IL PROGETTO DI RIFONDAZIONE DEL SISTEMA DEL COLLOCAMNTO FONDATO SULLA STRETTA COOPERAZIONE FRA STRUTTURE PUBBLICHE E AGENZIE PRIVATE, SULL’ATTIVAZIONE DEGLI INCENTIVI GIUSTI NEI CONFRONTI DI TUTTI I PROTAGONISTI, E IN PARTICOLARE DI UNA SERIA CONDIZIONALITÀ DEL SOSTEGNO DEL REDDITO
Le mie risposte alle domande che i partecipanti all’incontro Webinar, organizzato da The European House Ambrosetti il 13 settembre 2013, non sono riusciti a pormi per mancanza del tempo necessario, a seguito della mia relazione sul tema Che cosa ci impedisce di lavorare – Nella quale metto in evidenza i danni gravi prodotti dal modo normalmente seguito in Italia per affrontare le crisi occupazionali aziendali e i difetti dei nostri servizi di collocamento e di orientamento scolastico e professionale
La riforma Fornero non ha rinnovato in modo significativo il sistema di ammortizzatori vigente proprio per superarne i limiti da lei evidenziati nella sua relazione?
Sì, la cosiddetta “riforma degli ammortizzatori sociali” costituisce la parte più rilevante di quell’intervento legislativo dello scorso anno. E credo che il grande merito di questa parte compensi gli errori che sono stati commessi, con quella legge, sul terreno della regolazione dei rapporti di lavoro a termine, e la timidezza con cui si è intervenuti sull’articolo 18, in materia di licenziamenti.
Quando se ne vedranno gli effetti?
In parte si stanno già vedendo: la nuova assicurazione universale contro la disoccupazione (ASpI) è già entrata in vigore, garantendo il 75% dell’ultima retribuzione a tutti i lavoratori subordinati che perdono il posto. In parte essi devono ancora prodursi: la legge Fornero ha concesso altri due anni di tempo per l’allineamento dell’utilizzazione della Cassa integrazione guadagni ai nuovi principi e regole. Certo, occorre che non prevalga sul piano politico un orientamento regressivo, la scelta di tornare indietro, o anche soltanto rinviare.
Quali ulteriori miglioramenti sono auspicabili in questa direzione?
Una cosa indispensabile è l’attivazione di quella che chiamiamo la “condizionalità” nell’erogazione del sostegno del reddito a chi ha perso il posto di lavoro: prevista dalla legge Fornero, che però per questo aspetto è rimasta inattuata. È indispensabile attivare, almeno in via sperimentale, un sistema che colleghi il trattamento di disoccupazione con l’obbligo di scegliere una tra le imprese accreditate per il servizio di outplacement. Il corrispettivo del servizio sarà costituito da un voucher, erogato dalla Regione con il contributo del Fondo Sociale Europeo, articolato in una parte fissa e una (la parte maggiore) pagabile soltanto a seguito del successful placing, cioè della collocazione al lavoro effettiva del lavoratore: in questo modo si attiva l’incentivo giusto per l’agenzia incaricata del servizio. Quest’ultima dovrà individuare un tutor al quale la persona disoccupata sarà affidata, con l’incarico di consigliarla e seguirla in tutto il percorso di ricerca e riqualificazione, ma anche di denunciare l’eventuale irragionevole rifiuto da parte sua di occasioni di lavoro appropriate in relazione alle sue capacità, oppure di opportunità di riqualificazione che le siano state offerte: il rifiuto ingiustificato deve portare all’interruzione del trattamento di disoccupazione. Solo così si evita che il sostegno del reddito determini un allungamento del periodo di disoccupazione.
Come spesso accade, l’analisi dei dati porta a conclusioni diverse dalla percezione comune. Il sindacato, CGIL in particolare, cosa dice di questi dati?
I sindacalisti per lo più ignorano questi dati [NB – domanda e risposta si riferiscono ai dati contenuti nella relazione]; ma non soltanto i sindacalisti: la cosa curiosa è che anche alcuni studiosi di sociologia o di diritto del lavoro ne sono sorpresi. Anche perché sono dati che, inspiegabilmente, non sono pubblicati da nessuna parte e non sono reperibili neppure su Internet, tranne che su questo sito. Tanto sono lontani dall’immaginazione diffusa, anche tra gli addetti ai lavori, che la prima volta che li presentai in pubblico, due anni fa, qualcuno mi disse che si trattava di dati “evidentemente falsi”! Invece sono dati risultanti dal sistema delle comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro alle Direzioni provinciali per l’impiego, aggregati sul piano nazionale: sono dunque dati attendibilissimi, oltretutto confermati da quelli raccolti autonomamente da diversi Osservatori regionali del mercato del lavoro. Il fatto è che prendere coscienza di questi dati costringe a prendere atto dell’abisso di inefficienza che caratterizza i nostri servizi di mediazione nel mercato del lavoro; e costringe ad abbandonare l’approccio assistenzialistico alle crisi occupazionali aziendali, che fin qui ha fatto tanto comodo a sindacati e imprenditori.
Perché Lei non va a presentare questi dati in qualche altra trasmissione divulgativa?
Più che pubblicare e aggiornare queste slides sul mio sito, e presentarle in ogni possibile occasione, come sto facendo da due anni a questa parte, non posso fare. Se venissi invitato a una trasmissione televisiva, ovviamente lo farei anche in quella sede.
Forse il cambiamento di percezione sarebbe utile a migliorare la situazione di crisi.
Sì: l’Italia ha bisogno urgentissimo di cambiare profondamente il modo in cui si affrontano le crisi occupazionali. Invece, purtroppo, la richiesta insistente – e bi-partisan! – di rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga va in direzione esattamente contraria: cioè nella direzione di una protrazione sine die dell’abuso della Cassa integrazione per nascondere situazioni di disoccupazione e non affrontarle correttamente, con gli strumenti appropriati.
Pur capendo i problemi finanziari dell’INPS, l’innalzamento dell’età pensionabile non riduce la possibilità di trovare lavoro?
Uno degli effetti che stiamo misurando della riforma delle pensioni del dicembre 2011 è un aumento del tasso di occupazione nella fascia di età sopra i 55 anni. In questa fascia aumentano le persone che restano attive nel mercato del lavoro, invece che uscirne (come avrebbero fatto con la vecchia disciplina): questo, più e prima che la corrispondente riduzione della spesa previdenziale, è esattamente ciò che la riforma si proponeva di conseguire. Certo, questo può determinare transitoriamente in alcuni casi una riduzione delle vacancies, cioè delle occasioni di lavoro che si aprono per le nuove generazioni, in altri casi un aumento dei candidati alle nuove occasioni di lavoro. Ma è un effetto transitorio: la comparazione internazionale mostra come i Paesi nei quali è più alto il tasso di occupazione nella fascia dei 50 e dei 60 anni siano al tempo stesso quelli in cui è più alto il tasso di occupazione anche nella fascia tra i 18 e i 30 anni. Questo si spiega col fatto che l’anziano che continua a lavorare continua a produrre ricchezza, senza pesare sulle risorse pubbliche, le quali possono così essere utilizzate per attivare nuovi rapporti di lavoro, soprattutto nei numerosi settori dei servizi alla persona, alla famiglia e alle comunità locali, che sono quelli nei quali oggi l’Italia fa registrare i livelli occupazionali più bassi rispetto al centro e nord-Europa.
Nell’esperienza di molti imprenditori che hanno dovuto affrontare crisi occupazionali nelle loro aziende, spesso i lavoratori in uscita stentano a percepire il valore dell’outplacement, quasi non sanno cosa sia, preferiscono negoziare qualche euro in più e rinunciarvi. Come fare per indurli a un comportamento diverso?
In molti casi quando la persona che sta perdendo il posto preferisce qualche euro in più rispetto al servizio di outplacement, ciò è dovuto al fatto che essa ha già un’alternativa occupazionale, o sa di poterla trovare facilmente con i soli propri mezzi. Questo non deve sorprendere, se si considerano i dati che abbiamo visto, emergenti dalle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sul numero dei contratti di lavoro regolari che si stipulano in Italia, anche in un periodo di crisi economica gravissima; questo però costituisce una prova ulteriore del danno grave prodotto dal modo con cui in Italia si eroga il sostegno del reddito a chi perde un lavoro in modo incondizionato: molti di questi lavoratori, se venissero posti in Cassa integrazione potrebbero essere indotti a differire l’attivazione di un nuovo rapporto di lavoro regolare, e/o sostituirlo con un rapporto di lavoro irregolare. In ogni caso, l’introduzione di una seria condizionalità nel sostegno del reddito ridurrebbe drasticamente questi effetti negativi del nostro modo attuale di affrontare le crisi occupazionali.
Sul pietismo di cui lei ha parlato in riferimento all’uso che si fa oggi in molti casi della CIG, come si può intervenire sui Sindacati per cambiarne la mentalità?
Sarebbe importantissimo far percepire diffusamente ai lavoratori, prima ancora che ai loro rappresentanti sindacali, quanto sia dannoso l’uso che si fa oggi della Cassa integrazione per nascondere situazioni di effettiva disoccupazione: far capire loro come e perché il grave ritardo, che in questo modo si determina, nell’attivazione della ricerca della nuova occupazione, nella riconversione professionale, li infili in un vicolo cieco. Come e perché, dunque, il sindacato predicando il “diritto” dei lavoratori a godere di almeno uno o due anni di Cassa integrazione prima della formalizzazione del licenziamento, faccia loro un pessimo servizio.
Quali effetti potrebbero produrre le recenti riforme del sistema di formazione professionale, con particolare riferimento al contratto di apprendistato?
Quanto all’apprendistato, non ho molta fiducia nella possibilità di un suo rilancio fin quando esso sarà oggetto di una disciplina complessa e rigida come la nostra attuale. Quando essa sarà ridotta a un solo articolo di pochi commi, come nel Codice semplificato del lavoro che ho proposto in Parlamento già quattro anni fa e riproposto nella nuova legislatura, cioè quando si potrà assumere un apprendista senza bisogno di ricorrere all’assistenza di un consulente del lavoro, le cose potranno cambiare decisamente in meglio. Quanto alla formazione professionale in generale, le cose non potranno migliorare finché essa non verrà mirata specificamente a coprire gli skill shortages, che si registrano a decine di migliaia in ciascuna regione italiana. Certo, questo presuppone che si imponga a ciascun lavoratore a cui si eroga il trattamento di disoccupazione di rendersi disponibile per il percorso di riqualificazione mirato appunto alla copertura di un posto ben determinato, offerto da un’impresa. Anche per questo è necessario introdurre la condizionalità di cui si è parlato prima.
Skill shortages: esistono best practices europee per mettere in contatto fabbisogno delle imprese e competenze dei lavoratori?
Certo che sì: l’Italia è indietro di venti o trent’anni rispetto a molte esperienze che in questo campo sono disponibili nel panorama del centro e nord-Europa.
Che interpretazione dà all’alto numero di richieste di lavoro inevase nel Mezzogiorno, quando, a fronte di queste, continua ad essere alto il numero di persone che lasciano quelle regioni per cercare “fortuna” in altre?
È una conferma del pessimo funzionamento dei nostri servizi per l’impiego in quelle regioni. Del resto, non ci si può attendere di meglio quando i “collocatori” ignorano totalmente la domanda di manodopera espressa dalle imprese e di fatto non se ne occupano. Come è pensabile che essi fungano da “mediatori” tra domanda e offerta, che essi possano indirizzare i lavoratori sugli itinerari necessari per arrivare a coprire i posti disponibili, se non sanno neppure quali posti sono disponibili?
Quanto è probabile che il lavoro ritrovato dopo essere stati licenziati senza CIG sia di livello inferiore o molto inferiore a quello perso?
Ci sono diversi studi in proposito, sia in riferimento agli USA, sia in riferimento ai Paesi Europei e all’Italia in particolare. Essi indicano una perdita di retribuzione media, nel caso di mobilità involontaria (cioè licenziamento), intorno al 20 per cento dell’ultima retribuzione; ma indicano anche che, nella gran maggior parte dei casi, nel giro di pochi anni questa perdita viene recuperata. In Italia questo gradino all’ingiù è accentuato dall’istituto degli scatti di anzianità, che ovviamente si azzerano in caso di passaggio da un’azienda a un’altra: è questa una peculiarità italiana di fonte contrattuale collettiva che produce numerosi effetti negativi e va superata al più presto. D’altra parte, se si considera che anche il trattamento di Cassa integrazione, di mobilità o di disoccupazione comporta sempre una riduzione del reddito del lavoratore almeno pari al 20 per cento, è facile rendersi conto di quanto il cambiare sistema di assistenza nel passaggio dalla vecchia alla nuova occupazione possa essere vantaggioso per il lavoratore e per i conti pubblici. Si potrebbe anche pensare a destinare una parte del risparmio che ne conseguirebbe a un wage subsidy che consenta di neutralizzare il gradino all’ingiù per i primi mesi, o addirittura il primo anno. In qualche misura
Come si può contemperare il giusto requisito della “disponibilità” al nuovo impiego quale requisito per la percezione del sostegno del reddito con il legittimo interesse alla tutela della professionalità da parte del lavoratore?
Il danno di gran lunga peggiore per la professionalità del lavoratore è restare a lungo inattivo, come accade oggi sistematicamente con l’attivazione impropria dei lunghi periodi di Cassa integrazione nella fase iniziale della disoccupazione. Detto questo, è evidente che dal lavoratore non si può esigere la disponibilità per qualsiasi nuovo lavoro. Non è opportuno stabilire regole generali rigide, perché l’ampiezza della disponibilità a cambiare lavoro che può essere ragionevolmente richiesta a chi lo ha perso dipende dalle circostanze. L’unica regola generale che si può – e si deve – utilmente porre, a questo proposito, è quella che prevede che si confrontino le competenze professionali del lavoratore con le opportunità offerte dal mercato del lavoro nella zona (ce ne sono sempre: si pensi alle decine di migliaia di skill shortages esistenti in ogni regione) e si chieda al lavoratore di scegliere fra le tre o quattro soluzioni più agevolmente praticabili e con contenuto professionale più simile a quello del posto di provenienza. Se il lavoratore le rifiuta tutte, spetta a lui indicare una diversa soluzione possibile; e se questa non è ragionevole, è giusto che il lavoratore perda in tutto o in parte il trattamento di disoccupazione.
In caso di dissenso tra il tutor e il lavoratore, come si risolverebbe la controversia secondo questo progetto?
Poiché non si tratta di un rapporto di lavoro, si può pensare che la norma istitutiva della sperimentazione consenta l’inserimento nel “contratto di ricollocazione” di una clausola compromissoria, che dia luogo a una forma di arbitrato molto rapido. Un buon conoscitore delle condizioni del mercato del lavoro scelto preventivamente di comune accordo tra le organizzazioni sindacali e l’associazione delle imprese di outplacement potrebbe decidere se dare ragione al tutor o al lavoratore, sentiti entrambi, nel giro di due settimane; senza alcuna formalità. Come accade nei Paesi dove queste cose si fanno per davvero, e funzionano bene.
Qual è la Sua ricetta per rendere più flessibili i contratti a tempo indeterminato?
È quella proposta nel Codice semplificato del lavoro di cui ho parlato prima (d.d.l. n. 1006/2013): limitare il controllo del giudice al solo motivo disciplinare del licenziamento e agli eventuali motivi discriminatori o di rappresaglia; lasciare come unico “filtro automatico” del motivo economico-organizzativo del licenziamento una indennità di licenziamento di entità crescente gradualmente con l’anzianità di servizio e, quando il questa superi il primo biennio, l’onere per l’impresa di offrire al lavoratore licenziato un “contratto di ricollocazione” che preveda una integrazione del trattamento di disoccupazione e il servizio di outplacement.
Costo per l’impresa?
Nel primo biennio pochissimo: soltanto un mese per anno di anzianità di servizio. Il Codice semplificato prevede anche che per questo periodo sia libera la stipulazione del contratto a tempo determinato, con pagamento della stessa indennità nel caso in cui, al termine, esso non venga rinnovato o trasformato in rapporto a tempo indeterminato: così, in questo primo periodo, per l’impresa e per il lavoratore diventa quasi indifferente l’assunzione a termine o tempo indeterminato. Poi, dall’inizio del terzo anno il costo di separazione incomincia a crescere gradualmente, fino a un massimo che comunque – per le anzianità più elevate – non supera una annualità di costo aziendale del rapporto di lavoro. Perché la maggior parte del costo standard di mercato del servizio di outplacement deve essere coperto dal voucher regionale, finanziato anche con il contributo del Fondo Sociale Europeo.
L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro ma non sull’impresa. Il lavoro è una conseguenza dell’impresa. Non dobbiamo quindi assolutamente seguire una politica industriale diversa per affrontare la disoccupazione?
Non c’è dubbio, su questo. L’Italia è da un paio di decenni un Paese drammaticamente chiuso agli investimenti stranieri. Per motivi strutturali (costo più alto dell’energia, cattivo funzionamento delle amministrazioni pubbliche, difetti delle infrastrutture di trasporto e comunicazione), ma anche per la nostra cultura politica: sia da destra, sia da sinistra, troppo sovente abbiamo fatto la guerra contro le multinazionali che si proponevano di investire in casa nostra. Un caso evidentissimo è costituito dalla vicenda Fiat. Ma potremmo ricordare decine di altri casi, tra i quali Parmalat/Lactalis, Alitalia/Air France-KLM, Antonveneta/Abn Amro, Autostrade/Abertis, Telecom Italia/AT&T, sono solo i più noti. È solo con i Governi Monti e Letta che abbiamo incominciato a cambiare profondamente il nostro orientamento su questo terreno, a capire che gli investimenti diretti esteri costituiscono una delle leve più importanti per il ritorno dell’Italia alla crescita.
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