libertà nelle scelte organizzative e di “aggiustamento industriale”, ma al tempo stesso responsabilizzarla circa il costo sociale di quelle scelte.

 

Quali sono secondo la sua opinione gli interventi positivi attuati dall’attuale governo in questo primo anno di attività in tema di diritto del lavoro e quali invece quelli negativi?

In questo campo il Governo ha scelto sostanzialmente la linea della “moratoria legislativa”: non si tocca nulla del vecchio assetto della disciplina del rapporto di lavoro, per paura di commettere di nuovo passi falsi come quello del 2002 sull’articolo 18. In questo modo si conserva l’attuale regime di apartheid tra lavoratori iper-protetti da una parte e poco o per nulla protetti dall’altra. Questo regime – anche se il ministro Brunetta la pensa diversamente – ha grossi difetti sul piano dell’equità e al tempo stesso su quello dell’efficienza.

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