DIALOGO SULLA LAICITA’

DOMANDE E RISPOSTE SU COME INTENDO LA MIA LAICITA’ E IL MIO APPARTENERE ALLA CHIESA
31 luglio 2008

Alcuni lettori ed elettori mi interrogano sul mio essere cattolico e laico, sul come questo può influenzare le mie scelte politiche in materie – come il divorzio, l’aborto, la fecondazione artificiale, l’eutanasia, il testamento biologico – sulle quali la Chiesa cattolica assume posizioni molto nette. Riporto dunque qui sotto un dialogo, scritto in tutt’altra occasione, ora ripubblicato nel bollettino “Come Albero” della Parrocchia milanese di San Giovanni in Laterano (febbraio 2009), che mi sembra possa servire per dar conto di come intendo la mia laicità. In argomento v. anche l’intervento che ho svolto al Senato il 10 febbraio 2009.

 

Tu sei cattolico, o almeno ti consideri tale?

La famiglia da cui provengo, il gruppo familiare con cui mi ritrovo ogni due settimane da decenni, la parrocchia a cui appartengo, possono certo considerarsi Chiesa cattolica. Ma il patrimonio spirituale che cerco di coltivare, comprende senza soluzioni di continuità anche tutta l’eredità dell’ebraismo e del protestantesimo. Figure come Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer o Etty Hillesum sono per me dei punti di riferimento spirituali non meno importanti di Sant’Agostino o San Francesco; o, per venire al nostro tempo, Simone Weil o Davide Turoldo.

Come vivi la tua appartenenza a questa Chiesa, così poco evangelica in tante sue espressioni ufficiali?

Gesù ha scelto come capo della sua Chiesa un pescatore analfabeta, Pietro, uomo che lo ha amato ma lo ha anche tradito; che si è pentito e ha pianto, ma in vari momenti ha mostrato di non aver capito (si è perfino sentito dire da Gesù stesso: “vade retro, Satana”!). Gesù non ha scelto Giovanni, il discepolo che più amava e il più colto, l’intellettuale, che sarebbe poi diventato scrittore del Vangelo. Su questa terra, dunque, di una Chiesa in carne e ossa c’è bisogno per coltivare la grande, straordinaria eredità dell’Antico e del Nuovo Testamento, per rinnovarne la memoria. Ma da questa Chiesa non mi aspetto l’infallibilità (ho anzi il sospetto che quel dogma tardivo sancito dal primo Concilio Vaticano, a fine ’800, possa persino costituire un suo peccato contro il primo comandamento: quasi un pretendere di farsi essa stessa Dio); non mi lascio turbare più che tanto dai suoi errori, da quelli che mi paiono suoi ritardi (o suoi ritorni indietro) nel comprendere i segni dei tempi; mi appare grave, per esempio, il blocco culturale che impedisce l’apertura al sacerdozio delle donne: presto o tardi cadrà anche quello. Dalla Chiesa mi aspetto invece l’invito a istruire e a coltivare la mia coscienza alla luce della ricchissima eredità trimillenaria di cui essa è depositaria; e anche l’aiuto a farlo, magari anche attraverso delle sedi di riflessione comunitaria sui problemi specifici del come si può vivere la fede nel concreto della vita quotidiana, familiare, professionale, politica. Credo che chi è indifferente a qull’eredità trimillenaria si privi di una grande ricchezza. Però ho anche sempre presente la risposta di Gesù alla Samaritana: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre … ma … in spirito e verità” (Giov., 4, 21-23).

Per i cattolici la Chiesa non è soltanto “mater”, ma anche “magistra”. Come ti rapporti al magistero ecclesiastico cattolico romano?

Mi ci confronto sempre con grande attenzione. Milanese quale sono, ho avuto la fortuna di avere come vescovi Carlo Martini e Dionigi Tettamanzi, ai quali la chiesa ambrosiana deve moltissimo e con i quali mi sono sentito sempre in grande sintonia. Mi sono sentito meno in sintonia con qualche sortita della Conferenza Episcopale Italiana.

Puoi essere più preciso?

Qui occorre fare una distinzione molto netta. Come cittadino italiano, ho il massimo rispetto per gli interventi dei cardinali Ruini o Bagnasco, o di qualsiasi altro membro della C.E.I., su scelte politico-legislative come quelle riguardanti il diritto di famiglia, oppure la bioetica: hanno anch’essi tutti un diritto pieno di cittadinanza nel nostro Paese, quindi, sul piano civile, hanno un diritto pieno di dire la loro su questi temi; su questo piano non vedo nei loro interventi alcuna anomalia, alcuna scorrettezza. È come cristiano che di certi loro interventi mi rammarico: perché penso che la testimonianza della Chiesa come tale non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa da preferire, né tanto meno le concrete modalità preferibili dell’impegno politico, ma soltanto educare la coscienza dei cristiani, lasciando che nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche, essa resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam”. Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (n. 16): “L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”. Nelle materie che vanno “rese a Cesare” (Mt., XXII, 21) le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi; il magistero della Chiesa deve collocarsi su di un piano diverso.

Su quale piano?

E’ ancora il Concilio Vaticano II a sancire la distinzione tra il piano su cui si colloca la testimonianza evangelica, terreno proprio dei cristiani e della Chiesa in quanto tale, e quello su cui si colloca il governo della società civile, dal quale è bene che essa si astenga. Questo significa “a Cesare quel che è di Cesare”; se per caso Cesare è cristiano, questo influirà, certo, sulle sue scelte di governo, ma solo attraverso la mediazione della sua coscienza e nei modi diversi che si renderanno opportuni, a seconda del contesto politico e civile in cui egli opera. Rendere a Cesare quel che è di Cesare significa rispettare la laicità dello Stato e della sua politica. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune dove mettere in comunicazione le loro coscienze ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene comune. Il terreno comune viene meno se c’è qualcuno che, in quella sede (quella che va “resa a Cesare”), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata e certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio.

Per esempio?

Un esempio: la prostituzione. La coscienza del cristiano in quanto tale non può non essere scossa da questa forma di mortificazione della dignità della persona, di mutilazione della sua sessualità. Ma la scelta della legislazione più opportuna in questa materia non si può dedurre direttamente dalla Bibbia; essa si colloca su di un piano diverso; ci potrà dunque essere il cristiano che in coscienza ritiene più opportuno punire i clienti delle prostitute con sanzioni penali come si è fatto in Svezia, oppure con sanzioni soltanto amministrative; o quello che ritiene più opportuno non ricorrere a divieti ma limitarsi a regolamentare l’esercizio della prostituzione per limitarne il più possibile gli effetti dannosi; oppure ancora quello che ritiene preferibile l’astensione da qualsiasi intervento normativo e l’adozione di altre forme di intervento operativo per garantire assistenza, informazione e protezione alle persone più deboli coinvolte. Un altro esempio: Gesù non è venuto a dirci quale sia la legislazione giusta (“voluta da Dio”) in materia di adulterio; ci ha solo insegnato come guardare con amore, da cristiani, alla persona adultera, lasciando alla nostra coscienza, nelle diverse situazioni storiche e politiche, nei diversi contesti culturali, la scelta della norma o del comportamento pratico da adottare. In questa scelta ciascuno di questi cristiani può trovarsi in piena sintonia con altri cittadini; così come può accadere che i cristiani stessi su questo terreno politico-pratico si dividano tra loro, compiano scelte diverse.

Faresti questo stesso discorso anche in materia di suicidio, oppure di aborto?

Mutatis mutandis, i termini della questione sono gli stessi per tutte le materie, anche per quelle eticamente più sensibili: come non è possibile trarre direttamente dal Vangelo la legislazione ideale sulla prostituzione o sull’adulterio, allo stesso modo non è possibile trarla neppure in materia di suicidio, di aborto, di diritto familiare, di limiti alla ricerca biologica, o di confine tra cura dovuta del malato terminale e accanimento terapeutico. Su tutte queste materie la Chiesa deve vegliare perché ciascuno educhi e tenga ben sveglia la propria coscienza. Ma, come suo membro, le chiedo di non avere la pretesa di sostituirsi alla mia coscienza nelle scelte politiche, legislative, professionali, di fronte alla quali la vita mi pone. Se si spinge su questo terreno, la Chiesa finisce col proporsi come un partito politico, o come una scuola accademica. Dal punto di vista dell’ordinamento statuale, ha il diritto di farlo, come qualsiasi altra libera associazione; ma sul piano evangelico mi sembra che essa rischi di peccare contro il primo comandamento là dove pretende di divinizzare – assolutizzandola ‑ una determinata soluzione politica, legislativa o tecnica; e contro il secondo comandamento dove per compiere questa operazione pone il sigillo del nome di Dio su di una scelta umana.

Torniamo alla laicità. C’è chi sostiene che il PD non è un partito veramente, integralmente laico; e questo gli impedisce di assumere una fisionomia politica precisa.
Io penso esattamente il contrario: tra tutti i partiti, rappresentati in Parlamento e no, il PD è l’unico partito veramente, integralmente laico. Esso è infatti l’unico partito che pratica fino in fondo – nell’elaborazione programmatica e nella politica quotidiana – il metodo della laicità, per consentire a tutte le persone di buona volontà di mettere in comunicazione le loro coscienze ispirate a fedi e filosofie diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni migliori per il Paese. Oggi questo metodo non è praticato con la stessa cura e precisione né nel PdL – dove anzi vedo segni davvero preoccupanti di clericalismo -, né nella Lega, né nell’Italia dei Valori, né in Rifondazione comunista o nei Verdi.

 

 

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