LA CERTEZZA GRANITICA È CHE “MATTEO CE LA DEVE FARE”, PERCHÉ IL NOSTRO PAESE NON PUÒ PERMETTERSI UN ALTRO PERIODO DI CAOS E INGOVERNABILITÀ; IL DUBBIO È CHE NON BASTI LA NOVITÀ DEI VOLTI E LA DATA DI NASCITA RECENTE PER GARANTIRE LA CAPACITÀ DI FARE LE RIFORME NECESSARIE
Editoriale di Luca Ricolfi su la Stampa del 23 febbraio 2014
Il governo Renzi ha giurato, gli italiani – dopo una settimana di Sanremo alquanto impegnativa – si preparano ad assistere al nuovo spettacolo, quello della politica nazionale, più perplessi che entusiasti, più preoccupati che curiosi, più speranzosi che fiduciosi. Anch’io mi sento parte di questo sentire strano e, a mia memoria, del tutto senza precedenti. Un sentire che, per quel che riesco a capire, deriva dal fatto che nella mente di tante, forse tantissime persone, si sono installate una certezza e un dubbio. Una certezza granitica e un dubbio inestirpabile.
La certezza granitica è che «Matteo ce la deve fare». Ce la deve fare perché il nostro Paese è in tragico ritardo su tutti i fronti, e questa è l’ultima occasione. Credo che fra la gente normale, non ammalata di faziosità e di politica, nessuno si auguri un fallimento di Renzi. Persino coloro che lo detestano, coloro che lo trovano sfrontato e vanitoso, coloro che si sentono turbati dalla sua spregiudicatezza, persino tutti costoro non si augurano davvero un naufragio del governo Renzi. Perché tutti, quasi tutti, sentiamo che l’Italia non si può permettere un altro periodo di caos e ingovernabilità, e che caos e ingovernabilità sarebbero i frutti avvelenati di un’eventuale caduta di Renzi.
Accanto alla certezza granitica c’è però anche il dubbio, un dubbio grande come una casa. Chi non crede nei miracoli, o perlomeno non crede che la politica sia capace di miracoli, non riesce a nascondersi che quello che Renzi sta chiedendo agli italiani è un vero e proprio atto di fede. Un qualcosa che va contro ogni ragionevole aspettativa e ogni realistica valutazione dei confini del possibile. Renzi ci sta chiedendo di credere nel nuovo in quanto nuovo. Nessun’altra credenziale, che sia visibile a noi cittadini ignari, sembrano possedere la maggior parte dei nuovi ministri se non quella, appunto, di essere nuovi. Ma ci si può entusiasmare solo del fatto di vedere facce nuove, fresche, giovani e femminili?
Forse sì, ma permettetemi di dare un’occhiata ai curricula, sempre che le cose che uno fa nella vita – studi, ricerche, esperienze professionali – abbiano ancora un qualche valore. Intanto, salvo un paio di nomi, di veri giovani ce n’è ben pochi, a meno di definire «giovani» persone che hanno superato i 40 anni (nel mondo della gente comune una persona di 40 anni è un adulto, e spesso ha vent’anni di lavoro alle spalle). Questa normalità anagrafica del governo, il fatto di non essere un governo di ragazzini, è tutt’altro che un difetto, considerato che, per un ministro, l’esperienza e la competenza negli ambiti di cui si dovrà occupare sono delle virtù. Ed eccoci al punto dolente: i medesimi curricula che rivelano che l’età media dei membri del governo sfiora i 50 anni, ci offrono un quadro tutt’altro che rassicurante proprio su esperienza e competenza. Superata la soglia dei 40 anni, e a maggior ragione superata quella dei 45 o dei 50 anni, ci aspetteremmo che un ministro – ossia una persona chiamata ad occupare il posto di più alta responsabilità in un dato ambito – sia scelto fra i migliori nel suo campo. Dove essere fra i migliori significa aver già dimostrato, nel proprio lavoro, di essere fra i più capaci, i più preparati, i più disinteressati. Questo è essenziale, in particolare, nei ministeri (a mio parere quasi tutti) in cui non bastano esperienza e competenza politiche, ma occorre una profonda familiarità con la materia di cui il ministero si occupa. Perché se è vero che in certi ministeri (ad esempio agli Affari esteri, o agli Affari regionali) quel che conta è soprattutto l’esperienza politica, diplomatica o amministrativa, è ancor più vero che nella maggior parte degli altri (e più che mai nel caso di Economia, Lavoro, Istruzione, Pubblica Amministrazione, Sanità, Giustizia), è cruciale che il ministro abbia una conoscenza non superficiale delle materie che tocca. Detto per inciso, è proprio questo uno dei difetti principali della «vecchia» politica: la storia della seconda Repubblica è piena di riforme abortite, degenerate, o stravolte in quanto pensate da ministri esclusivamente preoccupati del «messaggio politico», ma del tutto incapaci di valutare le conseguenze effettive delle leggi che promulgavano. Ministri, insomma, ignari del fatto che anche l’idea migliore può generare il suo opposto, perché «il diavolo si nasconde nei dettagli».
Da questo punto di vista il governo Renzi è veramente molto vecchio, ossia costruito con una logica vecchia. Là dove serviva esperienza politica e c’era un ottimo ministro, universalmente stimato e noto in tutto il mondo, ossia al ministero degli Esteri, si invita Emma Bonino a farsi da parte. E là dove sarebbero serviti i migliori dei rispettivi campi, ossia nei ministeri che richiedono anche competenza tecnica, in troppi casi (non in tutti, per fortuna: vedi ad esempio Economia e Istruzione) si piazzano politici puri, senza alcuna credenziale nelle materie di cui dovrebbero occuparsi, ma con un’attenzione degna di miglior causa agli equilibri fra le forze politiche e fra le correnti del Pd. Politici cui sarebbe ingiusto rifiutare a priori qualsiasi credito, ma cui è altrettanto difficile affidarsi con la tranquillità che ci trasmette un bravo nocchiero.
Ed ecco allora una domanda vera, nel senso che davvero non so come siano andate le cose: perché tutti i nomi eccellenti che sono girati per i ministeri chiave sono caduti?
Nei giorni del totoministri giravano nomi di altissimo livello come quelli di Lucrezia Reichlin, Oscar Farinetti, Andrea Guerra, Alessandro Baricco, Pietro Ichino, Tito Boeri. Se fossero entrati tutti, o ne fossero entrati altrettanti consimili, sarebbe stato davvero il nuovo, un corpo mortale inferto alla vecchia politica. E io non sarei qui a scrivere questo articolo, né avrei letto le decine di commenti preoccupati che sono usciti sui giornali di ieri (sabato).
Che cosa è successo?
Io non l’ho capito. Renzi ha chiesto a tutti o a quasi tutti di entrare nel suo governo e ne ha ricevuto altrettanti rifiuti? E se sì, qual è la ragione?
Una possibile risposta è che, chiunque nella sua vita abbia lavorato davvero, abbia dimostrato le sue capacità, e abbia raggiunto una posizione di prestigio, non ha molta voglia di immolarsi per una posizione di ministro che potrebbe durare poco, e guadagnargli solo frustrazioni, arrabbiature, impopolarità e discredito.
Una seconda possibile risposta, molto più inquietante, è che Matteo Renzi sia apparso ai suoi potenziali ministri con le idee troppo vaghe sui contenuti. Che di fronte alla giusta domanda «per fare che cosa dovrei diventare ministro?» si sia tenuto un po’ tanto sulle generali.
Come siano andate le cose non lo so, e forse non lo sapremo mai. Per questo, per ora, non riesco a liberarmi né della mia certezza, che sia un bene per l’Italia che Renzi ce la faccia (in bocca al lupo!), né del mio dubbio, e cioè che Renzi non si sia reso conto fino in fondo della smisuratezza dell’impresa che ci promette di compiere.
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