LA RICETTA DI LUCA DI MONTEZEMOLO E L’ACQUISIZIONE DI TELECOM ITALIA E ALITALIA DA PARTE DI MULTINAZIONALI STRANIERE DANNO SPUNTO AD ALCUNE RIFLESSIONI SULLA POLITICA ECONOMICA E INDUSTRIALE NECESSARIA PER USCIRE DALLA CRISI
Intervista a cura di Giuseppe Tetto, per il sito Intelligonews, 25 settembre 2013
Secondo Montezemolo serve uno shock di competitività per rilanciare l’economia. Attraverso un taglio del cuneo fiscale e dell’Irap per 20 miliardi. E poi semplificazioni, liberalizzazioni e tagli non lineari alla spesa pubblica. Come giudica le ricette dell’imprenditore?
In linea di principio è una ricetta condivisibilissima. Certo, quando Montezemolo dice “emanazione di un decreto-legge su concorrenza, liberalizzazioni, semplificazioni e mercato del lavoro, e il trasferimento immediato in un veicolo ad hoc di tutti i beni e le partecipazioni pubbliche da dismettere”, gli si potrebbe obiettare che in questo modo si dice tutto e non si dice niente. Occorre spiegare con precisione come fare ciascuna di queste cose.
Per farle, dice il Presidente della Ferrari, occorre uscire dalla vecchia “politica dei rattoppi” e “rinunciare a una nuova, inutile, stagione elettorale dagli esiti incerti e potenzialmente disastrosi, che spazzi via alibi e condizionamenti”. Parole che fanno presagire a una voglia, mai fugata, di “scendere in capo” dell’imprenditore?
Su questo punto lei non deve interrogare me, ma semmai lo stesso Presidente della Ferrari.
Come giudica la cessione di Telecom alle quotazioni spagnole?
Nel 2007, se non ricordo male, facemmo le barricate contro l’acquisizione del controllo su Telecom Italia da parte di AT&T, cioè di una protagonista assoluta mondiale nel settore delle telecomunicazioni. La giustificazione per questa resistenza fu che occorreva difendere un ganglio strategico del sistema-Italia dal controllo straniero. Peccato che poco dopo si sia dovuto scoprire che, nonostante la sua gestione italianissima, quel nostro ganglio strategico era stato infiltrato da uno dei peggiori “servizi deviati” della storia della nostra industria. Gli yankies probabilmente avrebbero garantito maggiore correttezza gestionale di quella che ci è stata garantita dal management italiano.
Un altro motivo addotto a sostegno dell’opposizione all’acquisizione da parte di AT&T era il timore che gli americani potessero portarsi via la “polpa”, la nostra tecnologia, lasciando qui soltanto le lische.
Non credo proprio che AT&T avesse bisogno della tecnologia di Telecom Italia: semmai quest’ultima avrebbe tratto vantaggio non soltanto dalla tecnologia di AT&T, ma anche dal suo know-how organizzativo e commerciale.
Ma lei non pensa che lasciarsi scappare il caposaldo della Telecomunicazione italiana, sia una sconfitta del sistema industriale italiano?
Ciò che è mancato è lo scorporo della rete, analogamente a quanto si è fatto nel settore ferroviario; ma siamo sempre in tempo a farlo d’autorità, indipendentemente da chi è proprietario delle azioni: sono proprio l’UE e l’Autorità antitrust nazionale a indicare questo provvedimento come necessario. Negli U.S.A. nessuno si chiede se sia meglio che la compagnia telefonica o aerea di cui si avvale sia controllata da un’impresa californiana piuttosto che da una newyorkese o da una canadese. Perché mai noi dovremmo preoccuparci del fatto che l’impresa controllante sia spagnola piuttosto che italiana, o francese, o inglese? Se vogliamo avere il meglio dell’imprenditoria mondiale, dobbiamo saper attirare anche gli americani, i sudcoreani, o gli australiani. La sola cosa che dovrebbe interessarci è la bontà del piano industriale e la capacità tecnica e finanziaria dell’imprenditore di attuarlo.
Come risponde a Grillo che giudica la cosa come “un piano di saccheggio studiato a tavolino”?
La preoccupazione che gli spagnoli possano scappare con la nostra rete telefonica è davvero degna di un grande comico. La comprenderei di più in riferimento a una grande impresa manifatturiera dotata di impianti di avanguardia; ma anche in questo caso la sola cosa di cui dovremmo preoccuparci non è la nazionalità dell’imprenditore, bensì il suo piano aziendale e le sue capacità. La preoccupazione di Grillo è la stessa che venne opposta alla scelta di Ciampi e Prodi, allora presidente dell’Iri, di cedere la Nuovo Pignone alla General Electric: tutti possono toccare con mano come poi è andata.
Come è andata?
A vent’anni di distanza il Nuovo Pignone è l’impresa capofila della divisione Oil & Gas della General Electric: caso unico per questa multinazionale di capofila non basata in USA; ha moltiplicato per 8 il fatturato e detiene una quota rilevante del mercato mondiale delle turbine a gas e a vapore, compressori centrifughi e alternativi, svolge importanti attività di ricerca e formazione. E, last but not least, paga retribuzioni del 50 per cento superiori, a parità di livello delle mansioni, rispetto ai livelli correnti nel settore metalmeccanico italiano. Peccato che sia l’ultimo grande investimento di una grande multinazionale non italiana nel nostro Paese. Nell’ultimo ventennio non è più accaduto niente di questo genere.
Pensa che siano davvero questi i passi necessari per attirare capitali?
Nel caso dell’acquisizione del controllo di Alitalia da parte di Air France-Klm, abbiamo commesso un errore gravissimo nel 2008, quando rifiutammo l’accordo che era stato costruito con la compagnia franco-olandese – primo vettore aereo mondiale per numero di trasportati – da Tommaso Padoa Schioppa. Allora sì che era stato negoziato un piano industriale serio, con accollo di 1,4 miliardi di debiti di Alitalia da parte dell’incorporante, investimento di un ulteriore miliardo, garanzia di mantenimento dell’identità aziendale e delle insegne, garanzie occupazionali. Oggi la stessa operazione avviene in condizioni di debolezza enormemente maggiore da parte nostra, dunque anche a condizioni molto peggiori. Purtroppo ce lo meritiamo.
Da questo punto di vista come giudica il piano “destinazione Italia” del Governo Letta?
Se ha un difetto, è il suo eccesso di ambizione e quindi di dimensione: ha ragione Dario Di Vico quando osserva che appare più come un programma di governo che come un piano specificamente dedicato all’attrazione degli investimenti stranieri. Detto questo, però, occorre anche dire che nel più ci sta il meno: quel documento contiene tutte le misure necessarie per rendere il nostro Paese più attrattivo per gli investimenti diretti stranieri.
Il rischio è che il Governo non abbia un respiro effettivo corrispondente a quello di questo documento.
Sì; ma se anche riuscissimo a realizzarne il venti per cento avremmo fatto un passo avanti rilevantissimo. È comunque importantissimo che con questo documento certifichiamo il nostro voltar pagina rispetto alla nostra tradizionale ostilità bi-partisan, da destra e da sinistra, nei confronti delle multinazionali.