RISPOSTE SU MATTEO RENZI

LA CONTRADDIZIONE CHE IL SINDACO DI FIRENZE DEVE SUPERARE PER COMPIERE NEL PD IL MIRACOLO CHE SI PROPONE – GLI ERRORI E I RISCHI CHE DEVE EVITARE, PRIMO FRA TUTTI QUELLO DI SOTTOVALUTARE LA COMPLESSITÀ DEI PROBLEMI CHE IL PAESE HA DI FRONTE

Lettera pervenuta il 16 settembre 2013 – Seguono le mie risposte

Caro Professore,
torno a scriverle per confrontarmi con lei sulle vicende del PD, e in particolare sul (ri?)posizionamento di Renzi. Lei ad aprile aveva voluto condividere sul suo sito alcune mie considerazioni, rispondendomi anche per spiegare la motivazione della suo passaggio a Scelta Civica. Passaggio che, come le scrissi, comprendevo benissimo, se non altro per quello che lei aveva dovuto subire nel PD. E la sua risposta (sostanzialmente che, diversamente che non per Renzi, quella era per lei l’ultima occasione per contribuire, vista la situazione del PD e la sua convinzione che per lei non ci sarebbe stato in futuro “un altro giro”) mi convinse che, oltre che comprensibile, per lei quella era la scelta giusta.
Venendo a Renzi, ritenevo che il suo abbandono di alcune idee dell’anno scorso fosse più che altro frutto del solito gossip, da sempre impegnato a “interpretare” Renzi secondo direzioni che lui poi ha regolarmente smentito, ma sentendolo l’altro ieri ha Torino qualche dubbio mi è venuto. Mi spiego: alla domanda ficcante di Sarah Varetto che, per parlare del suo presunto cambio di posizione sul tema lavoro, gli chiedeva se lui ancora fosse “d’accordo con Ichino”, Renzi ha dato risposte che mi hanno lasciato perplesso.
In primo luogo ha tagliato corto su di lei dicendo che, cito a senso, avendo perso le primarie, lei se ne è andato, a differenza di lui che, per coerenza, si è messo a disposizione del vincitore, perché, usando la solita frase ormai un po’ trita, “lui non è di quelli che se perdono scappano col pallone”. Frase mi sembra ingenerosa verso le sue buone ragioni di cui parlavo sopra (a partire da tutto quello che il PD ha sempre fatto per farla scappare), che Renzi conoscerà senz’altro. Ma soprattutto così diversa da quanto Renzi affermò coraggiosamente alla Leopolda l’anno scorso, quando non solo condivideva chiaramente le sue posizioni sul lavoro, ma le esprimeva anche con grande forza solidarietà, stigmatizzando i comportamenti del PD nei suoi confronti.
Se questa risposta mi è suonata antipatica, ben più mi ha preoccupato quella nel merito, non tanto per quanto abbia smentito le vecchie posizioni (cosa che non ha fatto), ma per come ha risposto. Improvvisamente ho avuto un flash back: ho rivisto Veltroni in un comizio tenuto dalle mie parti qualche anno fa, quando la spinse a ricandidarsi e sembrava volerla aiutare a portare avanti le sue idee. Affrontando il tema lavoro, iniziò dalla parte più facile e popolare: la stigmatizzazione del precariato, del quale parlò risolutamente come di un grave problema da risolvere al più presto. Quando si trattò di parlare delle esigenze di flessibilità, il suo discorso diventò più involuto, confuso, iniziò: “però anche quando un imprenditore ha l’esigenza ….”, ma smorzò la frase, fece solo vaghi accenni: mi sembrò un modo per far capire a chi già la pensava come me che lui, certo, la pensava come Ichino, ma anche per cercare di non far capire nulla alla “sinistra sindacale”. Ora sabato Renzi mi ha fatto la stessa impressione: si è dilungato a parlare della complicazione delle leggi sul lavoro (sposando, devo essere onesto, il suo “codice semplificato”), ha criticato la scarsa flessibilità in entrata causata dalla riforma Fornero, ma ha brillantemente glissato sulla flessibilità in uscita, cambiando discorso.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa lei: si tratta di peccati veniali, comprensibili da parte di chi, nel momento in cui si prospettano primarie per il Segretario del PD e non per il Premier, è focalizzato sull’acquisizione del consenso nel partito, o invece di gravi dimostrazioni di slealtà, opportunismo e di mancanza di coerenza? Gravi non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello pratico, perché in un momento in cui i “rottamandi” saltano sul carro, l’unico modo per evitare che facciano troppi danni sarebbe quello di essere ancora più chiari e netti nel ribadire quali sono le vecchie idee, e anche le vecchie pratiche di raccolta demagogica del consenso, che si devono rottamare.
Un caro saluto
Enrico Castellano

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LE MIE RISPOSTE

La novità di Matteo Renzi – Tra il 2011 e il 2012, i dibattiti pubblici cui andavo partecipando in giro per l’Italia sul programma del Governo Monti, poi sui meriti e i demeriti del suo operato e su quello che restava da fare, mi avevano dato la percezione di un fatto straordinario: cioè che sul tema oggi cruciale della strategia europea dell’Italia si ritrovavano perfettamente d’accordo persone di origine politica opposta. Vedevo diffusamente, nel vivo del Paese, la stessa convergenza che osservavo in Parlamento tra persone come Enrico Morando o come me, che erano sempre vissute dentro la sinistra e il movimento sindacale, e persone di provenienza e appartenenza politico-culturale diversissima, come Benedetto Della Vedova, Enrico Musso, Maria Ida Germontani o Giuliano Cazzola. Nell’estate e autunno 2012, la mia decisione di sostenere la campagna di Matteo Renzi per le primarie del PD nacque soprattutto dalla constatazione che lui era l’unico esponente di spicco, in questo partito, a cercar di parlare in modo comprensibile e attraente anche per milioni di persone esterne e persino lontane da esso. Le cose che diceva erano attraenti perché non facevano appello al senso di appartenenza al partito, non riguardavano questioni identitarie o di schieramento, ma soltanto le cose da fare; non miravano a costruire barriere, ma semmai ad abbatterle, a scompaginare i vecchi schemi di una politica nazionale ad alto tasso (trasversale) di faziosità e di inconcludenza.

La contraddizione da superare – Poi, dopo la sconfitta di novembre, la sua scelta di fedeltà al PD “senza se e senza ma” ha costituito un’arma politica decisiva nelle sue mani per la battaglia pre-congressuale, facendo di lui la figura più credibile per il riscatto di questo partito in gravissima crisi di identità. Ma Matteo deve stare attento: il propellente della sua ascesa è stata la sua capacità di rompere i vecchi schemi identitari e le incrostazioni ideologiche. La contraddizione politica che egli oggi deve superare è questa: in quel suo ruolo si è affermato come figura divisiva al massimo grado, ma ora gli si chiede di proporsi come figura unificante; si è fatto forte del consenso esterno al partito contrastando l’idea assurda della “diversità antropologica” fra sinistra e destra, ma ora gli si chiede di riuscire a ridare un’identità al partito e incarnarla lui stesso. D’altra parte, se ora per conquistare il PD ne sposa lo spirito di parte, prendendo a coccolarne l’identità culturale e politica tradizionale, rischia di perdere di vista il disegno originario che comportava l’abbattimento della barriera tra i “veri democratici” e “gli altri”. Insomma: è nella natura stessa della sfida il rischio che ora, per vincere, il sindaco di Firenze privilegi la tattica rispetto alla strategia, finendo per mandare in soffitta quest’ultima.

Alcuni silenzi – In politica più che altrove i mezzi sono il fine stesso in divenire: se per vincere il congresso Matteo Renzi rinuncerà a una posizione chiara, come quella che prese per le primarie dell’anno scorso, sulle misure necessarie per migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, della scuola, o delle amministrazioni pubbliche, il risultato sarà forse, sì, Renzi segretario, ma segretario di un PD che continuerà a opporsi alle riforme necessarie nel mercato del lavoro, nella scuola, nelle amministrazioni pubbliche, più o meno come il PD ha fatto fin qui. La mia speranza – per il bene del Paese ‑ è che il miracolo renziano si compia: cioè che Matteo riesca a vincere il congresso dei democratici puntando su di un aggiornamento delle idee-forza del suo programma per le primarie del 2012 e non sul loro annacquamento o abbandono in funzione di fragili alleanze interne alla nomenklatura del partito; ma vedo tutta la difficoltà dell’impresa. E vedo con preoccupazione non soltanto i suoi silenzi in materia di politica del lavoro cui accenna E.C., ma ancor più quelli sul decreto stabilizzazioni per le amministrazioni pubbliche, quelli sulle misure incisive che occorrerebbero per rendere più efficiente la nostra giustizia, o su quelle necessarie per riportare le nostre scuole e università nella parte alta delle graduatorie internazionali; una certa faciloneria riguardo agli impegni che abbiamo assunto verso i nostri partner europei col Fiscal Compact.

Il rimprovero – È quello che Matteo mi rivolge per aver io lasciato il Partito democratico a seguito della sconfitta nelle primarie del novembre 2012. Ne capisco bene la ragione: se molti dei suoi sostenitori avessero fatto la mia stessa scelta, la sua battaglia oggi ne risulterebbe indebolita. Fin dall’inizio ne sono stato consapevole: non mi sono affatto nascosto questo aspetto negativo della mia scelta, che è stato anche per me motivo di dubbio e di sofferenza. Se ciononostante ho compiuto quella scelta non è, però, per un mio voler “scappare col pallone” – come usa dire Matteo a questo proposito –, cioè una mia incoerenza rispetto alle regole del gioco, bensì semmai per un impegno di coerenza che riguardava e riguarda in modo particolare me e non gli altri suoi sostenitori. Da molti anni avevo un rapporto stretto di amicizia e scambio di idee con Mario Monti, e nel corso del 2012 avevo collaborato strettamente con lui all’elaborazione del suo programma di governo – quello che il PD ha sostenuto per un anno intero ‑, poi di quel suo sviluppo che avrebbe assunto il nome di “agenda Monti”. Quando, dopo le primarie di novembre (dopo, non prima!), mentre il segretario nazionale Bersani girava l’Europa per rassicurare i nostri partner circa la nostra fedeltà agli impegni presi, ho sentito Niki Vendola e Stefano Fassina (non smentito, quest’ultimo, dal vertice del partito) dichiarare all’unisono che l’esito di quella consultazione “metteva una pietra tombale sull’Agenda Monti”, ho considerato questo come un atto poco corretto da parte loro: né la Carta d’intenti delle primarie firmata da tutti i partecipanti alle primarie né il programma di Bersani dicevano questo. Ma, soprattutto, lo ho considerato come un segnale forte del rischio che la coalizione PD-SEL potesse vanificare in pochi mesi il lavoro fatto con l’appoggio dello stesso PD dal Governo Monti per evitare all’Italia la catastrofe cui era andata tanto vicina.

Il significato di una scelta – Non ho mai condiviso la mistica del “partito-chiesa”. Così, quasi al termine della mia vita politica e senza alcuna ambizione personale (nel dicembre 2012 avevo 63 anni: età nella quale almeno in politica occorre incominciare a pensare a lasciare spazio ai più giovani), di fronte all’incoerenza del vertice di quello che era stato il mio partito fino a quel momento, e all’esperimento politico che Mario Monti si era deciso a proporre a seguito dell’apertura della crisi del suo Governo, ho ritenuto che fosse giusto spendere per questo nuovo progetto i miei ultimi mesi di “servizio civile”. Un progetto non privo di qualche analogia con l’idea renziana originaria: unire, sulle cose essenziali e difficili da fare per raddrizzare la barca, tutte le persone disponibili, anche se di provenienza politico-culturale molto diversa; per me significava dare corpo a quella convergenza di cui avevo visto la possibilità e persino l’attualità in Parlamento e in tanti incontri in giro per l’Italia.

Il problema della vocazione maggioritaria – Poi, alle elezioni di febbraio, Scelta Civica non ha raccolto un consenso paragonabile per dimensioni con quello raccolto da PD e PdL; ma, comunque liberando tanti elettori del centrodestra dal populismo anti-europeo del PdL – cioè facendo, in un certo senso, il mestiere che il PD di Bersani non ha lasciato fare a Renzi ‑ ha probabilmente evitato al Paese di risvegliarsi una mattina di primavera con Silvio Berlusconi Presidente della Repubblica e magari anche Maurizio Gasparri Presidente del Consiglio (sono mancati al PdL soltanto duecentomila voti per superare il PD). Oggi SC continua a essere un laboratorio di quell’incontro non ideologico e non demagogico tra persone di provenienze diametralmente opposte, sul terreno delle cose concrete, di cui il Paese ha urgente bisogno. Sbaglia Matteo Renzi se ora pensa di poter fare a meno di quell’incontro, in nome della vocazione maggioritaria del PD:  la vocazione maggioritaria implica proprio che si sappia coltivare quell’incontro. E comunque i problemi che dobbiamo affrontare sono di entità tale, che nessun partito, per quanto forte e in ipotesi dotato di maggioranza in Parlamento, è oggi – e sarà nel prevedibile domani – in grado di affrontarli con le sole risorse proprie: la vocazione maggioritaria è giusto coltivarla sempre, ma avendo ben chiara anche la necessità delle larghe intese nei momenti di più grave emergenza, di pericolo per la nazione.

Il rischio di ignorare la complessità dei problemi – Certo non potrà affrontare quei problemi e risolverli da solo quel PD che più di ogni altro partito sta, di fatto, difendendo lo status quo delle amministrazioni pubbliche, e del sistema scolastico in particolare; che sta bloccando in Parlamento e nel Governo qualsiasi misura anche solo sperimentale di adattamento del mercato del lavoro alle sfide poste dalla crisi economica; che non ha saputo prendere posizione nemmeno su uno solo dei referendum promossi dai radicali sulla giustizia. L’augurio è che Matteo Renzi riesca a cambiare profondamente il modo di essere di questo partito. Ma il rischio è che riesca a dargli solo una riverniciata: e questa sì sarebbe, se non un tradimento, una delusione cocente per molti. Matteo corre questo rischio quando, per raccogliere consenso, presenta le cose da fare come facili e risolve tutto con una battuta. Fa benissimo a usare le battute, visto che le sa usare così bene; ma lui stesso deve essere ben convinto che le cose da fare, per salvare il Paese, sono invece difficili, proprio perché difficile è raccogliere su di esse il consenso maggioritario, mentre contro di esse la resistenza è diffusa e trasversale. Credo che sarà utile anche a lui, per andare a fondo dei problemi, doversi confrontare su di essi non soltanto con il partito di Silvio Berlusconi, Daniela Santanché e Maurizio Gasparri (che preferisce negarli e sostanzialmente abbandonare la nostra strategia europea), ma assai più e meglio con un partito che si sforza di elaborare senza demagogia e senza scorciatoie la rotta da seguire per non finire sugli scogli e assicurare la partecipazione iena dell’Italia alla costruzione dell’Unione Europea. La speranza è che nel prossimo futuro il confronto – consista esso in una competizione o in una collaborazione per la salvezza del Paese ‑ si collochi tutto su questo terreno.

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