IL MODELLO PROPOSTO NEL CODICE SEMPLIFICATO DEL LAVORO DETERMINA L’INDIFFERENZA TRA UN CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO INDETERMINATO FORTEMENTE FLESSIBILIZZATO E UN CONTRATTO A TERMINE LIBERALIZZATO, ASSOGGETTATI ENTRAMBI ALLA STESSA INDENNITÀ DI SEPARAZIONE
Intervista a cura di Attilio Barbieri, pubblicata su Libero, l’8 novembre 2013
Contratti a tempo indeterminato contro contratti precari: alla fine dopo i tentativi degli ultimi due anni siamo praticamente all’inizio. In cosa hanno sbagliato gli ultimi governi?
Nel 2012 i contratti a tempo indeterminato sono stati soltanto il 17% del totale dei contratti di lavoro regolari stipulati. Stiamo dunque contravvenendo al principio imposto dall’ordinamento europeo, che ci vincolerebbe a far sì che il contratto a tempo indeterminato sia la regola, e che quello a termine sia l’eccezione; questo è evidentemente l’effetto di una disciplina troppo rigida del contratto a tempo indeterminato. Per proteggere di più la stabilità dei lavoratori, finiamo coll’ottenere il risultato di escluderne sei su sette dal lavoro a tempo indeterminato.
Però l’articolo 8 del decreto Sacconi del 2011 consentirebbe a ogni impresa di contrattare con la controparte sindacale una disciplina meno rigida della stabilità.
Evidentemente non è questo il modo efficace in cui possiamo riformare il nostro diritto del lavoro. Perché per cambiare una norma di fonte nazionale occorre una cultura politico-giuridica che nella maggior parte dei casi i singoli imprenditori e i sindacalisti di base non hanno. Per altro verso, è comprensibile che l’imprenditore non si avventuri nella stipulazione di un contratto in deroga, che potrebbe essere disdetto dalla controparte in corso d’opera, con costi rilevanti per l’impresa. Detto questo, va anche detto che le associazioni sindacali e imprenditoriali ben potrebbero dettare al livello nazionale delle guidelines per un esercizio appropriato ed equilibrato della contrattazione decentrata in deroga.
Come se ne esce?
La mia proposta è nel Codice semplificato del lavoro contenuto nel disegno di legge n. 1006/2013: tutto il diritto del lavoro di fonte nazionale in 70 articoli semplici, che allineano il nostro ordinamento ai migliori standard europei, sul modello della flexsecurity.
Parliamo, allora, di flessibilità. Secondo lei l’impianto della riforma Biagi è davvero superato?
Nella legge Biagi del 2003 c’è ben poco di superato. Occorre però riscrivere quelle norme in forma più semplice, immediatamente leggibile da milioni di persone interessate. Va però anche detto che la legge Biagi è intervenuta soltanto “al margine”, sui rapporti di lavoro per così dire periferici. Essa non tocca neppure di striscio il rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Invece occorre incominciare proprio da una nuova disciplina più semplice e più flessibile proprio di quel rapporto di lavoro centrale.
Probabilmente è presto per dire se gli incentivi economici per i giovani introdotti col pacchetto lavoro avranno un effetto tangibile; ma gli ultimi dati sulla disoccupazione lasciano poche speranze. Per incentivare davvero le assunzioni cosa servirebbe? Forse un regime come i mini job tedeschi che costano all’impresa 480 euro al mese?
La cosa più urgente è la drastica riduzione del cuneo fiscale e previdenziale, che grava sul costo del lavoro. È la raccomandazione dell’Unione Europea, che ci eravamo impegnati a seguire: ridurre prioritariamente la pressione fiscale su chi produce, cioè lavoro e impresa, solo in seconda battuta su chi consuma, e solo in ultima istanza su chi possiede. È stato un grave errore, da parte del PdL, costringere il Governo a seguire la priorità inversa, detassando per primo chi possiede e lasciando solo le briciole per chi produce.
L’idea di trasformare tutti i contratti a tempo indeterminato introducendo però la possibilità di licenziare è ancora valida? Non si correrebbe il rischio di ingrossare la platea dei senza lavoro?
La mia proposta, contenuta nel Codice semplificato, è di rendere pressoché indifferente nel primo biennio del rapporto, per l’imprenditore e per il lavoratore, l’assunzione a termine o a tempo indeterminato. Libertà di assunzione a termine, o di licenziamento, ma in ciascuno dei due casi il lavoratore entro il primo periodo del rapporto ha diritto a una “indennità di separazione” nel caso di licenziamento, o di mancata proroga o conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato. Salvi ovviamente i casi classici di contratto a termine per lavori stagionali, sostituzioni, ecc. Solo in questo modo otterremo di rovesciare il rapporto percentuale tra lavoro a tempo indeterminato e a termine. E di aumentare il flusso delle assunzioni, in un momento come questo di grande incertezza sul futuro, anche nel breve periodo.
Di recente Matteo Renzi ha rilanciato con forza questa sua idea del Codice semplificato del lavoro: in tutto 70 articoli destinati a sostituire le migliaia di norme che oggi regolano i contratti di lavoro. Ma il fronte del no alla semplificazione è sempre molto forte: due autorevoli esponenti della stessa area politica cui appartiene il sindaco di Firenze – parlo di Cesare Damiano e del giuslavorista Aris Accornero – hanno criticato il progetto. E Michele Tiraboschi ha fatto lo stesso dal fronte opposto. Secondo lei perché?
Le critiche che muovono a questo progetto mostrano che non lo hanno letto. Il testo è on line da tempo sul sito del Senato e sul mio. Se ci sono errori od omissioni, che li indichino e dicano come secondo loro lo si può migliorare, mantenendo lo stesso livello di semplicità e leggibilità. Altrimenti è difficile non intendere la loro opposizione come espressione del partito trasversale della complicazione. Questo è particolarmente evidente nei discorsi di Damiano e Accornero, che sostengono l’equazione semplificazione=precarietà. Come se i lavoratori italiani oggi si sentissero molto protetti dalla giungla normativa che ingessa il nostro tessuto produttivo!
Quando il ministro del Lavoro Enrico Giovannini ha detto che la maggior parte dei senza lavoro ha un livello di occupabilità molto basso si è scatenato il finimondo. Eppure sulla employability si giocano buona parte nel primo biennio del rapporto delle possibilità di successo per i disoccupati. Cosa serve per accrescerla?
Dovrei risponderle che occorre un sistema scolastico migliore. Ma questo equivarrebbe a togliere ogni speranza di miglioramento a breve e medio termine. Allora le risponderò che nell’immediato occorrerebbe un servizio di orientamento scolastico e professionale allineato agli standard del centro e nord-Europa: cioè capace di raggiungere capillarmente ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo scolastico, per informarlo sulle centinaia di migliaia di skill shortages, cioè di posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza di manodopera dotata delle capacità necessarie, e sui percorsi di riqualificazione e formazione mirata che possono consentire di accedervi.
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