INTERROGATIVI SU DI UNA OPERAZIONE DI DISMISSIONE DELLA PARTECIPAZIONE AZIONARIA STATALE CHE RISCHIA DI NON MIGLIORARE IL SERVIZIO PER I CITTADINI E NON SCIOGLIERE LE SVARIATE POSIZIONI DI MONOPOLIO CHE FANNO CAPO A QUESTO COMPLESSO AZIENDALE
Editoriale di Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera del 30 gennaio 2014
La «privatizzazione» delle Poste è l’esempio di ciò che accade quando un governo debole e pressato dai conti pubblici, perché non è capace di tagliare le spese, si trova a dover cedere a interessi particolari anziché operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato. L’operazione pare costruita su due principi: far contenti i sindacati concedendo loro un implicito diritto di veto su qualunque modifica del contratto di lavoro. E non contrapporsi a un management che si è abilmente conquistato la benevolenza del governo rischiando 70 milioni della propria cassa per coprire le perdite di Alitalia.
Se l’obiettivo fosse stato la massimizzazione dei proventi, la privatizzazione avrebbe dovuto essere strutturata in modo diverso. Gli investitori cercano aziende trasparenti, con obiettivi e strategie chiari, che non usino i ricavi di un’attività per coprire le perdite di un’altra. È il caso delle Poste. L’azienda è, al tempo stesso, un grande banca (con BancoPosta): la maggiore del Paese per numero di sportelli; una compagnia di assicurazione (con PosteVita) e il gestore di un servizio di spedizioni (oltre a essere, da qualche mese, uno dei maggiori soci di Alitalia e possedere una propria compagnia, Mistral). E poi vi sono PosteMobile, operatore di telefonia con 3 milioni di clienti; Postel che offre servizi telematici allo Stato; PosteTributi (attività di riscossione). Come un investitore può comprendere se le attività bancarie e assicurative sono gestite in modo efficiente? Come capire in che modo vengono allocati i costi degli oltre 13.000 uffici postali fra le tre attività che svolgono, posta, banca e assicurazione? Le Poste hanno anche un grande patrimonio immobiliare: come valutare se è sfruttato bene?
Sono questi i motivi per i quali in Germania Postbank fu scorporata dalle poste e venduta a Deutsche Bank prima della privatizzazione. Anche la britannica e ora privata Royal Mail svolge solo il servizio di spedizione. L’unica azienda che fa tre cose assieme sono le poste francesi, che infatti rimangono al 100% pubbliche.
E che dire del modo con il quale viene scelto il management? I veri investitori vogliono che gli amministratori possano essere sostituiti se non massimizzano il valore dell’azienda: improbabile che ciò accada in una società della quale il governo mantiene il 60% delle azioni (il governo di Berlino è sceso al 21%). Tanto più se è lo stesso management che, è vero, ha completamente trasformato l’azienda, ma poi si è fatto coinvolgere nel salvataggio Alitalia.
Il ricavo per lo Stato non è l’unico obiettivo di una privatizzazione. Il trasferimento di un’attività economica dal settore pubblico ai privati è anche l’occasione per migliorare la concorrenza nell’interesse dei cittadini. Le Poste sono una ragnatela di posizioni dominanti. Hanno un numero di sportelli superiore a Banca Intesa, che li ha dovuti ridurre per favorire la concorrenza. Attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, il risparmio postale è investito nella Tesoreria dello Stato, non a tassi di mercato, ma a interessi negoziati. Quando i tassi scendono l’adeguamento del rendimento che il Tesoro paga avviene lentamente, generando un sussidio improprio dello Stato (cioè dei contribuenti) alle Poste e alla Cassa.
E ancora, privatizzare è anche una strada per attirare investimenti dall’estero, per affermare l’apertura del Paese al mercato, per far fare un passo indietro allo Stato nella gestione dell’economia, per mostrare ai mercati che si vuole davvero ridurre il debito pubblico e non continuare a finanziare una spesa che non si riesce a tagliare. Invece, ancora una volta si è imboccata una strada di cui ci pentiremo: l’ennesima occasione perduta.
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