PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI NELL’IMPRESA: LE RAGIONI DI UN RITARDO

LA VISIONE ANTAGONISTICA DEI RAPPORTI TRA CAPITALE E LAVORO CHE HA PREVALSO PER MEZZO SECOLO NELLA CULTURA ITALIANA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI HA ANCHE FRENATO LE PRATICHE DI COINVOLGIMENTO DEI LAVORATORI NELLA GESTIONE AZIENDALE

Saggio pubblicato nella Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2014, n. 1, parte I – È disponibile su questo sito il testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione dei lavoratori in azienda, approvato dalla Commissione Lavoro del Senato nel corso della XVI legislatura, dal quale è nata la delega legislativa contenuta nella legge Fornero (28 giugno 2012 n. 92), rimasta disattesa, poi il disegno di legge bi-partisan 4 dicembre 2013 n. 1051, presentato  dal Presidente della Commissione Lavoro del Senato con le firme di senatori di tutti i gruppi

Sommario: 1. – Né exit né voice per i lavoratori nelle aziende italiane dopo la Liberazione: dai consigli di gestione alle commissioni interne. – 2. Il non decollo delle pratiche partecipative neppure con l’affermarsi della contrattazione articolata, negli anni ’60 e ’70. – 3. Il nuovo lessico della peculiarità italiana: “democrazia economica” vs. “democrazia industriale”. L’“interesse oggettivo dell’impresa” come mistificazione da combattere negli anni ’70 e ’80. – 4. L’ostacolo allo sviluppo delle pratiche partecipative costituito dalle contrapposizioni in seno al movimento sindacale dopo la caduta del Muro. – 5. Le ragioni economiche di un intervento legislativo per il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende. – 6. Il dibattito parlamentare nella XVI legislatura e la delega legislativa contenuta nella legge Fornero del 2012. – 7. Le ragioni a sostegno di un sistema pluralista, nel quale diversi modelli di relazioni industriali possano confrontarsi e competere: incrementare l’opzione exit per incrementare l’opzione voice.

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.1. Né exit né voice per i lavoratori nelle aziende italiane dopo la Liberazione: dai consigli di gestione alle commissioni interne

Per comprendere le peculiarità del sistema italiano di relazioni industriali nel panorama europeo, e in particolare il suo ritardo nella sperimentazione di forme di partecipazione dei lavoratori nell’impresa, occorre considerare il peso dominante che in questo sistema ha avuto per mezzo secolo, dopo la Liberazione, la cultura politico-sindacale elaborata dal partito comunista. Non è facile per me parlarne con il necessario distacco, essendo stato membro di quel partito – sia pure sempre in una posizione eccentrica rispetto agli orientamenti in esso dominanti – per un quindicennio, fino a qualche anno prima della caduta del Muro; se cerco, ciononostante, di farlo è perché proprio l’esserne stato membro mi ha consentito di conoscere dall’interno persone, eventi e movimenti di idee appartenenti a quel partito e alla componente della Cgil che ad esso faceva riferimento, in qualche modo rilevanti per il tema cui sono dedicate queste note.

Nel campo della partecipazione – o, secondo la terminologia più precisa proposta in un saggio recente su questo tema (1), del “coinvolgimento” – dei lavoratori nella gestione dell’azienda o dell’impresa, a sud delle Alpi si è arato e seminato molto meno che a nord. Ciò è dovuto in larga parte alle risposte che il Partito comunista e i suoi epigoni hanno dato per decenni ai problemi del rapporto tra lavoratori e imprenditori nella determinazione delle condizioni di lavoro. Se, per un verso, il predominio della cultura elaborata dal Pci ha favorito il formarsi di un movimento sindacale coeso sul piano nazionale e attento agli effetti macroeconomici delle proprie politiche rivendicative, per altro verso quella cultura ha fortemente contrastato lo sviluppo di qualsiasi esperienza di organizzazione aziendale che in qualche modo presupponesse (o si proponesse di promuovere) una visione comunitaria dell’impresa, o comunque l’accettazione dell’esistenza di un qualche interesse condiviso tra lavoratori e imprenditore.

A ben vedere, tutte le forme di partecipazione dei lavoratori si fondano sull’idea di un interesse comune tra i lavoratori stessi e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa; e pure sull’idea che, sì, l’imprenditore non può fare a meno dei lavoratori, ma anche i lavoratori non possono fare a meno di chi sappia valorizzare il loro lavoro; di chi abbia, dunque, l’indispensabile visione strategica del ruolo dell’impresa nel sistema economico generale, la conoscenza complessiva della miriade delle variabili in gioco, la capacità di mettere insieme e far cooperare tra loro armonicamente tutti i numerosi ed eterogenei fattori produttivi. Al contrario, l’idea che prevale nettamente nella cultura del movimento sindacale italiano negli anni ’50 e ’60 è che, quando si tratta del ruolo dell’impresa nel sistema economico generale, la sola visione strategica utile per la collettività e la sola conoscenza davvero esauriente della miriade delle variabili in gioco rilevanti non possa averla altri se non un ben strutturato organo politico-amministrativo di governo dell’economia. In questo ordine di idee l’imprenditore non è affatto indispensabile per la valorizzazione del lavoro: egli opera per il proprio tornaconto, mentre l’interesse dei lavoratori, coincidente con l’interesse generale, è necessariamente tutt’un altro. Donde il rifiuto di forme di organizzazione dell’impresa che in qualche modo contraddicano questa (ritenuta) radicale alterità fra i due interessi.

Nell’immediato dopoguerra, l’esperienza dei consigli di gestione nelle aziende – cui ha guardato con qualche interesse il legislatore costituente nel redigere l’articolo 46 della Carta – nasce da un’idea coltivata dal socialista Rodolfo Morandi (2). È un’esperienza destinata a esaurirsi molto rapidamente, perché considerata con scarso favore, oltre che dagli ambienti imprenditoriali, dai vertici del Partito comunista, i quali vedono in essa il rischio di una degenerazione aziendalista del movimento sindacale. Nella stessa Costituzione, del resto, con il quarto comma dell’articolo 39 si afferma in modo molto netto un modello di relazioni industriali centralizzato, nel quale il solo livello di determinazione delle condizioni di lavoro previsto e disciplinato è quello nazionale, sia esso interconfederale o di settore. Nella norma non compare neppure il minimo accenno a un’articolazione aziendale né della contrattazione collettiva, né del sindacato.

Poi negli anni ’50 il Pci, e con esso la Cgil, difendono la scelta centralistica opponendosi in modo molto determinato all’idea stessa della contrattazione delle condizioni di lavoro in azienda. In funzione di quella scelta, negli accordi interconfederali sulle commissioni interne si nega a questi organi di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro qualsiasi competenza contrattuale: alle commissioni interne viene riconosciuta soltanto una funzione ispettiva, consultiva, o di assistenza ai lavoratori in controversie che li riguardino individualmente. I loro diritti di informazione sulle scelte imprenditoriali sono limitatissimi.

In questa vicenda delle commissioni interne negli anni ’50 si manifesta un elemento di debolezza della strategia perseguita in questo periodo dal partito comunista sul terreno delle relazioni industriali. Questa strategia si fonda sulla tesi – congruente con la tipica caratteristica monopsonistica dei mercati del lavoro originati in Europa dalla prima rivoluzione industriale – secondo cui l’operaio non ha una effettiva capacità di scelta nel mercato del lavoro: se è insoddisfatto di come vanno le cose in azienda non può, dunque, andarsene altrove, ovvero esprimere quella che nello schema hirschmaniano è indicata come l’opzione exit; logica vorrebbe dunque che, questa essendo la tipica condizione di debolezza dell’operaio nel mercato, il movimento operaio si battesse per garantirgli almeno l’opzione voice dentro l’organizzazione di appartenenza, cioè la possibilità di farsi sentire, il diritto di interloquire nelle scelte dell’imprenditore (3). Ma la strategia dei comunisti italiani non punta a questo: non è accordandosi con l’imprenditore – insegna la dottrina del Pci – che gli operai potranno trovare il loro riscatto; quindi non può essere la commissione interna, come non avrebbero potuto esserlo i comitati di gestione, lo strumento decisivo; il riscatto verrà soltanto dal mutamento dei rapporti di forza almeno al livello politico nazionale (se non addirittura a un livello sovranazionale). In questo modo, però, i dipendenti di un’azienda, già privati dell’opzione exit dalla struttura ancora monopsonistica del mercato del lavoro, vedono fortemente ridotta (quanto meno entro gli angusti confini delle modeste competenze ispettive della commissione interna) la loro opzione voice in seno all’azienda.

Va pur detto a questo proposito che, in quegli anni, se di una voce gli operai disponevano per protestare contro le vessazioni che subivano nei luoghi di lavoro, era per lo più la voce del Pci e quella della Cgil. Ma era una voce strutturata per incidere molto di più sul piano nazionale che all’interno di ciascuna azienda. Nel luogo di lavoro la voice dei lavoratori era strutturalmente molto ridotta. Nella seconda metà degli anni ’50 appare vincente la strategia della Cisl, che – con le sezioni sindacali aziendali e l’apertura dei tavoli aziendali della contrattazione articolata – mira proprio a dare stabilmente voce ai lavoratori anche dentro l’azienda e anche in riferimento alle questioni che riguardano soltanto l’azienda stessa.

2. Il non decollo delle pratiche partecipative neppure con l’affermarsi della contrattazione articolata, negli anni ’60 e ’70

L’idea di un utile coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale potrebbe tornare ad affermarsi negli anni ’60, e poi ancor più negli anni ’70, dopo che Pci e Cgil si sono convertiti al modello della contrattazione collettiva articolata e, in funzione di esso, al radicamento dell’organizzazione sindacale dentro i luoghi di lavoro, con la costituzione in un primo tempo delle sezioni sindacali aziendali, poi dei consigli di fabbrica. Ma a impedire quella possibile evoluzione contribuisce ancora una volta in modo determinante, insieme alla diffidenza degli imprenditori nei confronti di un movimento sindacale egemonizzato dal partito comunista, la simmetrica ostilità di questo partito verso qualsiasi evoluzione del sistema delle relazioni industriali che in qualche modo contraddica l’idea dell’antagonismo tra classe operaia e capitale.

Può forse, in qualche minima misura, contribuire alla messa a fuoco di questa peculiarità della cultura dominante negli anni ’60 e ’70 nel nostro movimento sindacale, rispetto a quella dominante nei Paesi maggiori del centro e nord-Europa, il racconto di un episodio che ho vissuto in prima persona, giovanissimo sindacalista, impegnato come quadro della Fiom-Cgil nell’assistenza ai lavoratori in lotta per i contratti aziendali alla periferia nord di Milano, negli anni caldissimi tra il ’68 e il ’72. Sono gli anni in cui la contrattazione aziendale, soprattutto nel triangolo Torino-Milano-Genova, sta avendo uno sviluppo impetuoso; e su quello sviluppo si sta costruendo, soprattutto nel settore metalmeccanico, una nuova e fortissima organizzazione sindacale unitaria, profondamente radicata nei luoghi di lavoro (in questo molto diversa rispetto al modello di organizzazione sindacale che ha dominato nei due decenni precedenti). Nella mia funzione di assistenza e guida nell’impostazione della piattaforma rivendicativa, suggerisco ai rappresentanti dei lavoratori delle aziende che mi sono affidate di studiare preventivamente i bilanci dell’impresa, individuarne i punti forti e quelli deboli, ma soprattutto integrarne i dati e controllarne la corrispondenza rispetto all’andamento aziendale effettivo, attingendo all’enorme quantità di informazioni con le quali i lavoratori sono quotidianamente a contatto per lo svolgimento delle loro mansioni: spiego loro che il consiglio dei delegati potrebbe disporre, se sapesse leggerli, più dati sul bilancio reale dell’impresa di quanti ne abbia lo stesso consiglio di amministrazione, salvo verificarli nel confronto con la Direzione aziendale; potrebbe dunque proporsi di individuare autonomamente la posizione effettiva e le potenzialità dell’impresa rispetto al mercato specifico in cui essa opera, costruire sulla base di questi dati una piattaforma rivendicativa più incisiva e al tempo stesso presentarsi al tavolo delle trattative in posizione di maggiore forza. Anche sulla base delle mie esperienze pratiche, oltre che sulla base di notizie tratte dallo studio del sistema di relazioni industriali tedesco, mi sono convinto a tal punto della bontà di questo approccio, che mi spingo a teorizzarlo in un articolo che viene pubblicato dalla rivista diretta da Lelio Basso, Problemi del Socialismo (4). A seguito di questo mio intervento, nel quale in sostanza propongo di dimensionare le rivendicazioni aziendali secondo le capacità economiche dell’impresa concretamente rilevate dai lavoratori nella situazione data e controllate con la Direzione aziendale, diversi dirigenti della Fiom e della struttura confederale mi rivolgono critiche tanto bonarie nella forma quanto dure nel loro significato politico-sindacale. Pur con simpatia e senza toni censori, essi mi avvertono che quella mia idea è totalmente “fuori linea”: perché presuppone una subordinazione degli interessi del movimento operaio a quelli dell’impresa; perché finisce coll’inserire l’azione del sindacato “dentro” il sistema capitalista invece che farne strumento per il superamento del sistema stesso; perché – e con questo il cerchio argomentativo si chiude inesorabilmente – è un’idea ispirata all’esperienza del movimento operaio tedesco, tutta interna a una visione socialdemocratica, “subalterna agli interessi del sistema capitalista”, mirata soltanto alla redistribuzione della ricchezza e non a incidere sui modi della sua produzione.

La stessa Direzione della Rivista si fa interprete di queste obiezioni, in un corsivo che essa si sente in dovere di premettere alla pubblicazione, nelle cui ultime righe si legge: ”L’autore non si pone l’interrogativo circa il comportamento del sindacato nel caso in cui la situazione economica e finanziaria dell’impresa risulti tale da non poter sopportare ulteriori rivendicazioni salariali”. Effettivamente, nell’articolo non mi pongo questo interrogativo, perché la risposta per me è ovvia: se l’impresa non può sopportare ulteriori rivendicazioni, non conviene ai lavoratori presentarle; ma questo non è affatto pacifico per la Direzione di Problemi del Socialismo, e ancor meno per i dirigenti sindacali che guardano con perplessità se non diffidenza alla mia proposta. Né rivolgendomi queste critiche, essi si curano di spiegarmi quale mai interesse economico dei lavoratori possa, hic et nunc, prescindere dalla prosperità dell’impresa a cui essi appartengono, dalla sua capacità di reggere alle loro rivendicazioni. Alla maggior parte della dirigenza politica e sindacale in questo periodo importa soprattutto che venga salvaguardata la mobilitazione della classe lavoratrice in funzione del suo interesse strategico all’evoluzione verso un sistema economico in cui le scelte strategiche siano compiute sempre di più dal programmatore pubblico e sempre meno dagli imprenditori soggetti privati.

I più colti tra quei dirigenti della Cgil – dei quali ricordo con grande amicizia e affetto Bruno Trentin – obiettano all’idea proposta nel mio articolo che “se la singola impresa non è in grado di reggere alle rivendicazioni del sindacato, è bene che essa chiuda e che i lavoratori si spostino in imprese più efficienti, dove il loro lavoro è valorizzato meglio”. In altre parole, non è la contrattazione collettiva che deve dimensionare gli standard di trattamento secondo le possibilità dell’impresa, ma è questa che deve sapersi adattare agli standard generali, che la contrattazione collettiva determina secondo criteri di compatibilità macro-economica. Argomento, questo, molto forte a sostegno della scelta di centralizzare il meccanismo contrattuale di fissazione degli standard minimi di trattamento; ma che si sposa assai meno bene con la scelta – di cui proprio a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 il movimento sindacale italiano ha fatto la propria bandiera – dello sviluppo di una contrattazione collettiva aziendale non più regolata dal contratto nazionale mediante le “clausole di rinvio”, bensì del tutto libera di spaziare su qualsiasi materia: che si tratti di retribuzione, orario, inquadramento professionale, organizzazione del lavoro, o altro. Solo due decenni più tardi mi diverrà chiara un’altra componente essenziale di questa cultura delle relazioni industriali: l’idea, fortemente radicata e diffusa tra i sindacalisti a tutti i livelli, che se la singola impresa di grandi o medie dimensioni non è in grado di reggere alle rivendicazioni del sindacato, essa non debba affatto chiudere, ma debba essere inserita nel sistema delle imprese a partecipazione statale finanziate con i “fondi di dotazione” generosamente erogati ogni anno dallo Stato, o comunque sorretta mediante commesse pubbliche, forniture a prezzo politico, sgravi fiscali o altre misure idonee. Questo è lo schema di pensiero sotteso alla rivendicazione, solitamente rivolta dal sindacato al Governo, di “una seria politica industriale”: si decide quale impresa debba rimanere in piedi, ovviamente secondo criteri tra i quali prioritario è quello della garanzia di stabilità dei posti di lavoro esistenti, e poi si fa in modo che in piedi essa resti, se necessario con gli opportuni “incentivi” pubblici.

3. Il nuovo lessico della peculiarità italiana: “democrazia economica” vs. “democrazia industriale”. L’“interesse oggettivo dell’impresa” come mistificazione da combattere negli anni ’70 e ’80

Queste sono le idee largamente prevalenti in seno al movimento sindacale italiano nel decennio successivo all’autunno caldo del ’69. Quando, nella seconda metà degli anni ’70, soprattutto negli ambienti della Cisl e del Partito socialista, incominciano a circolare alcune idee di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale sotto l’insegna della “democrazia industriale”, la componente largamente maggioritaria della Cgil imposta il fuoco di sbarramento contrapponendo all’idea della “democrazia industriale” quella della “democrazia economica”: tradotta dal sindacalese, nient’altro se non una nuova edizione dell’idea dirigista, che si sostanzia ora nell’elaborazione e perseguimento di “piani di settore”, decisi da un comitato interministeriale, immancabilmente “sentite le parti sociali” (a questa idea si ispira la legge n. 675/1977 sulle crisi industriali, varata dal primo Governo nato con il sostegno esterno del Partito comunista). È del tutto evidente che questa “democrazia economica” non ha alcunché da spartire con la “democrazia industriale” cui qualcuno pensa nella Cisl e nel Psi; ma posso testimoniare per esperienza personale diretta che nei dibattiti in seno al movimento sindacale – e anche nel dibattito accademico: penso per esempio al convegno di Sirmione del 1976 (5) – la “democrazia economica” viene utilizzata dalla sinistra politica e sindacale per sbarrare la strada alla “democrazia industriale”. Solo il modello sotteso alla prima è considerato congruente con la prospettiva di “fuoruscita dal sistema capitalistico”, che costituisce ancora parte integrante della cultura del partito comunista, oltre che ovviamente dei gruppi politici collocati alla sua sinistra, e della maggior parte del movimento sindacale; mentre il modello sotteso alla seconda viene emarginato come appartenente alla cultura socialdemocratica. La partecipazione dei lavoratori in azienda viene bollata come una “mistificazione”, funzionale alla cultura della pace sociale, al depotenziamento delle lotte operaie, quindi fondamentalmente agli interessi della classe imprenditoriale. Nei rinnovi sindacali della seconda metà degli anni ’70 si rivendicano soltanto nuovi diritti di informazione sull’andamento aziendale e sulle scelte imprenditoriali che possono influire sui livelli occupazionali e le condizioni di lavoro (la cosiddetta “prima parte” dei contratti collettivi nazionali): ancora nulla che possa essere classificato propriamente nella categoria “partecipazione” o “coinvolgimento”.

È degli anni ’60 e ’70 anche l’elaborazione da parte della corrente maggioritaria della dottrina giuslavoristica italiana del rifiuto netto della nozione di “interesse oggettivo dell’impresa” come interesse distinto da quello dell’imprenditore. Questo rifiuto è funzionale alla confutazione delle concezioni istituzioniste, di quelle comunitarie e di quelle associative dell’impresa, proposte in varia forma, tra gli altri, da Carlo Lega, Giampaolo Novara, Aldo Cessari e Giuseppe Suppiej (6), nonché, su di un piano diverso, dalla dottrina sociale cattolica (7). Certo, alcune di quelle costruzioni erano state presentate con argomentazioni assai poco convincenti; e probabilmente era sbagliata la loro pretesa di universalità: l’idea, cioè, che a qualsiasi impresa nel nostro ordinamento dovesse attribuirsi natura comunitaria o associativa; ma probabilmente era sbagliata anche la pretesa della dottrina giuslavoristica dominante – tributaria in questo della cultura allora dominante nel movimento sindacale   di respingere a priori come una mistificazione la possibilità stessa che, nel sistema capitalistico, al di fuori del caso particolare della cooperativa di lavoro potesse concepirsi un “interesse dell’impresa” distinto da quello personale dell’imprenditore, condiviso da quest’ultimo con i suoi dipendenti (8). Fatto sta che proprio questo rifiuto crea un ambiente nettamente sfavorevole allo sviluppo di pratiche partecipative in seno alle aziende.

Gli anni ’60 e ’70 sono anche gli anni in cui il Pci esprime con determinazione la propria contrarietà al processo di integrazione europea. Solo dalla fine degli anni ’70 questa contrarietà incomincia a stemperarsi; ma il processo di conversione vera e propria del partito maggiore della sinistra italiana e della Cgil all’europeismo avviene nel corso degli anni ’80 senza alcuna autocritica, né tanto meno abbandono esplicito delle idee, in tema di relazioni industriali, che sono state dominanti nei due decenni precedenti. Idee alle quali intanto le nuove formazioni della sinistra politica e sindacale sono ben decise a dare attuazione in modo più coerente e incisivo di quanto abbiano fatto fin qui Pci e Cgil.

4. L’ostacolo allo sviluppo delle pratiche partecipative costituito dalle contrapposizioni in seno al movimento sindacale dopo la caduta del Muro

La caduta del Muro segna la fine del Pci, ma non un mutamento drastico nella cultura dominante nel movimento sindacale italiano. Nei due decenni successivi, certo, anche nella Cgil nessuno – o quasi – parla più di “fuoruscita dal sistema capitalistico”, né di “antagonismo di classe”. Ma neppure si può dire che nella Cgil si affermi in modo netto l’idea che i lavoratori hanno bisogno di un buon imprenditore tanto quanto quest’ultimo ha bisogno dei lavoratori. E neppure l’idea che i lavoratori abbiano tutto l’interesse a un processo di innovazione tecnologica e organizzativa continua, essendo questa l’unica possibile garanzia per l’impresa del suo spazio nel mercato e quindi per loro stessi di una solida prospettiva di occupazione redditizia. Di questa idea si appropriano in modo definitivo Cisl e Uil; ma nella Cgil continua a prevalere un’idea statalista della politica industriale: l’idea, cioè, che la sola prospettiva stabile di crescita economica si collochi nel quadro di un sistema fondato sugli incentivi pubblici (leggi: aiuti alle imprese) e dove necessario anche sull’investimento diretto dello Stato nell’industria.

Mentre Cisl e Uil – pur con qualche incertezza e qualche défaillance – si convincono della necessità, nell’era della globalizzazione, di negoziare a 360 gradi per attirare nel nostro Paese buoni piani industriali e i relativi investimenti, nella Cgil continua a prevalere – almeno fino al giugno 2011 – l’idea della irrinunciabilità, per la difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori, di un contratto nazionale che definisca inderogabilmente non soltanto la struttura della retribuzione e i minimi salariali, ma anche l’estensione e distribuzione temporale del lavoro, la sua organizzazione e il sistema di inquadramento professionale. Idea che si coniuga con quella – non sempre enunciata esplicitamente ma sempre presente e decisiva – secondo cui, dove la impresa privata grande o media non riesca a prosperare nel rispetto dello standard definito dal contratto collettivo nazionale, spetta allo Stato intervenire per sostenerla. Per questo aspetto il caso Fiat è emblematico: alla domanda circa il futuro degli stabilimenti facenti capo a quel grande gruppo multinazionale nel caso in cui prevalga il “no” propugnato dalla Fiom al nuovo piano industriale presentato dall’amministratore delegato nel 2010, con le sue deroghe al contratto nazionale e le sue clausole di tregua sindacale, la risposta dei dirigenti nazionali della Cgil è immancabilmente: se l’impresa si ritira, degli stabilimenti sul territorio nazionale si faccia carico il Governo (non sono forse “a partecipazione statale” anche l’industria automobilistica francese e quella tedesca?).

Una divergenza così marcata tra i sindacati maggiori, su questioni tanto cruciali, è più che sufficiente per spiegare la diffusione relativamente scarsa, nel nostro Paese rispetto a quelli del centro e nord-Europa, delle esperienze di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende anche nell’ultimo quarto di secolo. Qualsiasi forma di partecipazione dei lavoratori nell’impresa è antitetica rispetto all’antagonismo di classe: essa presuppone infatti l’accettazione piena da parte dei lavoratori stessi del ruolo essenziale dell’imprenditore e la condivisione tra gli uni e l’altro degli obiettivi di prosperità dell’impresa e dei vincoli esterni da rispettare (salvo ovviamente accordarsi sull’equa ripartizione dei frutti e concordarne rigorosamente il rispetto). Un sistema in cui una buona metà del movimento sindacale è quanto meno riluttante a collocarsi in questo ordine di idee non può costituire terreno fertile per lo sviluppo di esperienze partecipative nelle aziende.

Questo è infatti ciò che osserva Matteo Corti nel suo saggio recente su questo tema (9), dove la povertà dell’esperienza italiana, sia sul piano normativo sia su quello dello svolgimento effettivo delle relazioni in azienda, viene messa a confronto con il favor per relazioni industriali tendenzialmente cooperative espresso esplicitamente dall’ordinamento europeo in diverse direttive (il cui contenuto precettivo in materia di informazione e consultazione non va, tuttavia, oltre l’obiettivo di una armonizzazione minima tra gli ordinamenti degli Stati membri), ma soprattutto con i principali modelli nazionali continentali: in particolare quello tedesco, nel quale la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, nelle sue varie gradazioni, assurge a tratto distintivo di un sistema di relazioni sindacali fondamentalmente cooperativo; il poldermodel olandese, nel quale la partecipazione dei lavoratori costituisce una sorta di garanzia di efficienza delle imprese in un sistema fortemente internazionalizzato; e il modello svedese, caratterizzato da un vincolo ordinamentale centrato sui diritti di informazione e negoziazione, con alcuni elementi di cogestione, in un contesto di monopolio sindacale nella rappresentanza dei lavoratori nell’impresa.

5. Le ragioni economiche di un intervento legislativo per il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende

Qui si pone l’interrogativo tipico dell’approccio di law and economics: perché il legislatore debba intervenire in questa materia, non limitandosi a lasciare libere le parti interessate di negoziare il regolamento che ritengono meglio corrispondente ai propri interessi caso per caso. Una risposta è quella che la recente monografia testé citata propone sulla scorta della lezione di Wolfgang STREECK (10), la quale può articolarsi in due affermazioni: i) la partecipazione costituisce il modo migliore per assicurare alle imprese pace sociale e dedizione dei lavoratori a programmi produttivi ambiziosi, garantendo al tempo stesso a questi ultimi le condizioni di lavoro migliori compatibili con il necessario equilibrio economico dell’impresa; ii) la libera negoziazione tra le parti, tuttavia, non produce la scelta del modello partecipativo dell’organizzazione aziendale, per la limitatezza della razionalità degli individui e per l’attivarsi di meccanismi che impediscono il raggiungimento dell’equilibrio migliore: donde la necessità di un intervento legislativo che imponga inderogabilmente quel modello, come è avvenuto in Germania.

Questa risposta all’interrogativo circa la ragion d’essere di un intervento legislativo che imponga nelle aziende un modello di organizzazione partecipativo può essere assunta anche come risposta all’interrogativo specifico circa il perché, invece, quel modello nel nostro Paese non sia stato adottato affatto. Se il suo scopo essenziale consiste nel coniugare la pace sociale con la scommessa comune dei lavoratori con gli imprenditori su piani industriali innovativi, anche divergenti rispetto al modello di organizzazione del lavoro e di struttura della retribuzione fissati dalla contrattazione nazionale, questo scopo appare inconciliabile con i capisaldi della cultura dominante nel nostro movimento sindacale fino alla fine del secolo scorso e tuttora propria di una parte molto rilevante del movimento stesso. Le vicende più recenti del dibattito politico-sindacale e parlamentare su questa materia sembrano confermarlo.

6. Il dibattito parlamentare nella XVI legislatura e la delega legislativa contenuta nella legge Fornero del 2012

La legge italiana attuativa della direttiva europea n. 2002/14/CE – quella che istituisce “un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori”   non è andata al di là di una mera attuazione dell’obbligo comunitario ispirata a un intendimento debole e “continuista”. Un passo più avanti si è spinta la norma italiana più recente in materia di partecipazione dei lavoratori, cioè la delega legislativa al Governo contenuta nel comma 62 dell’articolo 4 della legge 28 giugno 2012 n. 92. Perfettamente coerente, anche sul piano lessicale, rispetto all’ordinamento comunitario, la delega però esclude che alle imprese, sul terreno della partecipazione dei lavoratori, possa essere imposto alcun obbligo, dovendo la norma delegata limitarsi a indicare in materia una serie di opzioni, tra le quali deve essere compresa anche l’opzione-zero.

L’origine di questa scelta compiuta con la legge Fornero del 2012 va cercata nella discussione svolta nel corso della XVI legislatura in seno alla Commissione Lavoro del Senato, che aveva portato alla redazione di un testo unificato dei sei disegni di legge presentati da Pd (primi firmatari Tiziano Treu e Benedetto Adragna), dal PdL (primi firmatari Maurizio Castro, Cinzia Bonfrisco, Francesco Casoli) e da IdV (Elio Lannutti) (11). Di fronte all’opposizione molto determinata della Confindustria a qualsiasi ipotesi di intervento legislativo su questa materia, cui faceva in qualche modo sponda l’opposizione della Cgil, meno esplicita ma non meno determinata, la sola scelta politicamente praticabile era parsa quella, appunto, di un intervento legislativo volto a rimuovere il divieto di partecipazione di rappresentanti dei lavoratori dipendenti nei Consigli di Sorveglianza, ad aumentare l’agevolazione fiscale per le forme di partecipazione agli utili e di azionariato dei dipendenti, e per il resto a promuovere genericamente le pratiche partecipative mediante un “censimento” e una disciplina molto leggera delle stesse (escluso però ogni riferimento a forme di cogestione vera e propria e in particolare di partecipazione di rappresentanti dei lavoratori ai consigli di amministrazione), lasciando libere le imprese e le organizzazioni sindacali di adottarne una, più di una, o anche nessuna. L’idea era, in sostanza, quella di promuovere una pluralità di modelli possibili di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, lasciando libero corso al confronto e alla competizione tra di essi nel vivo del tessuto produttivo nazionale, soprattutto in funzione dello sviluppo della contrattazione aziendale di piani industriali innovativi, anche in deroga rispetto alla disciplina nazionale di settore. Senonché il carattere totalmente opzionale della previsione contenuta nel testo unificato elaborato dalla Commissione non aveva avuto la virtù di superare l’opposizione di Confindustria e Cgil. E il perdurare di quella opposizione ha fatto sì che anche la delega legislativa introdotta, al termine della legislatura, nella legge Fornero sia rimasta inadempiuta fino alla scadenza del termine di nove mesi ivi previsto.

Questo convergere dell’opposizione della Confindustria con quella della Cgil non deve sorprendere. La Cgil – e con essa una parte consistente, ma non maggioritaria su questo punto, del Partito democratico – teme che l’introduzione di forme di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale segni un passo ulteriore sulla via del depotenziamento del contratto collettivo nazionale (questo, effettivamente, è uno degli intendimenti sottesi al testo unificato elaborato dalla Commissione Lavoro del Senato, con un anno di anticipo rispetto all’accordo interconfederale del giugno 2011). La Confindustria a sua volta – appoggiata su questo punto dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, di fatto in contrasto con il capogruppo PdL in Commissione Lavoro al Senato Maurizio Castro (12) – teme che, non mutando la preferenza della Cgil per centralismo contrattuale e relazioni sindacali di tipo conflittuale, l’introduzione di forme di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale possa avere il solo effetto di indebolire le prerogative manageriali della dirigenza senza aprire affatto nuovi spazi per la “scommessa comune” tra imprese e lavoratori sull’introduzione di piani industriali innovativi.

Insomma, nonostante il favore della Cisl e l’apparente convergenza in sede parlamentare, nel panorama del sistema italiano delle relazioni industriali tra centrodestra e centrosinistra, nel corso della XVI legislatura, sull’intervento legislativo “debole”, cioè volto a eliminare ostacoli e istituire incentivi ma non a imporre vincoli, questo intervento rimane allo stadio di una delega legislativa inattuata. Con la prospettiva che, nel panorama del sistema italiano delle relazioni industriali, le pratiche partecipative rimangano ancora a lungo delle mosche bianche.

7. Le ragioni a sostegno di un sistema pluralista, nel quale diversi modelli di relazioni industriali possano confrontarsi e competere: incrementare l’opzione exit per incrementare l’opzione voice

Oggi nella sinistra italiana il rifiuto sprezzante delle idee socialdemocratiche non ha più corso, se non in gruppi molto minoritari. Al contrario, nell’attuale (settembre 2013) maggioranza del Partito democratico è divenuta frequente una sorta di riabilitazione del termine “socialdemocratico”; ma Giuseppe Berta osserva fondatamente come questo termine abbia preso a essere “utilizzato nella sostanza per salvare un orizzonte di riferimenti e di valori distillati in realtà dalla tradizione comunista”; e ciò proprio quando nel Regno Unito come in Germania il richiamo al socialismo viene sostituito da quello al comunitarismo (13). Mentre, dunque, dal “revival socialdemocratico” (se così possiamo chiamarlo) di casa nostra è difficile attendersi una svolta favorevole alla cultura del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa, a nord delle Alpi e della Manica rialza invece la testa proprio quella concezione comunitaria dell’impresa, e comunque quell’idea del suo “interesse oggettivo”, che da noi è stata fortemente   e rimane per lo più tuttora – ostracizzata.

La mia convinzione è che la peculiarità italiana in questo campo non potrà essere coltivata ancora a lungo: il processo di integrazione europea fa sì che è sempre più difficile per le culture nazionali isolarsi, evitare la contaminazione con quelle degli altri Paesi membri dell’Unione. Resteremo, probabilmente, un Paese refrattario a una disciplina nazionale generale che imponga una qualche forma di coinvolgimento (in senso proprio) dei lavoratori nella gestione aziendale, ma non potremo permetterci di mantenere un ordinamento di fatto ostativo alle pratiche partecipative, nel quale è addirittura vietata la presenza di dipendenti nel consiglio di sorveglianza quando l’impresa è governata secondo il modello duale (artt. 2409-octies a 2409-quaterdecies c.c.) e la partecipazione azionaria dei lavoratori al capitale dell’impresa non gode di alcun occhio di riguardo da parte del Fisco.

Meglio dunque – a me sembra – in Italia limitarci a rimuovere gli ostacoli e a istituire qualche incentivo fiscale a favore delle pratiche partecipative, piuttosto che tentare di imporre un modello unico di coinvolgimento dei lavoratori nelle imprese. A ben vedere, due tra i più interessanti modelli di relazioni industriali cooperative e partecipative nella storia dell’industria occidentale nell’ultimo trentennio – quello dello stabilimento Saturn di Spring Hill nel Tennessee e quello dello stabilimento della Nissan a Sunderland in Inghilterra, entrambi a cavallo degli anni ’80 e ’90 (14) – si sono sviluppati in contesti ordinamentali di tipo anglosassone, a bassissimo tasso di densità della normativa inderogabile nel campo che qui interessa. Ciò che dobbiamo e possiamo fare è, innanzitutto, operare perché sia più chiaro il quadro normativo in tema di contrattazione collettiva aziendale, in modo che questa sia più chiaramente abilitata a compiere scelte efficaci in materia di pratiche partecipative. Inoltre operare perché non soltanto il collettivo aziendale (mediante la contrattazione collettiva), ma anche i lavoratori uti singuli (mediante un mercato del lavoro ben funzionante) possano scegliere tra i molti modelli possibili di governance aziendale quello che ritengono possa offrire le prospettive migliori, nel breve, nel medio e/o nel lungo termine.

Le strutture dei mercati del lavoro sono profondamente cambiate rispetto a mezzo secolo fa. Esistono ancora situazioni di monopsonio strutturale, ma esse non costituiscono più il modello dominante; oggi al lavoratore è data, molto di più di quanto ciò non sia diffusamente riconosciuto, quella opzione exit che – come abbiamo osservato all’inizio di queste note – nel mercato del lavoro originario era assai più compressa (15). E, con il ritorno alla crescita economica e l’auspicabile miglioramento dell’efficienza dei servizi nel mercato del lavoro, la situazione, da questo punto di vista, può soltanto migliorare. Oggi non è affatto utopistico ipotizzare che ciascun lavoratore possa esercitare la propria scelta, così come tra lavorare nel settore pubblico o in quello privato, o tra lavorare in un settore produttivo piuttosto che in un altro, anche tra lavorare in un’impresa strutturata in modo tradizionale oppure in una ad alto tasso di partecipazione, tenendo conto dei risultati dai diversi modelli di governance aziendale. Dobbiamo puntare a un sistema in cui l’opzione exit – che già oggi consente a milioni di lavoratori di scegliere dove lavorare – possa essere esercitata anche in riferimento alla quantità di voice che è data ai dipendenti in ciascuna impresa, al modo in cui essa è data e ai risultati pratici che ne conseguono (16).

Non dimentichiamo che interessi molto diversi a questo riguardo possono manifestarsi su entrambi i lati del mercato del lavoro. Forse, con buona pace della teoria streeckiana, è davvero meglio lasciare che cento fiori fioriscano in questo campo. L’ordinamento statale si limiti a creare gli spazi per la sperimentazione di modelli diversi, soprattutto perché essi possano tra loro confrontarsi e competere. E la dottrina cessi dallo stendere cavalli di frisia contro le concezioni dell’impresa che non corrispondono alla visione di essa tradizionalmente dominante nel nostro movimento sindacale. Nessuno può escludere che all’esito di questo confronto tra modelli diversi si debba concludere nel senso che non esiste un modello migliore degli altri in assoluto, ma soltanto un modello che meglio si adatta a un tipo di attività produttiva, o agli interessi di un tipo di lavoratore, mentre modelli diversi tendono a dare i risultati migliori in altri settori o in relazione agli interessi di lavoratori caratterizzati da preferenze diverse. A me sembra che anche in questa materia la concorrenza e possibilità di scelta tra idee, concezioni, modelli vecchi e nuovi, se effettiva e ben regolata, resti il first best.

Note:
(1) M. Corti, La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
(2) Il quale presentò nel 1946 un disegno di legge per il riconoscimento e la generalizzazione dell’esperienza dei consigli di gestione. In proposito v. R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica (1945-1948), Torino, Einaudi, 1960.
(3) Il riferimento è ovviamente a O. HIRSCHMAN, Exit, Voice and Loyalty – Response to decline in Firms, Organisations and States, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1970.
(4) Il controllo del sindacato sulla situazione economica dell’impresa, Problemi del Socialismo, 1971, 394-495 (stante la difficoltà di reperimento di questa testata nelle biblioteche giuridiche, segnalo che l’articolo si trova anche nell’archivio dei miei scritti, alla pagina web http://archivio.www.pietroichino.it/saggi/view.asp?IDArticle=990).
(5) Riconversione e controllo democratico, Atti del convegno promosso a Sirmione nel novembre 1976 dall’Irer e dal Centro nazionale studi di diritto del lavoro “Domenico Napoletano”, Bari, De Donato, 1977. Nella Premessa al volume, a firma del curatore A. MEREU, il principio di democrazia economica viene sintetizzato nei termini della “necessità – tanto più ineludibile in un periodo in cui gli effetti disgreganti della crisi tendono a scatenare le tendenze corporative latenti nei settori del corpo sociale – che quest’opera di profonda, spesso traumatica, trasformazione, la quale non può non richiedere un alto grado di controllo e di direzione sui comportamenti dei soggetti sociali e sulle loro dinamiche più o meno spontanee, si compia con il massimo di consenso attivo, cioè di partecipazion, di questi stessi soggetti” (7).
(6) C. LEGA, La comunità di lavoro nell’impresa, Milano, Giuffrè, 1963; G. NOVARA, Il contratto collettivo aziendale, Milano, Giuffrè, 1965; di A. CESSARI v. soprattutto, per la concezione associativa dell’impresa e del rapporto di lavoro Fedeltà, Lavoro, Impresa, Milano, Giuffrè, 1969, e Concezione “causale” del controllo dei poteri dell’imprenditore, pubblicato in un primo tempo con altro titolo nel volume in onore di Cesare GRASSETTI, Milano, Giuffrè, 1980, poi in versione ridotta in A. CESSARI, R. DE LUCA TAMAJO, Dal garantismo al controllo, Milano, Giuffrè, 1982; G. SUPPIEJ, La struttura del rapporto di lavoro, vol. II, Padova, Cedam, 1963: “l’impresa… come collettività organizzata, come vivente organismo, come corpo sociale comprensivo dell’imprenditore e dei suoi collaboratori, di persone e di beni destinati a un fine produttivo” (109).
(7) V. in proposito l’intervento di Livio LABOR, allora vice-presidente delle ACLI milanesi, al convegno promosso dalla Società umanitaria, Convegno nazionale di studio sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale – Milano, 4-5-6- giugno 1954, Milano, Giuffrè, 1954, 82-86, recante ampi stralci tratti dalla nota allocuzione di Pio XII alle tabacchine del 1953. Un riferimento all’impresa come “comunità” tra imprenditore e lavoratori compare anche (ma qui in funzione di un discorso di natura etico-religiosa più che giuridica) nell’allocuzione dello stesso Pio XII ai dirigenti d’azienda del 31 gennaio 1952; inoltre nell’enciclica di Giovanni XXIII Mater et Magistra (1961): “si deve tendere a che l’impresa divenga una comunita di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nella posizione di tutti i suoi soggetti” (§ 78).
(8) Sul dibattito circa la concezione istituzionistica o comunitaria dell’impresa, nonché sulle nozioni di “interesse dell’impresa” e di “funzionalizzazione” della stessa, che ha fortemente interessato la dottrina giuslavoristica italiana nel primo ventennio successivo alla Liberazione, rinvio alla trattazione che ne ho proposto ne I primi due decenni del diritto del lavoro repubblicano: dalla Liberazione alla legge sui licenziamenti, in R. DEL PUNTA, R. DE LUCA TAMAJO, G. FERRARO, P. ICHINO, Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, Milano, Giuffrè, 2008, 5-77 (dove ho osservato, tra l’altro, una contraddizione logica tra il rifiuto della nozione di “interesse oggettivo dell’impresa” e la costruzione concettuale del controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento o di trasferimento del lavoratore).
(9) Cit. nella nota 1.
(10) Op. cit. nella nota 1, 322.
(11) Poiché questo testo unificato – del quale sono stato l’estensore, in qualità di relatore sui sei disegni di legge – è stato presentato e approvato (il 12 febbraio 2012) soltanto nell’ambito del “comitato ristretto” a ciò dedicato, esso non è reperibile sul sito del Senato. Lo si può leggere tuttavia in questa pagina web: https://www.pietroichino.it/?p=18545.
(12) Il contrasto si è ricomposto all’inizio della XVII legislatura, quando Maurizio Sacconi, ora in veste di presidente della Commissione Lavoro del Senato, ha sollecitato i partiti della maggioranza di “larghe intese” a presentare unitariamente un disegno di legge che riprenda integralmente la delega legislativa contenuta nell’articolo 4 della legge n. 92/2012.
(13) G. BERTA, Il passato che è passato forse per sempre, in Formiche, agosto-settembre 2013, 46-47, e più ampiamente in un saggio di prossima pubblicazione per i tipi di Einaudi.
(14) Ho dedicato a queste due esperienze uno dei capitoli di A che cosa serve il sindacato?, Milano, Mondadori, 2005.
(15) Nei dibattiti in materia di lavoro in Italia prevale sempre l’idea che il lavoratore sia, di regola, nell’impossibilità di cambiare lavoro: non si tiene quasi mai conto del dato fornito dal ministero del Lavoro sulla base del sistema delle comunicazioni obbligatorie raccolte capillarmente dai suoi uffici periferici, secondo cui anche in un anno di gravissima recessione quale il 2012 nel nostro Paese sono stati stipulati 1.770.513 contratti di lavoro regolari a tempo indeterminato, pari al 17,3 per cento del totale dei contratti regolari stipulati.
(16) Per un discorso più ampio in proposito rinvio ancora ad A che cosa serve il sindacato?, cit. nella nota 14.
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