LA DISTINZIONE PROPOSTA DA BOBBIO TRA DESTRA E SINISTRA LUNGO L’ASSE DELL’EQUITÀ SOCIALE NON CONVINCE DEL TUTTO: LA DEFINIZIONE DEL CONCETTO NON È PER NULLA SCONTATA, IMPLICANDO (PIÙ CHE UN EGUAGLIAMENTO) LA PARITÀ DELLE OPPORTUNITÀ TRA INDIVIDUI, MA PURE TRA PAESI E TRA GENERAZIONI
Articolo di Tommaso Nannicini pubblicato su l’Unità del 5 marzo 2014
L’adesione del Pd al Partito socialista europeo è l’occasione buona per rianimare un dibattito delle idee che rischia spesso di essere soffocato dalla tattica politica quotidiana. Sulla scia di questa scelta e dell’introduzione che Matteo Renzi ha scritto per la nuova edizione del libro di Norberto Bobbio Destra e sinistra, l’Unità ha ospitato interventi stimolanti sull’orizzonte ideale della sinistra italiana.
In verità, l’adesione al Pse è utile perché consente al Pd d’inserirsi in un dibattito aperto tra tutte le forze della sinistra europea. Non perché il tradizionale messaggio socialdemocratico sia ancora attuale. Su questo punto, gli altri partiti del Pse discutono da anni. Da socialista italiano (prima ancora che europeo) non ho timore a dire che quel messaggio è ormai superato. Per carità: il compromesso socialdemocratico tra capitalismo di mercato e stato sociale appartiene alle grandi invenzioni della storia, al pari della ruota e della penicillina. Non è il suo fallimento a chiederne il superamento, ma, al contrario, il suo successo.
Il passaggio da società “a piramide” (con tanti poveri alla base e pochi ricchi in cima) verso società “a diamante” (con un’ampia classe media nel mezzo) ha cambiato la natura delle politiche pubbliche, che hanno spesso finito per perseguire obiettivi distributivi (finanziati con inflazione, disavanzo pubblico o tasse nascoste) piuttosto che redistributivi. Nella società dei consumi e dell’istruzione di massa, la sfera personale ha smesso di coincidere con quella lavorativa. La globalizzazione, sia pure tra mille ritardi, sta estendendo la classe media ad altre parti del pianeta. E le attuali difficoltà della classe media nei paesi sviluppati non implicano certo la sua scomparsa.
Insomma, il successo della socialdemocrazia si è a un certo punto trasformato nel suo fardello, perché vecchie ricette hanno smesso di funzionare in una realtà diversa. Come avviene anche nella vita delle persone, i segreti dei successi del passato possono tramutarsi nelle cause dei fallimenti futuri, perché non c’è niente di più difficile che allontanarsi da quello che ci ha regalato momenti felici. Chi polemizza con l’impianto tradizionale del pensiero socialdemocratico non lo fa per mancanza di nostalgia verso la stagione d’oro della sinistra del XX secolo, ma perché non vuole che quella nostalgia affondi la sinistra del XXI.
In questa ricerca di senso, quale dovrebbe essere la nostra stella polare? La distinzione di Bobbio tra destra e sinistra, lungo l’asse uguaglianza/disuguaglianza, non convince del tutto, perché contrasta un valore con un disvalore. Lo stesso vale per l’asse innovazione/conservazione proposta da Renzi. Mi terrei alla larga da distinzioni manichee, accettando che esistono obiettivi parimenti legittimi che destra e sinistra possono perseguire assegnando loro pesi diversi. Ed eviterei di scontrarci solo sugli strumenti per il raggiungimento di tali obiettivi, come nella vecchia disputa tra chi vuole più Stato e chi più mercato. Stato e mercato sono strumenti imperfetti, che funzionano più o meno bene a seconda del contesto in cui si calano e di come sono disegnati. Meglio diffidare di chi propone sempre l’uno o l’altro in più del 95 percento dei casi. Gatta ci cova.
Tra gli obiettivi della sinistra, ci sono pochi dubbi che l’uguaglianza debba occupare il posto d’onore. Ma bisogna intendersi. Uguaglianza tra chi? E rispetto a che cosa? A sinistra si accusa spesso la globalizzazione liberista (ammesso che questo aggettivo significhi qualcosa) di aver ridotto l’uguaglianza. Ma la disuguaglianza tra paesi si è enormemente ridotta negli ultimi due decenni. C’è un eccesso di euro-centrismo in questi gridi d’allarme. Per la serie: la dura legge della concorrenza andava bene quando eravamo noi a fare i bulli sui mercati globali, ma non adesso che permette a milioni di cinesi, indiani e brasiliani di uscire dalla povertà, pur tra mille contraddizioni.
Lo stesso vale per l’uguaglianza all’interno di un paese. L’uguaglianza distributiva è senz’altro importante. Ma la stessa distribuzione del reddito può essere più o meno accettabile, proprio da una prospettiva di sinistra, se corrisponde a una maggiore o minore uguaglianza delle opportunità. E una maggiore uguaglianza distributiva non sempre è giustificabile (di nuovo: in un’ottica di sinistra) se è raggiunta sacrificando del tutto l’uguaglianza tra generazioni. L’uguaglianza nei punti d’arrivo degli individui, infine, non vive di solo reddito. Il liberale Amartya Sen ci ha insegnato che occorre guardare alle “capacità”, che altro non sono che trascrizioni delle nostre sfere di libertà. La libertà di inseguire i propri sogni, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità libera dal crimine sono tutte dimensioni dell’uguaglianza. Insomma: l’uguaglianza è una cosa seria. Troppo seria per lasciarla a un certo egualitarismo di maniera.
Quando il Pds chiese l’adesione all’Internazionale socialista, qualcuno disse che lo faceva per cambiarla. Oggi, si sente dire che il Pd entra nel Pse per rinnovarlo. Due atteggiamenti, francamente, non scevri di spocchia. Più semplicemente, si dovrebbe prendere atto che c’è una nuova pagina da scrivere tutti insieme. Perché il marxismo è morto, la socialdemocrazia è morta, ma la sinistra – per fortuna – si sente abbastanza bene.