Intervento di Pietro Ichino al convegno dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale – Venezia, 25 maggio 2007
1. ‑ Delle tre belle relazioni introduttive, mi sollecita a intervenire soprattutto quella sulla disciplina del licenziamento e soprattutto la parte di essa in cui Luca Nogler si propone di definire l’ambito e i limiti del controllo giudiziale sul recesso per motivo oggettivo. Secondo questa costruzione il giudice deve, innanzitutto, controllare che l’atto non contrasti con un divieto posto da una legge speciale; deve inoltre controllare che esso sia “veritiero”, cioè veramente motivato da scelte organizzative effettive, corrispondenti a quelle enunciate.
Sul primo punto, in linea generale, non può esserci discussione: se il lavoratore è malato, o la lavoratrice è in gravidanza, licenziare è vietato perché c’è una norma specifica che lo vieta; punto e basta. Sul secondo punto, invece, cioè quello della genuinità del motivo del licenziamento, la questione mi sembra ancora molto aperta: siamo davvero sicuri che per la legittimità del licenziamento basti qualsiasi scelta organizzativa, purché effettiva e veritieramente enunciata dal datore come motivo del licenziamento stesso?
Questa tesi, se la comprendo bene, porta allo stesso risultato pratico di quella proposta nella sua ultima monografia da Maria Teresa Carinci: qualsiasi genuino motivo economico-organizzativo giustifica il licenziamento. Ed è la tesi che sembra essere fatta propria anche dalla Corte di Cassazione con la recentissima sentenza 10 maggio 2007 n. 10672, nella quale leggiamo che il motivo economico idoneo a giustificare il licenziamento può consistere anche in una mera riduzione di costi, in funzione di un aumento dei profitti aziendali: “le ragioni, inerenti all’attività produttiva, possono, dunque, derivare, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti”. Resterebbe vietato – secondo un orientamento giurisprudenziale non richiamato in quest’ultima sentenza, ma fortemente radicato ‑ soltanto il licenziamento del lavoratore in funzione della sua sostituzione con un altro.
2. ‑ Qui sorge una prima obiezione: se fosse vero che qualsiasi genuino motivo economico-organizzativo può giustificare il licenziamento, ne risulterebbe travolta la regola del repêchage: non avrebbe alcun senso, infatti, imporre all’imprenditore di riutilizzare il lavoratore in una diversa posizione in azienda, se nello stesso tempo fosse consentito all’imprenditore stesso di compiere insindacabilmente la scelta organizzativa di sopprimere quella diversa posizione, magari soltanto in funzione di una riduzione dei costi.
Quanto al divieto di sostituzione del lavoratore con un altro, come può difendersi questo divieto in un contesto nel quale si afferma che qualsiasi scelta organizzativa è legittima, ivi compresa quella tendente a un mero risparmio di costi? Forse che la sostituzione del lavoratore non può essere considerata anch’essa come una scelta organizzativa, una “mini-ristrutturazione”, genuinamente dettata da esigenze di maggiore efficienza, o di risparmio dei costi? Maria Teresa Carinci spiega il divieto di sostituzione come corollario di un “divieto generale di concorrenza” tra i lavoratori, che sarebbe desumibile dall’art. 39 Cost.; ma mi sembra che ella non spieghi affatto – e comunque a me è proprio impossibile comprendere ‑ come da questa norma costituzionale, che ha per oggetto l’organizzazione sindacale e la contrattazione collettiva, possa trarsi una regola limitativa del potere organizzativo o del potere di recesso dell’imprenditore.
Caduti per assoluto difetto di fondamento positivo e per incompatibilità con la regola generale sia l’obbligo del repêchage, sia il divieto di licenziamento per sostituzione del lavoratore con uno più efficiente o meno costoso, resterebbe soltanto la regola generale, appunto: cioè quella che, secondo Luca Nogler (ma anche secondo Maria Teresa Carinci, sia pure sulla base di una costruzione in parte diversa), consentirebbe qualsiasi licenziamento sorretto da un “veritiero” motivo economico, da una “genuina” scelta organizzativa dell’imprenditore. Scelta che, peraltro, sarebbe insindacabile quanto alla sua “bontà gestionale”: sarebbe dunque precluso al giudice controllare se essa sia corretta o errata sul piano economico-organizzativo, fondata su previsioni fondate o infondate, dovendo egli controllare soltanto che essa sia compiuta in buona fede e che non nasconda intenti discriminatori o comunque illeciti. Ma, a questo punto, quale sarebbe il contenuto limitativo della facoltà di recesso del datore di lavoro desumibile dall’art. 3 della legge n. 604/1966, dal momento che il licenziamento per motivi illeciti è vietato dall’art. 4 della stessa legge e dall’art. 1418 del codice civile?
3. – Se questo del carattere “veritiero” della motivazione fosse davvero il solo limite alla facoltà di recesso, dovremmo concludere che, per la parte inerente al giustificato motivo oggettivo, la norma contenuta nell’art. 3 è pleonastica, ovvero non fa che ribadire il divieto del licenziamento per motivo illecito. Tutt’al più potremmo dire che quella norma aggiunge al divieto del motivo illecito il divieto del motivo futile o capriccioso (è questa, infatti, la conclusione cui perviene Marco Novella in un suo scritto recente). Senonché questa conclusione contrasta vistosamente con il modo in cui di fatto il controllo sul licenziamento per motivi economico-organizzativi viene quotidianamente esercitato nei nostri tribunali; e, in particolare contrasta, come si è visto, con i due “pilastri” della nostra giurisprudenza in questa materia: l’obbligo del repêchage e il divieto di sostituzione del lavoratore.
Da questo impasse, a mio modo di vedere, il diritto del lavoro può uscire soltanto ricorrendo a concetti e modelli elaborati dall’economia del lavoro. Più precisamente, a me sembra che l’unico modo in cui questi pezzi del puzzle possono essere persuasivamente messi insieme sia quello di fare ricorso al concetto – proposto e studiato dalla microeconomia ‑ di contenuto assicurativo del rapporto di lavoro e in particolare di imposizione all’imprenditore, mediante la regola del giustificato motivo oggettivo, del rischio della prosecuzione del rapporto di lavoro in perdita, fino a una soglia massima di “perdita attesa”, oltre la quale la perdita stessa può appunto giustificare il licenziamento. In questo ordine di idee, non qualsiasi risparmio di costi o guadagno organizzativo può giustificare il licenziamento, ma soltanto quello che superi una certa entità in termini di valore atteso; dunque neppure qualsiasi repêchage può essere imposto all’imprenditore, ma soltanto quello che comporti un costo inferiore a una certa soglia; e parimenti non qualsiasi sostituzione di lavoratore è vietata all’imprenditore, ma soltanto quella che comporti un guadagno di produttività inferiore alla stessa soglia. Quale soglia? L’ordinamento attuale ne affida la determinazione caso per caso al giudice; ed è questo – ad avviso mio e di molti altri osservatori, assai più autorevoli di me – un difetto grave del nostro ordinamento (difetto che lo accomuna solo in parte agli altri ordinamenti europei, i quali, disponendo soltanto un indennizzo e non la reintegrazione automatica quale sanzione per il difetto del giustificato motivo, implicitamente pongono un limite alla soglia di perdita attesa suscettibile di essere imposta all’imprenditore: al di sopra di quella soglia, a quest’ultimo è data la scelta di mantenere il recesso pagando l’indennizzo).
4. – So bene che in questa apertura del diritto del lavoro al contributo della scienza economica molti di noi vedono una delegittimazione del diritto del lavoro. E capisco anche il loro timore: proprio dall’analisi economica del diritto può venire una critica corrosiva di schemi e concetti basilari della nostra cultura giuridica. Ma, come abbiamo appena visto, le contraddizioni in cui la cultura giuslavoristica rischia di cadere, per esempio nella materia cruciale della disciplina del licenziamento, emergono da sole anche senza bisogno dell’analisi economica; e a me sembra che, viceversa, l’analisi economica possa fornire al diritto del lavoro strumenti concettuali utili per uscire proprio da queste contraddizioni.
Sono ancora gli economisti ad avvertirci che questo diritto del lavoro, in particolare questa disciplina dei licenziamenti di cui qui discutiamo con tanta passione intellettuale e civile, si applica soltanto a metà dei lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda; ad avvertirci, dunque, che oggi il peso di tutta la flessibilità economico-organizzativa di cui il tessuto produttivo ha bisogno è sopportato dall’altra metà dei lavoratori: quelli che dipendono dalle imprese di minime dimensioni, i veri o falsi collaboratori autonomi o a progetto, gli irregolari. Da questa critica non possiamo pensare di liberarci chiudendoci orgogliosamente nella nostra torre d’avorio di studiosi del dover essere giuridico, incuranti dell’essere socio-economico: non è così, mi sembra, che evitiamo il rischio della delegittimazione del diritto del lavoro. Quel rischio possiamo evitarlo, invece, costruendo un diritto del lavoro capace davvero di estendere il proprio campo di applicazione a tutta la forza-lavoro in posizione di sostanziale dipendenza, quindi a 18 milioni e non soltanto a 9 milioni di lavoratori; capace, possibilmente, di aprire il tessuto produttivo nazionale anche a quegli ulteriori 5 milioni di persone che oggi ne sono esclusi e che invece potrebbero esservi inclusi se l’Italia fosse in grado di rispondere all’appello comunitario di Lisbona aumentando di dieci punti il proprio tasso di occupazione, portandolo ai livelli dei Paesi del nord-Europa.
Se fossimo davvero convinti che questo nostro diritto del lavoro, così come è oggi disegnato, sia suscettibile di estendere in quella misura il proprio campo di applicazione, avremmo dovuto votare compatti “sì” al referendum promosso cinque anni fa dalla sinistra radicale per assoggettare all’articolo 18 dello Statuto anche le piccole aziende. Se la maggior parte di noi (e lo stesso Sergio Cofferati, leader indiscusso della difesa “senza se e senza ma” dell’articolo 18 come baluardo della dignità e libertà della persona) non lo ha fatto, è perché eravamo convinti che quell’estensione non fosse di fatto sostenibile; il motivo era dunque di ordine economico, non giuridico. Anche molti di noi tra i più renitenti all’interazione tra cultura giuridica e cultura economica, dunque, sono sensibili alle ragioni dell’economia. Ma se essi in quell’occasione hanno sacrificato alle ragioni dell’economia l’estensione del campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti di cui stiamo discutendo, essi dovrebbero riconoscere che quella disciplina non ha affatto per oggetto la dignità e la libertà della persona, bensì soltanto – come l’economia ci spiega – l’entità del contenuto assicurativo del rapporto. Se non estendiamo l’articolo 18 alle piccole imprese è perché riteniamo che a queste non possa accollarsi il rischio di una perdita attesa eccedente il limite massimo delle sei mensilità di retribuzione per ciascun dipendente, ovvero la sanzione massima cui oggi esse – a differenza delle imprese di maggiori dimensioni ‑ sono assoggettate in questa materia.
5. – A me sembra, per concludere, che alla regola del giustificato motivo oggettivo possa logicamente attribuirsi soltanto questo significato: non qualsiasi perdita attesa (non, cioè, “qualsiasi riduzione di costi”), ma soltanto una perdita attesa superiore a una determinata soglia può giustificare il licenziamento. Ciò di cui dovremmo discutere, semmai, è dove si collochi quella soglia nell’ordinamento attuale, per fornire al giudice un parametro ragionevole cui attenersi. Qui un punto di riferimento positivo la legge ce lo offre: la somma dell’indennizzo minimo di 5 mensilità di risarcimento del danno fissato dall’articolo 18 più le 15 mensilità di indennizzo alternativo alla reintegrazione potrebbe essere assunta, in via sistematica, come parametro non arbitrario alla stregua del quale giudicare il licenziamento. In altre parole: il recesso è giustificato se la perdita prevista conseguente alla prosecuzione del rapporto, attualizzata a oggi, può ragionevolmente ritenersi pari o superiore a circa due annualità di retribuzione. Sarebbe un parametro che collocherebbe pur sempre il grado di protezione offerto dal nostro ordinamento a un livello superiore a quello tedesco (18 mensilità di indennizzo massimo), a quello francese (dove il costo del licenziamento per motivi economici è costituito dal costo della convention de conversion, pari mediamente a 12 mensilità di retribuzione, più il rischio di 6 mensilità di risarcimento nel caso di soccombenza nel giudizio sulla sussistenza della cause réelle et sérieuse) e a quello medio spagnolo (una mensilità di indennizzo per anno di anzianità di servizio), per limitare il confronto ai soli Paesi a noi più vicini.
Resta da chiedersi se, in questo ordine di idee, non sia più logico limitare esplicitamente il compito del giudice al controllo dell’inesistenza di motivi illeciti, o di mero arbitrio e capriccio, affidando il compito di “filtro” della scelta economico-organizzativa a un obbligo generalizzato di indennizzo opportunamente dimensionato, e a una variazione del premio dell’assicurazione contro la disoccupazione, posto a carico dell’imprenditore, che penalizzi le imprese nelle quali si ricorre con maggiore frequenza al licenziamento per motivi economici (è la nota proposta elaborata dagli economisti Blanchard e Tirole su incarico del Governo francese). Se l’imprenditore valuta che la perdita conseguente alla prosecuzione del rapporto sia inferiore a quel costo, sarà lui stesso a non aver interesse a licenziare; se invece valuterà che la perdita, attualizzata a oggi, superi la soglia, sarà indennizzato anche il lavoratore che sia stato licenziato legittimamente, a differenza del nostro regime attuale, nel quale il lavoratore licenziato legittimamente rimane con un pugno di mosche in mano. Ma questa è materia di ius condendum.