IL PAESE DOVE NON CAMBIA MAI NULLA

IL PESSIMISMO MOTIVATO DI UNO TRA I PIÙ ACUTI POLITOLOGI ITALIANI

Editoriale di Luca Ricolfi su la Stampa del 14 ottobre 2013

È un po’ che non scrivo, è vero. La ragione più importante è che scrivere di politica, economia e società, come è mia abitudine, mi sembra sempre meno utile. O forse sarebbe meglio dire: è sempre stato abbastanza inutile, ma ora tale inutilità mi è ancor più chiara di prima. Da dove viene questo sentimento?
Fondamentalmente da una constatazione: da vent’anni, in questo Paese «non muove foglia». Tutto è immobile e congelato. O forse sarebbe meglio dire: tutto cambia, ma gattopardescamente. Cambiano i governi, cambiano le mode, cambiano i palinsesti della tv, ma tutto avviene in modo che nulla di essenziale cambi davvero. Siamo il Paese più conservatore del mondo, o perlomeno così appaiamo ai miei occhi.
Anche la crisi, ormai entrata nel settimo anno, pare non averci insegnato nulla. La gente aspetta, come sotto un bombardamento, che passi la buriana. La classe politica si trastulla nella speranza di «agganciare la ripresa».
Il governo e i suoi ministri, da cui ci aspetteremmo parole chiare e decisioni coraggiose, si muovono come se fossero impegnati in una caccia al tesoro: «cerchiamo le coperture», «individueremo le risorse», «troveremo i soldi». Mai una vera scelta. Mai un discorso non retorico al Paese. Parole, parole, parole, direbbe Mina.
Ecco perché non mi viene di scrivere l’ennesimo articolo. La sensazione è che scrivere non sia nient’altro che dar credito al nulla. Prendere sul serio l’eterna ammuina della politica e della società italiane.�
Prendiamo il «dibattito» interno al Pdl. Che cosa c’è di nuovo? C’è una sola idea che non sia l’ennesima rifrittura delle formule vuote con cui ci hanno bombardato negli ultimi anni?
Eppure, come molto giustamente ha notato Franco Bruni qualche tempo fa su questo giornale, il vero problema dell’Italia, quello che rende pericolose eventuali elezioni anticipate, è che non si vede all’orizzonte nessuna nuova offerta politica, nessuna volontà di prendere congedo da quella che potremmo chiamare la «colonna sonora» della seconda Repubblica: un impasto di slogan, di formule, di siparietti e di riti che hanno completamente congelato il Paese.
Si potrebbe pensare, e sperare, che qualcosa di nuovo possa venir fuori dalle convulsioni del berlusconismo e dall’assalto di Renzi all’establishment di sinistra. Ma è prudente dubitarne, a giudicare dai segnali di queste settimane. Su entrambi i versanti dello schieramento politico l’attenzione si concentra, come limatura di ferro attirata da una calamita, sulle questioni che creano identificazione, dibattito, indignazione, visibilità sui media: legge elettorale, immigrazione, carceri, diritti dei gay e delle donne. E rifugge invece dai nodi di politica economica e sociale, assai meno interessanti sul piano emotivo, ma molto più influenti sul futuro del Paese.
Eppure anche le grandi questioni di civiltà sono assai più difficili da affrontare in un Paese che, anno dopo anno, diventa sempre più povero. Senza tornare a crescere e a produrre ricchezza non avremo mai le risorse per affrontare i gravissimi problemi sociali dell’Italia: disoccupazione, sottoccupazione, povertà, illegalità diffusa, ignoranza (vedi gli ultimi dati Ocse, pubblicati pochi giorni fa).
Su tutto questo destra e sinistra sono sostanzialmente mute. Non perché non abbiano le loro ricette, ma perché sono le ricette di sempre, che né l’una né l’altra sono state in grado di applicare con successo né nelle loro legislature lunghe (1996-2001 e 2001-2006), né nelle loro legislature corte (1994-1996 e 2006-2008). La sinistra non sa come combattere l’evasione fiscale senza soffocare l’economia. La destra non sa come abbassare le tasse senza fare nuovo deficit pubblico. Entrambe parlano di lotta agli sprechi ma, ogni volta che i sindacati chiedono risorse per stabilizzare i precari, retribuire gli esodati, o prolungare la cassa integrazione, non trovano il coraggio di dire l’unica cosa che si dovrebbe dire in questi casi: «cari sindacati, i miliardi di cui avete bisogno cerchiamoli insieme nell’immensa giungla degli sprechi, visto che sul fatto che gli sprechi ci siano sembriamo tutti d’accordo».
E invece no. I politici di destra si guardano bene dall’attaccare le pensioni d’oro o dal denunciare le sanatorie in campo edilizio. Ma Renzi non dice una parola sulle false pensioni di invalidità o sui finti poveri che non pagano il ticket, e ha molta cura di non farsi vedere in giro con Pietro Ichino (che pure aveva contribuito al suo programma). E tutti, indistintamente, tacciono quando – come è successo giusto un mese fa – un governo locale (Napoli) concede le case agli occupanti abusivi, spesso entrati con l’aiuto violento della camorra, sottraendole a chi ne avrebbe diritto: un fatto prontamente denunciato da Antonio Polito sul «Corriere della Sera», ma ignorato dalla stragrande maggioranza dei politici, sempre pronti a dichiarare su tutto e su tutti, ma del tutto refrattari a parlare dei temi che scottano.
Ecco perché dico che questo è un Paese immobile, come congelato. Un grande freddo sembra avvolgere tutto e tutti. Nemmeno lontano dalle elezioni si ha il coraggio di parlare delle cose da cui dipende il nostro futuro, e in fondo anche l’opinione pubblica si diverte ad assistere ai combattimenti di galli che, ogni sera, ci offrono i vari Floris, Santoro e Vespa. Questa, in fondo, è l’unica vera attenuante dei nostri politici: se sono quello che sono è anche perché noi facciamo ben poco per cambiarli.
E così, rieccomi a scrivere. Ad aggiungere, anch’io, parole. Forse perché la speranza è l’ultima a morire. O forse perché anch’io, come tutti, non sono capace di cambiare.

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