PER UN WELFARE PIU’ MIRATO AL BISOGNO REALE, PIU’ INCLUSIVO E UNIVERSALE

DOBBIAMO SMETTERE DI PENSARE CHE WELFARE SIGNIFICHI SOLTANTO PENSIONI PER GLI ANZIANI: IL BISOGNO VERO NON COINCIDE NECESSARIAMENTE CON L’ETA’ AVANZATA
Articolo pubblicato su LavorInCorso, aprile 2009

           
Nel 2008 lo Stato italiano ha destinato oltre 79 miliardi di euro per far fronte al fabbisogno dell’Inps, dei quali più di 40 per riequilibrare il bilancio del nostro sistema di previdenza pensionistica. È questo il modo migliore in cui interpretare il fondamentale debito di sicurezza dello Stato verso i suoi cittadini più deboli? Certamente no.
            Le situazioni di maggior debolezza e bisogno coincidono solo in parte con le situazioni nelle quali tipicamente vengono erogate dall’Inps le pensioni di anzianità e di vecchiaia (un discorso a parte andrebbe fatto per molte di quelle di invalidità). È davvero difficile sostenere che meritino un sostegno del reddito a carico della fiscalità generale i cinquantottenni o sessantenni in quanto tali, senza distinzione tra chi svolge un lavoro manuale o usurante e chi no; eppure, è anche per consentire a questi ultimi di andare in pensione precocemente che lo Stato versa quelle molte decine di miliardi ogni anno; col risultato, oltretutto, di contribuire a mantenere patologicamente basso il nostro tasso di occupazione nella fascia di età tra i 55 e i 65 anni.
Lo Stato stesso è invece inerte di fronte a situazioni nelle quali l’intervento pubblico a carico della fiscalità generale sarebbe giustificatissimo, anzi indispensabile:  si pensi, per esempio, alle famiglie che devono dare assistenza continuativa a un proprio membro non autosufficiente, oppure alle situazioni di povertà infantile, che sono destinate a segnare in modo per lo più irreversibile il destino di centinaia di migliaia di futuri adulti. Su entrambi questi fronti si potrebbe fare fin d’ora moltissimo con le risorse che si otterrebbero mediante un aumento di uno o due anni dell’età del pensionamento di anzianità.  In particolare, con 7 miliardi all’anno (meno di un decimo di quello che lo Stato spende oggi per far fronte al fabbisogno dell’Inps!) si potrebbe incominciare a imitare seriamente il sistema di assistenza domiciliare agli invalidi non autosufficienti di Paesi avanzati come la Svezia o la Norvegia, mettendo in moto un meccanismo di formazione e lavoro nel settore dell’assistenza che, a regime, darebbe lavoro a circa 100 mila persone, in prevalenza donne, e non necessariamente in forma di lavoro alle dipendenze di enti pubblici. Con lo stesso stanziamento si potrebbe attribuire a tutte le persone di età fino a 16 anni una sorta di primo “reddito di cittadinanza” fruibile in servizi di assistenza e istruzione. Non sarebbe questo un modo migliore di spendere il denaro pubblico oggi destinato al sistema del welfare?
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Poi c’è il problema del sostegno del reddito di chi perde il posto di lavoro: oggi dei lavoratori dipendenti meno della metà gode di un trattamento di disoccupazione degno di questo nome. Qui, però, la questione non è soltanto – e neppure principalmente ‑ quella del reperimento delle risorse necessarie per il sostegno del reddito. Qualsiasi potenziamento di un trattamento di disoccupazione presenta il problema del suo possibile effetto, su chi lo riceve, di “addormentamento” dell’attività di ricerca della nuova occupazione.
“Universalizzare” il sostegno del reddito per il lavoratore dipendente che perde il lavoro è necessario, sia dal punto di vista della sicurezza sociale, sia da quello della stabilizzazione del ciclo economico: la sicurezza data al disoccupato significa, infatti, anche stabilità della domanda di beni e servizi alle famiglie nella congiuntura economica negativa. Ma una strategia credibile di generalizzazione del trattamento di disoccupazione deve saper coniugare il sostegno del reddito con servizi di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, che consentano un controllo efficace dell’attività di ricerca svolta dal lavoratore e della sua disponibilità effettiva per le occasioni che gli si presentano. Oggi nel nostro Paese il trattamento di disoccupazione è condizionato a questa disponibilità soltanto in linea teorica: in realtà i servizi pubblici nel mercato del lavoro non sono in grado di garantire l’effettività di questo carattere “condizionale” del trattamento. Si pone dunque la questione cruciale: come rendere davvero sostenibile l’“universalizzazione” del sostegno del reddito ai disoccupati, dando vita in tempi non geologici a un sistema di servizi nel mercato del lavoro davvero efficiente?
Una soluzione credibile di questo problema, in Italia oggi, non sembra poter passare attraverso un potenziamento dei servizi pubblici di collocamento e formazione professionale, che sono sottoposti alla competenza legislativa e amministrativa delle Regioni: dopo un quarto di secolo di discussioni e impegni in proposito, i risultati in questo campo sono troppo scarsi. Una soluzione credibile può passare, invece, attraverso una responsabilizzazione forte delle imprese su questo terreno. Si può pensare a una prima fase sperimentale, nella quale si consente alla contrattazione collettiva di attivare, nell’impresa o gruppo di imprese disponibili, un nuovo sistema di sicurezza di tipo nord-europeo: in cambio di una maggiore libertà nei licenziamenti per motivi economici e organizzativi, le imprese si impegnano ad assicurare ai dipendenti eventualmente licenziati, per mezzo di un apposito ente bilaterale o consortile, una forte garanzia di continuità del reddito e servizi efficienti di riqualificazione professionale e assistenza nella ricerca della nuova occupazione. Se il sistema di sostegno del reddito è interamente finanziato dalle stesse imprese, queste sono fortemente incentivate a porre in essere servizi di riqualificazione e collocamento efficienti, in modo che i periodi di disoccupazione ne risultino il più possibile ridotti. Dopo qualche anno di sperimentazione, questo nuovo assetto potrebbe essere generalizzato, obbligando tutte le imprese a consorziarsi per la costituzione degli enti bilaterali o consortili capaci di garantire a tutti i lavoratori sostegno del reddito e servizi ‑ necessariamente efficienti, proprio in conseguenza del sostegno del reddito – di assistenza nei processi di mobilità interaziendale.
In questa ottica appare evidente il nesso che corre tra universalizzazione del trattamento di  disoccupazione e riforma della disciplina dei licenziamenti. La perdita del posto non costituisce più per il lavoratore una catastrofe economica, comportando perdita del reddito e dispersione di professionalità: nel nuovo sistema la continuità del reddito è garantita e il processo di aggiustamento industriale diventa un momento in cui si compie un cospicuo investimento sul capitale umano del lavoratore, al fine della sua migliore ricollocazione nel tessuto produttivo. Il lavoratore è “sicuro” che la soluzione occupazionale migliore non tarderà, anche perché sa che all’impresa un ritardo indebito costerebbe troppo.
Questo, in estrema sintesi, è il progetto contenuto nel disegno di legge “per la transizione a un regime di flexsecurity”, presentato il 25 marzo scorso da 30 senatori: sostituire, per le nuove generazioni, al vecchio modello mediterraneo di sicurezza fondato sull’ingessatura del singolo rapporto di lavoro, un modello nord-europeo nel quale la sicurezza del lavoratore si fonda sulla garanzia di assistenza integrale nel mercato, quando i processi di aggiustamento del tessuto produttivo lo richiedono.

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