IL PD SFIDA IL GOVERNO A UN CONFRONTO SERRATO SULLE LINEE DI UNA VERA RIFORMA DEL DIRITTO DEL LAVORO, ISPIRATA ALMODELLO EUROPEO DELLA FLEXICURITY
Articolo di Enrico Letta, responsabile del Lavoro e del Welfare nel Governo-ombra, e di Pietro Ichino, pubblicato sul Corriere della Sera il 27 luglio 2008
Il primo atto legislativo importante del nuovo ministro del Lavoro e del Welfare consiste in un drastico allargamento della possibilità di assumere lavoratori a termine, probabilmente al di là di quanto consente l’ordinamento comunitario europeo. È un intervento molto incisivo, dunque; ma viene attuato di soppiatto, sotto forma di emendamento aggiuntivo al decreto-legge n. 112 trasmesso dalla Camera al Senato in questi giorni, nascosto in mezzo a cento altre misure diverse. E senza una vera possibilità di discussione in Parlamento, poiché sull’intero provvedimento il Governo ha posto la questione di fiducia.
È sbagliato, e persino incomprensibile, questo modo di procedere, che sostanzialmente espropria il Parlamento impedendo un dibattito politico serio su di una questione di grande rilievo (di che cosa ha paura il Governo, con la maggioranza schiacciante di cui dispone in entrambe le Camere?). Ma è sbagliata anche, soprattutto, l’idea che ispira questo intervento: la rinuncia, cioè, a correggere il dualismo del nostro mercato del lavoro, a superare la spaccatura tra la metà protetta della forza-lavoro e la metà poco o per nulla protetta, tra i nove milioni e mezzo di lavoratori regolari stabili e gli altri nove milioni, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. L’intervento legislativo sui contratti a termine non solo consolida il regime di apartheid tra protetti e non protetti, ma aggrava le condizioni di questi ultimi.
Il modello del mercato del lavoro duale, oltre che iniquo, è pure inefficiente: esso per un verso impedisce l’investimento nella formazione professionale dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari, per altro verso genera una cattiva allocazione delle risorse umane. Esso è stato prodotto, nei decenni passati, da una politica debole, incapace di far prevalere gli interessi generali su quelli organizzati, di dar voce alla metà della forza-lavoro non rappresentata nel sistema delle relazioni industriali; di dar voce, più in generale, agli interessi dei milioni di italiani – soprattutto italiane – oggi esclusi dal nostro mercato del lavoro. Voltar pagina rispetto a questa lunga stagione della nostra politica del lavoro richiederebbe un confronto aperto in Parlamento e nel Paese. La modifica semi-clandestina della disciplina dei contratti a termine appare invece come l’ennesimo atto di una politica del lavoro rassegnata ai vecchi steccati, incapace di confrontarsi apertamente con le esperienze straniere migliori, capace soltanto di caricare pesi sui meno garantiti, cercando di farlo senza che se ne discuta troppo.
Per avviare a soluzione i problemi del nostro mercato del lavoro occorre, al contrario, uscire dal modello duale. Per questo è necessario ridisegnare il nostro diritto del lavoro, almeno per i rapporti che si costituiranno d’ora in avanti, in modo che esso offra a tutti i giovani una forma di lavoro decente e una vera uguaglianza di opportunità, ripartendo equamente fra tutti le protezioni e la flessibilità necessarie, creando un contesto in cui tutti siano incentivati a investire sul proprio futuro professionale; e siano premiate le imprese che partecipano a questo investimento.
Il Libro verde del ministro Sacconi, nella parte dedicata al mercato del lavoro, sembra riconoscere la necessità di superare il modello duale. Se davvero questo è il suo intendimento, il Governo rinunci a imporre questo intervento legislativo sui contratti a termine, che va esattamente nella direzione opposta, e apra con l’opposizione un confronto serrato su quanto occorre fare per realizzare la flexicurity che l’Unione europea ci indica a modello. Altrimenti ci terremo almeno per altri cinque anni questo regime di apartheid, che mortifica i lavoratori e contribuisce a deprimere la competitività delle imprese italiane.