IL DIRETTORE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE RISPONDE IN MODO SERIO E INCISIVO AL MIO INTERVENTO SULLE DISFUNZIONI DI UN UFFICIO PERIFERICO, INDICANDO L’ANTICO CRITERIO CUI DEVE ISPIRARSI ANCHE IL COMPORTAMENTO DEL DIPENDENTE PUBBLICO NEI CONFRONTI DEL CITTADINO
Lettera di Attilio Befera, Direttore centrale dell’Agenzia delle Entrate, a tutti i dipendenti, 3 agosto 2013, a seguito della mia lettera al Corriere della Sera del 15 luglio precedente – Il riferimento alla mia denuncia è nel § 5, dove il Direttore dell’Agenzia delle Entrate cita anche un passaggio del mio trattato su Il contratto di lavoro, a proposito della diligenza dovuta nell’adempimento della prestazione lavorativa
Al personale dell’Agenzia
Oggetto: Indicazioni sullo svolgimento dell’attività di servizio ai contribuenti
1. – A che serve il nostro lavoro? Rivolgendosi ai dipendenti dell’Agenzia lo scorso 24 luglio, in occasione della sua visita alla nostra sede centrale, il Presidente del Consiglio ha implicitamente risposto così a questa domanda: serve ad attuare la Costituzione nei suoi valori fondamentali di equità e solidarietà.
Proseguendo nel suo intervento, il Capo del Governo ha ulteriormente sviluppato il suo punto di vista indicando le ragioni della lotta all’evasione fiscale: assicurare i servizi pubblici alla collettività, redistribuire la ricchezza per ridurre inaccettabili disuguaglianze, tutelare la concorrenza leale a favore degli imprenditori onesti e capaci, dare forza alla credibilità internazionale dell’Italia, difendere e promuovere quel fondamentale valore di civiltà, che è il valore del rispetto delle regole contro i furbi, cioè contro coloro che si autoesentano dall’assolvere i propri obblighi, continuando però a beneficiare dei servizi pubblici pagati con le tasse altrui.
Naturalmente, se sono indubbi i benefici che il nostro lavoro procura alla collettività nel suo insieme, è altrettanto indubbio che non è mai “la collettività nel suo insieme”, né “il Paese”, che si presentano nei nostri uffici, ma solo e sempre singole persone in carne ed ossa, che non vi accedono certo volentieri. E questo spiega, almeno in parte, perché il nostro lavoro, che lo stesso premier ha definito “misconosciuto”, possa risultare tra i più ingrati per un impiegato pubblico.
Ciò non rimuove comunque la convinzione che la nostra attività rimane tra quelle di valore sociale più elevato cui si possa aspirare, ed è per questo che intimamente ne siamo tutti profondamente orgogliosi, sebbene non manchino, nell’attuale difficile contesto, motivi legittimi di insoddisfazione professionale ed economica.
2. – Purtroppo, tanto più elevata è la consapevolezza dell’importanza del nostro lavoro, tanto più in basso ci si sente sprofondare, quando i nostri comportamenti sono percepiti dagli interessati come una sequenza di vessazioni amministrative, quasi fatte apposta per alimentare, invece che la tax compliance, un istintivo senso di rivolta contro il fisco e le sue pretese. Con questa percezione perde infatti di senso – e si rovescia anzi nel suo contrario – quella che dovrebbe essere un’attività qualificata di servizio e assistenza a persone spesso comprensibilmente incerte e smarrite di fronte alla complicatezza degli adempimenti fiscali da assolvere.
La cronaca ci consegna episodi che paiono talvolta condensare un campionario così completo di mala burocrazia da sembrare solo casi teorici di scuola. Sappiamo, naturalmente, che si tratta di singoli episodi che non possono, e non devono, offuscare, il lavoro compiuto ogni giorno, onestamente e coscienziosamente, dalla stragrande maggioranza di noi tutti; un lavoro, però, che non avrà mai titolo a guadagnare le prime pagine di un giornale e rimarrà per lo più confinato, in un piccolo angolo della posta dei lettori, quando un contribuente desidera ringraziare, per la sua diligenza operosa l’impiegato che gli ha spiegato con cura cosa doveva fare e che lo ha assistito sul come farlo.
L’Agenzia delle entrate è un’amministrazione pubblica ed è orgogliosa di esserlo. Ma sarebbe un orgoglio mal riposto, e alla fine illusorio, se l’Agenzia non avesse la forza di sottoporsi sempre al pungolo della critica, e soprattutto, dell’autocritica. Accettare questo significa disponibilità a raccogliere la sfida di coloro che vedono oggi nelle amministrazioni pubbliche l’equivalente di un paio di “scarpe di cemento” calzate ai piedi del Paese. Questa sfida non ci è affatto estranea, perché – per quanto possa sembrare singolare – essa viene, con particolare forza, proprio dal nostro interno. Se si tratta infatti di vagliare l’efficienza degli uffici pubblici, non c’è critico forse più impietoso dello stesso impiegato pubblico, quando però si trova dall’altra parte dello sportello, quale utente lui, questa volta, di un servizio pubblico. Italo Calvino disse una volta che il bravo scrittore è colui che si sdoppia sempre nel suo lettore. Questa frase sintetizza bene il senso giusto del nostro modo di lavorare, non appena la trasformiamo, ritoccandola solo un poco, in quest’altra frase: il bravo funzionario pubblico è colui che si sdoppia sempre nel cittadino che ha di fronte.
Quando abbiamo cominciato a introdurre nella nostra organizzazione – e lo abbiamo fatto ben prima della “legge Brunetta”, così come abbiamo cominciato a praticare la spending review ben prima della legge sulla spending review – sistemi di controllo di gestione e meccanismi di valutazione della performance organizzativa e individuale abbiamo dato al nostro interno questo chiaro messaggio: chiusure corporative e proclamazioni di bravura – tutte autoreferenziali – non serviranno a restituire dignità e orgoglio al lavoro pubblico – che è poi ciò che più sta a cuore a chi fa con passione questo lavoro – ma serviranno solo ad alimentare le peggiori accuse da sempre rivolte ai lavoratori pubblici di questo Paese. I quali dovrebbero perciò avere interesse a fare propria questa massima molto semplice: dimostrare nei propri confronti, e nei confronti dei propri colleghi, lo stesso rigore di giudizio che tendono in genere ad esprimere, come cittadini e utenti, nei confronti del personale di altre amministrazioni pubbliche.
3. – Non mancano i segnali di un rapporto con il pubblico divenuto sempre più difficile negli ultimi tempi, in corrispondenza, verosimilmente, con l’acuirsi della crisi economica e con l’aumento della diffidenza dei cittadini verso tutto ciò che è amministrazione pubblica. Specie in questo clima, la nostra credibilità può essere seriamente incrinata da comportamenti che possono trasmettere all’interlocutore un segnale di scarsa attenzione. Il catalogo è presto detto: fornire informazioni magari giuste, ma in modo incomprensibile; dare indicazioni insufficienti; chiamarsi fuori dal problema (“non dipende da me”); mostrarsi poco sensibili ai disagi del cittadino (“deve tornare un’altra volta”) e così via.
Malgrado la crescente diffusione dei servizi telematici, sono sempre tanti i cittadini che continuano ad accedere di persona in ufficio. Trattarli bene non significa certo dare loro comunque ragione: un avviso 36-bis può essere perfettamente legittimo e perciò in questo caso abbiamo il dovere di difendere l’operato dell’ufficio. Ma allo stesso tempo abbiamo l’obbligo di spiegare pazientemente e in modo comprensibile perché l’ufficio ha ragione.
E’ chiaro che un contribuente esce sollevato dall’ufficio solo se il suo problema viene risolto e la pretesa tributaria annullata. Ma c’è una soddisfazione cui ha comunque diritto, ed è quella di essere anzitutto messo in grado di capire “cosa vogliono questi delle tasse”.
Ho raccolto alcune testimonianze di colleghi che lamentano un atteggiamento a loro dire “prevenuto” da parte dei contribuenti. Mi chiedo se sia veramente questo l’approccio giusto. Se il contribuente ha ricevuto un avviso, una cartella o una richiesta e appare subito chiaro che non ne ha compreso i motivi, dobbiamo riflettere se non possa avere qualche ragione ad essere contrariato, tanto più se ha dovuto prendere un permesso al lavoro o fare una coda di ore o se, quando era il suo turno, il nostro sistema informatico si è bloccato. Chi sta al front office rappresenta – è un compito gravoso, ne sono consapevole – l’intera Agenzia e si fa carico di tutte le colpe, vere o presunte, dell’organizzazione. C’è da sottolineare, però, un altro fatto importante, e anche su questo mi arrivano di continuo tante testimonianze: se rispondiamo con professionalità, gli utenti non se ne vanno via certo contenti, specialmente se devono pagare, ma sicuramente ci rispettano molto di più di quando erano entrati in ufficio.
4. – Abbiamo alle spalle una lunga storia, di cui è bene, specie nei tornanti più critici, ravvivare sempre la memoria, per evitare gli errori del passato, resistere allo scoramento indotto talvolta dalle difficoltà della situazione presente e sostenere la speranza del futuro.
C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui l’attività di sportello era addirittura vista come una penalizzazione professionale, e infatti nei vecchi uffici i servizi di assistenza e informazione erano inesistenti o, comunque, minimali; essere assegnati allo sportello era considerata quasi una punizione o, quantomeno, una deminutio sul piano lavorativo. Con gli uffici unici delle entrate, abbiamo dato, quindici anni fa, un segnale forte di cambiamento, perché il front-office è diventato il biglietto da visita dell’ufficio, le ore di apertura al pubblico sono aumentate, l’ambiente è diventato molto più confortevole. Esiste un breve filmato girato all’epoca (era il 2000, un anno prima dell’avvio dell’Agenzia), che mette a confronto i vecchi uffici delle imposte dirette e del registro di Roma (quelli “storici” di via della Conciliazione e via Plinio) e uno dei nostri nuovi uffici: consiglio ai nostri giovani colleghi, se non lo hanno mai fatto, di vedere questo filmato – sarà per loro una sorpresa – e ai meno giovani di rivederlo, per un utile ripasso di “come eravamo” (e non vogliamo tornare ad essere).
Dato per assunto il salto di qualità reso possibile dal nuovo modello organizzativo, dietro deve però sempre esserci – affinché sia e rimanga un modello pienamente funzionale non solo sulla carta – un rapporto quotidiano e continuo di leale collaborazione con i cittadini. Chi viene allo sportello evidentemente ha un problema, e di questo problema dobbiamo farci carico. E sappiamo come farlo. E’ ciò che apprendiamo di continuo da tanti nostri colleghi nel loro difficile lavoro quotidiano: se il problema non esiste e si tratta solo di un malinteso, evitano di mostrare insofferenza, come se chi sta loro di fronte, stesse lì solo per farci perdere tempo; se invece la questione è complessa, cercano di spiegarla nel modo più chiaro possibile; se la cosa non è di loro competenza, provvedono con cura a indirizzare l’interessato all’interlocutore giusto; se l’ufficio ha ragione, adottano un atteggiamento fermo ma cortese; se nelle carte c’è un’imprecisione formale, non mandano subito via il contribuente, liquidandolo con la frase di rito: “Mi dispiace, non posso farci niente”, ma si sforzano di vedere se è possibile rimediare sul momento.
5. – In questa grande opera nella quale siamo impegnati – la costruzione del rapporto di fiducia tra Stato e cittadini – c’è una regola semplice che può far capire, anzi “sentire”, immediatamente ciò che ogni volta è giusto fare. E’ una sorta di versione amministrativa della golden rule, la regola aurea radicata nella nostra tradizione, e nella quale siamo stati tutti educati. Nel nostro caso questa regola suona così: come riterreste giusto e ragionevole che i funzionari del fisco si comportassero con voi quando siete voi i contribuenti? Riterreste o no giusto e ragionevole che vi ascoltassero con attenzione considerando seriamente il vostro punto di vista?
La golden rule è una regola metagiuridica, ma il campo cui ci stiamo riferendo – le modalità della prestazione di lavoro – è governato anche da cogenti regole giuridiche. Una di queste condensa – con la sinteticità icastica tipica dell’antica tradizione romanistica, che pure è alla base della nostra cultura – uno dei requisiti qualitativi essenziali della prestazione lavorativa. Si tratta di un criterio assai rilevante di valutazione dell’attività prestata dal lavoratore, che il codice civile definisce in modo molto preciso. E’ quello della “diligenza del buon padre di famiglia”, formulato dall’art. 1176 c.c. Questa norma impone di dedicare alle proprie mansioni lo stesso impegno e le stesse attenzioni che dedichiamo quotidianamente alle cure della nostra famiglia.
Il senatore Pietro Ichino, che ho personalmente incontrato dopo la pubblicazione della lettera con cui ha voluto raccontare, come lui stesso le ha definite, “le disavventure di un cittadino che vuol pagare le tasse”, mi ha fatto osservare – con la competenza propria di un giuslavorista assai autorevole qual egli è – che il criterio della “diligenza del buon padre di famiglia” non è fattuale, ma prescrittivo. Questo significa due cose. In primo luogo, la norma non parla di “diligenza del padre di famiglia”, ma di “diligenza del buon padre di famiglia”. In altre parole, il criterio obbliga a riservare agli utenti di un servizio pubblico un trattamento migliore di quello riservato ai propri figli, quando non si ha di fatto nei loro riguardi il comportamento proprio di un buon genitore.
In secondo luogo, il criterio cui ci stiamo riferendo impone che la diligenza di chi nel contratto deduce la propria attività professionale venga valutata anche “con riguardo alla natura” dell’attività stessa: non basta, dunque, che il lavoratore svolga la propria prestazione con lo stesso impegno con cui un genitore buono e avveduto si occupa normalmente, in casa propria, degli interessi della propria famiglia, ma occorre altresì che egli applichi la perizia necessaria affinché il lavoro sia eseguito secondo lo standard di perfezione che normalmente si richiede a chi svolge professionalmente la stessa attività. Alla stregua di tale criterio, dall’addetto a compiti di servizio si richiede una cura particolare nel rapporto con l’interlocutore, che comporta cortesia, disponibilità al colloquio e alle spiegazioni necessarie, ricerca attenta di sintonia, in misura superiore a quanto si può chiedere a una persona qualsiasi. Naturalmente, il criterio vale per tutti i ruoli organizzativi coinvolti in questa funzione e per l’intera catena di comando che ha il compito di assicurarne il corretto svolgimento.
6. – L’attività di servizio ai contribuenti è un lavoro di grande rilevanza e ci affida, quindi, una grande responsabilità. Sta a noi, nelle condizioni date, esercitarla al meglio. Fra queste condizioni è determinante la capacità dei dirigenti di organizzare in modo flessibile i servizi, sviluppando progressivamente il livello di polifunzionalità dei colleghi allo sportello; altrettanto importante è la presenza continua dei direttori nel guidare, supportare e ascoltare i collaboratori impegnati nelle delicate attività di contatto con i contribuenti e i loro problemi. Le indicazioni contenute in questa nota, e che ho tratto dalle migliori prassi dei nostri colleghi, dovrebbero perciò costituire materia di riflessione anzitutto per i dirigenti. Mi aspetto che ne traggano spunto per iniziative di miglioramento appropriate alla specificità delle situazioni in cui ognuno di essi si trova ad operare nella conduzione dei servizi cui è preposto.
Buon lavoro e auguri a tutti di buone ferie e di un sereno ferragosto.
IL DIRETTORE DELL’AGENZIA
Attilio Befera