IL VICEPRESIDENTE DELLA COMMISSIONE LAVORO DELLA CAMERA RIAPRE IL DIALOGO SULLA QUESTIONE, PROPONENDO UN’ALTRA SOLUZIONE, DOPO L’ABROGAZIONE DELLA LEGGE N. 188/2007
L’articolo pubblicato dal Sole 24 Ore il 15 luglio 2008, in risposta alla presentazione del disegno di legge presentato da Ichino, Treu e altri il 9 luglio 2008. Segue una breve replica.
Facendosi largo tra una valanga di emendamenti (compresi quelli aggiuntivi presentati dal Governo), il decreto n.112/2008 procede a grandi passi verso la conversione in legge. Il provvedimento ha introdotto alcune importanti innovazioni anche in materia di lavoro, in un’ottica di liberalizzazione e di deregolazione.
Ricordiamo, tra le tante misure, le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato e dei contratti occasionali di tipo accessorio e dell’apprendistato, nonché alla normativa sull’orario lavorativo. Altrettanto importanti risulteranno essere, alla prova dei fatti, le semplificazioni in materia di adempimenti obbligatori di natura formale nella gestione dei rapporti di lavoro, quale l’istituzione del libro unico del lavoro e l’abrogazione di numerose prescrizioni burocratiche. Tali misure – proprio perché non riducono la tutela dei diritti dei lavoratori, ma liberano da vincoli inutili i rapporti di lavoro e la gestione delle imprese – potranno promuovere e diffondere auspicabili forme di collaborazione e di partecipazione, con ricadute positive sull’occupazione. Si tratta di un pacchetto di interventi (si può parlare di “lenzuolata” del ministro Sacconi ?) apprezzabili nella loro ispirazione prima ancora che nel merito. Il Governo, infatti, ha inteso prendere le distanze da politiche del lavoro che finivano per costringere tutte le aziende a sottoporsi a procedure pensate apposta per colpire i casi patologici. In sostanza, è vero che ci sono esempi, purtroppo frequenti, di datori di lavoro che violano i diritti fondamentali dei loro dipendenti. Ma è assurdo colpirne cento per educarne uno. Per sanzionare e rimuovere le anomalie è sbagliato imporre anche agli imprenditori onesti (che sono la grande maggioranza) e ai loro dipendenti comportamenti inquisitori fondati sul pregiudizio della violazione di legge. Ecco perché le norme di deregolazione e di semplificazione, contenute nel decreto, non costituiscono “un regalo ai padroni” ma costituiscono il tentativo di rendere meno gravosa la vita delle imprese e dei lavoratori, nella convinzione che, in generale, i rapporti nei luoghi di lavoro sono sostanzialmente corretti, collaborativi e non solo fisiologicamente conflittuali. Queste considerazioni si misurano, emblematicamente, con l’abrogazione tout court della legge – approvata nella trascorsa legislatura da un’ampia maggioranza bipartisan – che imponeva l’obbligo di “certificare” le dimissioni volontarie su moduli, numerati e a scadenza, rilasciati dal Ministero del Lavoro, allo scopo – si è detto – di ‘stroncare la prassi delle lettere firmate in bianco dai lavoratori e segnatamente dalle lavoratrici, sotto la pressione del ricatto padronale’. Anche gli esponenti più ragionevoli del centro sinistra si sono resi conto dell’esigenza di abbandonare una procedura siffatta, pur continuando a segnalare l’esigenza di una tutela specifica. La soluzione a cui stanno lavorando (trasformare le dimissioni volontarie in un atto giuridico per la cui efficacia è necessaria una conferma dell’interessato dopo alcuni giorni dal rilascio) presenta i medesimi difetti delle dimissioni rassegnate su moduli ufficiali: sottopone, cioè, tutti i lavoratori dimissionari a procedure che riguardano pochi casi limite, peraltro ampiamente tutelati, in sede civile e penale, dall’ordinamento vigente. Volendo, si potrebbe trovare una soluzione molto semplice, che non ha bisogno di nuove leggi, ma che può essere affrontata in via amministrativa. Con una Circolare (di per sé dotata di effettuo dissuasivo) il ministro del welfare dovrebbe autorizzare le Direzioni provinciali del lavoro (Dpl) ad istituire un apposito protocollo a cui i lavoratori potrebbero eventualmente autocertificare, con raccomandata, di essere stati costretti a sottoscrivere lettere di dimissioni volontarie in bianco. Le Dpl – se sarà necessario e a tempo debito – rilasceranno, ai fini di prova processuale, la documentazione attestante l’avvenuto ricevimento della dichiarazione. Non sarebbe il classico “uovo di Colombo” ?
Il nostro disegno di legge non prevede affatto che per l’efficacia delle dimissioni o della risoluzione consensuale del rapporto sia necessaria “una conferma dell’interessato dopo alcuni giorni dal rilascio”: l’atto di recesso produce immediatamente il proprio effetto interruttivo. E’ fatta salva soltanto la facoltà di revoca dell’atto stesso entro un tempo brevissimo (tre giorni), nel quale è data all’interessato/a la possibilità di riconsiderare le conseguenze del proprio atto. Nella stragrande maggioranza dei casi l’interessato/a non si avvarrà di questa facoltà; nessuna delle parti soffrirà dunque aggravi procedurali di alcun genere. Nei rari casi in cui invece la facoltà di revoca verrà esercitata, questo significherà che quell’atto non sarà stato compiuto con la necessaria ponderazione, o, peggio, sarà stato compiuto sotto la pressione di minacce indebite; oppure ancora, nel caso delle dimissioni pre-firmate in bianco, non sarà stato compiuto affatto, trattandosi di una simulazione fraudolenta.
Detto questo, va detto anche che la nostra proposta non si pone affatto in alternativa rispetto a quella ora avanzata da Giuliano Cazzola: le due misure ben possono coniugarsi utilmente tra loro. (p.i.)