LE RAGIONI DEL NOSTRO VOTO FAVOREVOLE, IN TERZA LETTURA, AL DISEGNO DI LEGGE PER L’ISTITUZIONE DEL COMITATO PER LE RIFORME COSTITUZIONALI ED ELETTORALI
Intervento del senatore Alessandro Maran in Senato per dichiarazione di voto a nome del Gruppo di Scelta Civica, sul disegno di legge n. AS 813-B (in seconda deliberazione e terza lettura, trattandosi di legge costituzionale) – In argomento v. anche la relazione introduttiva del dibattito svolta dal ministro Gaetano Quagliariello il 15 ottobre 2013 – Sul voto che ne è seguito v. il mio editoriale La maggioranza fa già a meno di Berlusconi
MARAN (SCpI). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MARAN (SCpI). Signor Ministro, colleghi, noi non abbiamo mai pensato che basti riformare la Costituzione per risolvere i nostri gravi problemi.
Ma trovo difficile comprendere l’atteggiamento di quanti, come i colleghi del M5S, hanno parlato di minacce autoritarie incombenti, o tirano fuori la P2 tutte le volte che viene posto all’ordine del giorno il tema della riforma costituzionale in modo da dare ai governi italiani quella stessa forza istituzionale che hanno i governi in tutte le altre democrazie europee.
E trovo riduttivo affermare che la crisi attuale riguarda unicamente la «affidabilità» della classe politica e non le regole costituzionali ed elettorali.
Alle difficoltà del paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni. Non per caso, incisivi processi di riforma hanno interessato da tempo tutte le grandi democrazie europee.
In Germania la Costituzione è stata modificata più di cinquanta volte dal 1949. E l’incisiva riforma del federalismo tedesco approvata nel 2006 e diretta ad un miglioramento della capacità decisionale della Federazione e dei Länder ha modificato 25 articoli della Legge Fondamentale.
Nel 2008 la Francia ha approvato il più importante progetto di riforma della Costituzione francese adottata nel 1958. Un progetto che incide in modo significativo sulla dinamica dei poteri e dei contropoteri della V Repubblica. E l’ha fatto dopo che il presidente Sarkozy ha istituito un Comité de réflexion et de proposition sur la modernisation et le rééquilibrage des institutions de la Cinquième République française, presieduto da Balladur, le cui conclusioni sono state quasi integralmente recepite nella riforma costituzionale. Una commissione di esperti, come del resto hanno fatto Regno Unito, Germania, Stati Uniti.
E anche in Spagna è all’ordine del giorno la riforma della Costituzione (che compirà 35 anni in dicembre ed è la più longeva nella storia spagnola). Perché il consenso territoriale si è incrinato. E non si può intendere la democrazia spagnola senza il processo di decentramento politico che costituisce lo Stato autonomistico. E, come ha scritto El Pais, «la mejor defensa de la CE es la reforma de la misma».
Il fatto è che condividiamo gli stessi problemi. La differenza sta nella nostra inconcludenza, sta nella nostra impotenza a riformare. La differenza la fanno trent’anni di proposte non realizzate e di realizzazioni andate in una direzione sbagliata.�
Basterebbe ricordare la mancata abolizione delle Province. Basterebbe ricordare che la dimensione territoriale dei nostri comuni è ancora quella del Medio Evo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce.
In Danimarca hanno ridotto i comuni da 1.388 a 275, in Belgio da oltre 2.500 a meno di 600, nel Regno Unito da 1.830 autorità locali si è scesi a 486. E così in Germania. E potrei continuare. Siamo i soli in Europa ad aumentare gli organismi locali e provinciali anziché ridurli.
Trovo perciò incomprensibile il conservatorismo istituzionale che da anni paralizza qualunque tentativo di riforma.
Ed è troppo facile, colleghi del M5S, ergersi a difensori ultimi delle promesse costituzionali e nel frattempo non far nulla aspettando tempi migliori; è troppo facile lanciare sospetti, denigrare senza dire nulla su come uscire dallo stato penoso del nostro sistema politico-istituzionale. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è solo la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Un relitto di quando ciascuno degli schieramenti temeva “il18 aprile dell’altro”.
Senza contare che la nostra Repubblica è già profondamente cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto e oggi risulta incompiuta, a metà.
Al punto che l’insieme di correzioni mirate alla sgangherata riforma del Titolo V varata nel 2001 – come l’ha definita il prof. Barbera – riflette aspettative molto diffuse fra gli studiosi e una parte significativa dell’opinione pubblica.
Inoltre è da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso.
Non per caso tra i saggi, sul punto si sono manifestate sensibilità diverse e due diversi auspici.
C’è chi confida che i partiti siano in grado di superare l’attuale crisi e di tornare a collegare rappresentanza e governo, in un quadro che conservi gli elementi di flessibilità della forma parlamentare.
C’è chi invece presuppone che i problemi possano risolversi con la creazione di istituzioni ad investitura popolare diretta, anche come presupposto della rigenerazione del sistema dei partiti.
Ne discuteremo, ovviamente. Ma sono passati vent’anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e questo risponde ai partiti o ai cittadini? Una domanda semplice semplice che incontreremo di nuovo quando discuteremo di legge elettorale.
Diciamoci la verità: è dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie il centrosinistra sceglie ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie il Pd ha scelto addirittura il segretario nazionale e i segretari regionali, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini perfino nella scelta dei massimi dirigenti. Ora Enrico Letta propone (giustamente) l’elezione diretta del presidente della Commissione europea (e, più in là, degli Stati Uniti d’Europa). Perfino il Presidente Napolitano ha ipotizzato, nella conversazione con Federico Rampini contenuta nel suo libro più recente “La via maestra”, un presidente unico scelto a suffragio universale tra i candidati presentati dalle grandi famiglie dei partiti. A pagina 60.
Fatemi capire. Possiamo scegliere direttamente il governo nei comuni, nelle province, nelle regioni e vorremo scegliere il governo dell’Europa. Ma non possiamo scegliere quello nazionale.
Perché? Perché c’è Berlusconi? Ma la politica non tornerà “normale” con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, una invasione degli Hyksos. Nel ’94 non si è prodotto un vulnus che attende di essere sanato, ma sono saltate gerarchie culturali durate mezzo secolo che non è più possibile ristabilire. A modo suo, Berlusconi (e prima la Lega Nord) è l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso che Luigi De Marchi ha chiamato “la rivolta dei produttori”: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori, professionisti, commercianti, artigiani e altri lavoratori del settore privato) contro la truffa e lo sfruttamento di una classe politico-burocratica che – uso le parole di De Marchi – spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere ed arricchirsi nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipiche di ogni attività di mercato.
Questa sollevazione, questa rivolta antiburocratica e antistatalista (che la crisi ora ha aggravato), è il filo rosso che collega l’attuale spinta populista, la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino (fatte salve le ovvie specificità) quella anticomunista all’Est.
Con questa «cosa», nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. La maggioranza moderata non è un castello di carte destinato a cadere all’improvviso.
Come ha scritto malignamente Max Gallo, l’Italia «è la metafora d’Europa», ovvero la società in cui tutto si manifesta in modo caricaturale, esagerato ed eccessivo. Dove le malattie latenti si presentano in modo evidente ed esplodono mentre negli altri paesi moderni sono solo in incubazione. Ma non è una «anomalia». Le sue vicende (le nostre vicende) sono un capitolo della storia europea di questi anni.
Per rendersene conto, basta dare un’occhiata a quel che succede in uno dei paesi più civili del mondo come l’Olanda.
E chiunque voglia guidare il paese non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che ora forse si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le loro istanze. Facendo proprie cioè quelle domande, quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte.
Il che implica, da un lato, un’evoluzione delle culture politiche – un deciso cambio di mentalità, una svolta culturale in politica economica che favorisca la competitività, la lotta agli sprechi, la riduzione di una tassazione insopportabile; implica cioè quella che noi di Scelta Civica abbiamo chiamato la riforma europea dell’Italia – e, dall’altro lato, richiede una riforma delle istituzioni che la favorisca.�
Scelta Civica sosterrà questo lo sforzo. Lo sforzo per arrivare al passo che secondo Karl Popper segna la modernità liberaldemocratica, ossia cambiare non risposta, ma domanda, e chiedersi non chi debba governare, ma come sia possibile costruire un meccanismo istituzionale che consenta di sostituire pacificamente i governanti quando li si ritenga inadatti; che permetta di organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno.
Non dobbiamo temere il cambiamento. Quello che dobbiamo temere è un ennesimo fallimento.