IL SENSO DELLA BATTAGLIA DI SCELTA CIVICA E DELLE ASSOCIAZIONI LIBERAL UNITE INTORNO A RETELIB
Intervista a cura di Antonio Grizzuti per il sito Ateniesi.it, 15 ottobre 2013
Scelta Civica si sta battendo su alcuni temi in maniera forte (fisco, lavoro, previdenza) ma deve fare i conti con un clima ostile alle riforme. Quanto pesa la difficoltà del governo delle larghe intese di prendere decisioni sull’economia e le politica italiane?
Effettivamente, fino a questo momento i difetti di coesione della maggioranza hanno influito negativamente sulla performance del Governo Letta: se si esclude il capitolo relativo alle riforme istituzionali, dove il lavoro del gruppo di esperti coordinato dal ministro Quagliariello fa registrare dei notevoli passi avanti, sul terreno dell’economia, del fisco, del lavoro e della previdenza per ora prevale nettamente l’inerzia. E in alcuni casi si è assistito a dei veri e propri scivoloni: penso per esempio alla gestione della vicenda Alitalia; e alla versione originaria del “decreto stabilizzazioni”, che siamo riusciti a correggere in Senato ma non era davvero un buon esempio di intervento in materia di amministrazioni pubbliche.
In un suo recente articolo, avvalendosi di un diagramma, afferma che la divisione destra/sinistra non è oggi quella decisiva per le scelte di fronte alle quali il Paese si trova; mentre il vero spartiacque è quello che divide chi è a favore e chi è contro la strategia europea dell’Italia. Può spiegarci meglio questa tesi?
Oggi, e probabilmente ancora per un decennio, le scelte decisive per la sorte dell’Italia sono quelle che riguardano la sua capacità di mantenere ferma la barra del timone sulla rotta segnata dalla strategia di integrazione nell’Unione Europea. La politica nazionale, invece, si caratterizza per la divisione tradizionale fra destra e sinistra: un discrimine che non corrisponde a quelle scelte decisive. Su quelle scelte, oggi sono divisi al loro interno sia lo schieramento del centro-destra sia quello del centro-sinistra. Vedo in questo la causa principale dell’inconcludenza della politica italiana in questo periodo.
Una delle azioni più forti del governo Monti è stata l’avvio della spending review. Questo processo sembra quasi essersi interrotto; e ora recuperare coperture anche minime (nell’ordine di 1-2 mld di euro) sembra diventata un’impresa impossibile. Le larghe intese rappresentano davvero un ostacolo al il taglio della spesa pubblica?
Dovrebbe essere il contrario. Le larghe intese dovrebbero servire proprio per ripartire equamente tra i partiti maggiori il costo politico delle scelte più impopolari, ma più indispensabili per rimettere in sesto la finanza pubblica. Il fatto è che la spending review richiederebbe un know-how specifico che è merce rara nel management pubblico; e una determinazione ferrea, che è merce ancora più rara nel nostro ceto politico. Per esempio, la norma che era stata inserita nel “decreto stabilizzazioni” sulle eccedenze di personale nelle società controllate da enti pubblici, sostanzialmente mirata a impedirne la mobilità verso il tessuto produttivo generale promettendo a tutti il mantenimento nell’area pubblica, era esattamente il contrario della spending review. Ed è curioso che sia stata necessaria una dura battaglia dei senatori di Scelta Civica per convincere PdL e PD ad accantonare quella norma.
I recenti dati diffusi dall’ISTAT sul tasso di disoccupazione, in particolare di quella giovanile che supera il 40%, e la crescita negativa dal PIL ormai dal IV trimestre 2011 fotografano un Paese incapace di riprendersi. A suo avviso che provvedimenti urgenti potrebbero essere presi per risollevare la situazione economica, in particolare in maniera di occupazione?
Innanzitutto una drastica riduzione del cuneo fiscale e contributivo. Perché questa riduzione produca uno shock positivo sulla nostra economia, essa deve consistere nell’azzeramento dell’IRAP sul costo del lavoro per l’impresa e in una riduzione di pari entità dell’IRPEF sulla fascia di redditi di lavoro fino a 1000 euro al mese. Il costo di una misura di questo genere è di circa venti miliardi: vanno trovati utilizzando le risorse europee che sarebbero a nostra disposizione e non utilizziamo, azzerando migliaia di consigli di amministrazione in altrettanti enti pubblici e società da essi controllate, sopprimendo davvero le province, e così via. Poi occorre che si incominci a far funzionare i servizi nel mercato del lavoro, per favorire la mobilità effettiva dei lavoratori dalle imprese che si contraggono o chiudono a quelle che stanno crescendo.
Entriamo nel merito delle sue proposte su questo terreno. Che cosa prevede la sperimentazione sul contratto di ricollocazione?
Lo Stato pone a disposizione delle Regioni la possibilità dell’esperimento: lo attiva solo la Regione che vuole utilizzarlo per riqualificare la propria spesa in questo settore. Lo fa con una delibera della Giunta, che offre ai disoccupati la possibilità di stipulare il contratto di ricollocazione, mettendo sul piatto un voucher per la copertura del costo di un buon servizio di outplacement, cioè di assistenza intensiva nella ricerca del nuovo posto. Il voucher è suddiviso in una parte fissa e una, assai maggiore, pagabile soltanto a ricollocazione avvenuta. Il lavoratore può scegliere liberamente l’agenzia di cui avvalersi tra quelle accreditate presso la Regione.
Ma se poi le agenzie si concentrano sulle persone più facilmente collocabili, trascurando le più difficili?
Il progetto, proprio per neutralizzare questo rischio, prevede che l’entità del voucher sia differenziata in relazione al grado di “collocabilità” di ciascuna persona, secondo i criteri che ciascuna Regione deciderà. Le agenzie accreditate sono comunque impegnate ad accettare tutti i lavoratori che si rivolgono loro. Il contratto di ricollocazione dispone inoltre l’affidamento della persona interessata a un tutor designato dall’agenzia, che ha il compito di assisterla giorno per giorno, ma anche di controllarne la disponibilità effettiva per tutto quanto è necessario ai fini della ricollocazione, compresi eventuali corsi di riqualificazione mirati. Nel caso di rifiuto ingiustificato di una iniziativa, o addirittura di un posto di lavoro, il tutor lo contesta al lavoratore. E alla contestazione – salva possibilità di impugnazione da parte del lavoratore davanti a un arbitro – consegue il dimezzamento dell’indennità; poi, la seconda volta, l’interruzione.
Che ricadute potrebbe avere in termini occupazionali adottare un sistema simile?
È chiaro che in questo modo non si creano direttamente posti di lavoro. Ma si ottengono due risultati che possono produrre indirettamente l’effetto di un aumento del tasso di occupazione: innanzitutto si applica in modo di rigoroso il principio di condizionalità del sostegno del reddito, evitando così di sperperare denaro per il sostegno a persone che effettivamente non sono disoccupate, o non sono comunque disponibili per un lavoro regolare e liberando risorse l’attivazione di servizi di assistenza intensiva e di riqualificazione mirata dei disoccupati. In secondo luogo si rende possibile la copertura degli skill shortages, cioè di quelle decine di migliaia di posti che, in ogni regione italiana – e soprattutto in quelle meridionali –, sono permanentemente scoperti per mancanza di persone dotate delle capacità necessarie.
È possibile stimare il costo di questo esperimento a carico delle regioni?
Il costo di un buon servizio di outplacement, che dovrebbe essere coperto con il voucher regionale può andare da 2000 a 4000 euro; dunque in media 3000. Ricollocare in questo modo diecimila persone in difficoltà nel mercato del lavoro costa dunque 30 milioni. Una bella cifra; ma oggi spendiamo molto di più per tenere quelle diecimila persone in cassa integrazione per anni e anni. E per corsi di formazione non specificamente mirati agli skill shortages esistenti, che non servono per trovare un lavoro.
Le misure proposte andrebbero nella direzione della flexsecurity. Questo modello, sperimentato con successo nei paesi scandinavi, determina un mercato del lavoro molto fluido nel quale le politiche di uscita flessibili si sposano con una maggiore semplicità di inserimento dei lavoratori alla ricerca di un impiego, anche attraverso meccanismi di outplacement. Il nostro mercato funziona nel verso opposto: anche a causa di una contrattazione sindacale che ha preferito ingessare i posti di lavoro esistenti anziché garantire il diritto al lavoro. Forse è necessario un cambio di mentalità…
Sì. Ma la mentalità cambia se si fa toccare con mano a lavoratori e sindacalisti che il nuovo modello funziona, che esso costituisce un gioco a somma positiva, nel quale tutti guadagnano.
Qual è l’obiettivo del nuovo portale reteLib?
L’obiettivo è di mettere in rete le associazioni e le persone dell’area liberal, che si ispirano agli ideali del liberalismo europeo. È un’area molto vasta, ma che oggi non ha sufficiente coscienza di sé medesima. Anche a causa della divisione tradizionale destra-sinistra di cui parlavamo prima, onnipervasiva, che non corrisponde al vero discrimine tra conservatori e riformatori: oggi abbiamo i riformatori in entrambi gli schieramenti, uniti da idee molto simili ma divisi dal muro tradizionale che impedisce loro di cooperare.
Un nuovo partito?
No: reteLib vuole solo essere un luogo dove si discute sulle policies più che sul politics. Altrimenti non riuscirebbe a mettere insieme associazioni e persone che oggi appartengono sia alla destra sia alla sinistra e non intendono rinnegare questa loro appartenenza. L’importanza è che esse imparino a comunicare e cooperare tra loro. Quello che sanno fare poco PD e PdL nella maggioranza delle larghe intese.
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