L’ESIGUITÀ DEGLI INCENTIVI ECONOMICI AVREBBE POTUTO ESSERE COMPENSATA CON L’ELIMINAZIONE O ALMENO LA RIDUZIONE DEI DISINCENTIVI NORMATIVI, CHE INVECE È STATA RINVIATA
Intervento svolto in Senato nella sessione pomeridiana del 24 luglio 2013, nel corso della discussione generale sul disegno di legge di conversione del decreto-legge 28 giugno 2013 n. 76
Signor Presidente, signor Sottosegretario, Colleghi,
ci accingiamo a esaminare un decreto-legge che, nelle intenzioni del Governo e di tutta la maggioranza, dovrebbe ridare ossigeno a un mercato del lavoro infartuato. Qualche beneficio effettivamente ne verrà per l’occupazione: le nuove norme in materia di contratto a termine favoriranno certamente una maggiore fluidità dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro; l’azzeramento del costo contributivo per il lavoro giovanile migliorerà i conti delle aziende che stanno assumendo in questa fascia di età (anche se difficilmente incoraggerà altre aziende a fare altrettanto nel prossimo futuro, dal momento che la provvista è destinata a esaurirsi troppo presto, e chi tardi arriverà non potrà goderne). Ma credo che tutti, in questo emiciclo, concordino nel ritenere, anche se non tutti nel dire apertamente, che questi benefici sono e si confermeranno davvero di entità troppo ridotta rispetto alla gravità della crisi che il nostro mercato del lavoro sta attraversando.
Le nostre imprese stanno operando in una congiuntura di estrema incertezza riguardo al futuro prossimo. Incertezza riguardo a se e quando ci sarà l’inversione di tendenza, l’uscita dalla recessione; incertezza circa le tendenze in atto nelle economie di colossi mondiali come la Cina e l’India; preoccupazione perfino sul futuro del sistema economico-monetario continentale di cui facciamo parte. Chi assume una persona oggi è molto più incerto di quanto lo fosse dieci anni or sono sul punto se il lavoro da far fare a quella persona tra un anno o due ci sarà ancora oppure no. La legge Fornero entrata in vigore proprio un anno fa ha avuto il merito niente affatto secondario di stabilire sostanzialmente una “tariffa” per il licenziamento individuale dettato da motivi economici: da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione; ma anche il costo minimo, 12 mensilità, per lo scioglimento del rapporto a uno o due anni dalla sua costituzione comporta un aumento tra il 50 e il 100 per cento del costo retributivo complessivo del rapporto. Si può ben comprendere che gli imprenditori siano molto riluttanti a correre questo rischio, anche quando avrebbero bisogno di aumentare gli organici. Così come si può ben comprendere che due anni fa la Banca Centrale Europea, impegnata nel salvataggio del nostro debito pubblico, ci abbia chiesto uno spostamento della protezione del lavoratore dalla sicurezza nel rapporto, con alto costo di separazione, alla sicurezza nel mercato del lavoro.
L’alto costo di separazione è proprio quello che Marco Biagi chiamava il “disincentivo normativo” alla costituzione di rapporti di lavoro regolari a tempo indeterminato: un disincentivo il cui effetto è ingigantito dall’incertezza mortale che caratterizza la congiuntura attuale. Ed è proprio qui che noi oggi dovremmo intervenire per facilitare le assunzioni, anche soltanto con un provvedimento di carattere congiunturale, sperimentale, di portata limitata al tempo necessario per uscire dal tunnel della crisi. Dovremmo dire agli imprenditori: “finché non saremo fuori dalla recessione, assumete pure tutti i lavoratori che vi servono, senza preoccupazione per il prossimo futuro: per due o tre anni, se le cose andranno male vi sarà consentito sciogliere questi rapporti senza rischi giudiziali, con un costo di separazione di modesta entità e predeterminato”. Questo sì che darebbe una boccata d’ossigeno tonificante a tutto il mercato del lavoro! E questa sarebbe una misura a costo zero per l’Erario, che potremmo adottare senza le angustie in cui abbiamo dovuto costringere l’incentivo economico previsto dal decreto in esame per le assunzioni di giovani. Offerto con tanta – e pur giustificata – austerità, difficilmente questo incentivo economico indurrà centinaia di migliaia di imprenditori a procedere all’assunzione di cui avrebbero bisogno con un contratto a tempo indeterminato, se temono che la situazione possa cambiare in peggio nel giro di uno o due anni; avrebbe un impatto tonificante sul nostro mercato del lavoro enormemente più ampio e più forte l’introduzione sperimentale di un rapporto di lavoro caratterizzato dal basso costo di separazione nei suoi primi anni di svolgimento, ma pur sempre rapporto a tempo indeterminato, e con una protezione della stabilità gradualmente crescente con il crescere dell’anzianità di servizio.
Che cosa ci trattiene dall’adottare – ripeto: in via sperimentale e con effetti limitati alla terribile congiuntura che il Paese sta attraversando – questa misura ragionevolissima e a costo zero? Non certo la preoccupazione di privare i giovani della prospettiva di un rapporto di lavoro più stabile: oggi, in una situazione in cui il Paese sta perdendo 30.000 posti di lavoro al mese (mille al giorno!) e in cui la disoccupazione giovanile è quasi al 40 per cento, a 99 giovani su 100 parrebbe di toccare il cielo con un dito, se per un triennio si offrisse loro la possibilità di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato così regolato. L’argomento che ci viene opposto dai sostenitori dell’immodificabilità della vecchia protezione della stabilità del lavoro, e che oggi ci trattiene dall’adottare questa misura sperimentale, è uno solo: quello del “piano inclinato”. Non si può toccare, neanche sperimentalmente, la protezione della stabilità del lavoro, perché si sa dove si incomincia ma non si sa dove si va a finire. Questo è l’unico argomento contrario, che nei giorni scorsi ci siamo sentiti ripetere, qui in Parlamento e fuori, dai colleghi e dai militanti del partito democratico, da sindacalisti di diversi orientamenti. Ricordo loro che, da che mondo è mondo, l’argomento del piano inclinato, della slippery slope, è il cavallo di battaglia non dei progressisti, ma dei conservatori di ogni credo e di ogni osservanza. Da che mondo è mondo, invece, è proprio di chi lavora per il progresso, in tutti i campi, il metodo sperimentale: si prova, si vede che cosa accade, se i risultati sono insoddisfacenti si cambia strada, altrimenti si consolida e si generalizza ciò che si è sperimentato. È con questo metodo pragmatico del try and go, non con le contrapposizioni ideologiche, che riusciremo a cambiar volto a questo nostro mercato del lavoro asfittico e ingessato.
A dire il vero, all’inizio del dibattito in Commissione avevamo avuto l’impressione che qualche cosa si stesse smuovendo, su questo terreno, nel partito democratico. Ci aveva dato questa speranza un emendamento presentato dalla collega Ghedini, che prevedeva in via sperimentale e congiunturale una sostanziale liberalizzazione del contratto a termine nei primi trentasei mesi di rapporto tra l’impresa e il lavoratore. Era una apertura strana: perché in quel modo, per non toccare una virgola della disciplina del contratto a tempo indeterminato, si sarebbe prodotto l’effetto di rendere assolutamente normale l’assunzione a termine. Lo ho rilevato nel dibattito in Commissione, osservando che, in omaggio al divieto di toccare, sia pure marginalmente, la disciplina del licenziamento il partito democratico appariva disposto addirittura a far sì che il contratto a tempo indeterminato sparisse del tutto almeno nei primi tre anni di rapporto tra un’impresa e un lavoratore. Ma – ancorché fosse per questo aspetto paradossale – sarebbe stata comunque una misura utile nella situazione gravissima in cui ci troviamo. Senonché anche quella timida apertura si è poi persa per strada.
Il ministro del Lavoro ha rinviato l’intervento su questa materia a settembre, auspicando un avviso comune delle parti sociali. Scelta, questa, che sembra corrispondere all’appello del segretario della Cisl Bonanni, affinché il compito di correggere le rigidità del nostro diritto del lavoro sia lasciato alle parti sociali. L’auspicio è che il sistema delle relazioni industriali sappia superare le difficoltà che gli hanno impedito in questi ultimi due anni di esercitare le proprie prerogative su questo terreno; ma deve essere chiaro che, se anche a settembre dovesse registrarsi un nulla di fatto sul terreno dell’intesa tra le parti sociali, non potrà essere ulteriormente rinviata l’opera di semplificazione normativa e di rimozione dei disincentivi normativi all’assunzione a tempo indeterminato. Su questo punto chiediamo – anche con un ordine del giorno presentato all’articolo 1 del decreto – al Governo un impegno preciso.
A questo proposito va detto che una grave emergenza nell’emergenza è costituita dalle centinaia di migliaia rapporti di collaborazione qualificata come autonoma, ma in realtà di lavoro dipendente, dei quali la legge Fornero richiede giustamente la migrazione nell’area del lavoro subordinato regolare. Il problema nasce dal fatto che la legge Fornero ha fatto il lavoro soltanto a metà, conferendo efficacia alle regole poste in questa materia dalla legge Biagi, ma non delineando, sull’altro versante, un rapporto di lavoro sufficientemente flessibile, sottratto alle bardature normative eccessive, per poter accogliere in modo universale tutto il grande mondo del lavoro dipendente. Oggi la migrazione dall’area della collaborazione autonoma a quella del lavoro subordinato determina un aumento di costo per l’impresa, a parità di retribuzione oraria lorda, tra il 40 e il 50 per cento, oltre a tutta la maggior rigidità che caratterizza l’area del lavoro subordinato rispetto a quella del lavoro autonomo. Così stando le cose, è evidente che ci troviamo davanti a un bivio: o torniamo indietro, alla palude del dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro, abrogando o sospendendo le norme di contrasto all’abuso delle collaborazioni autonome contenute nella legge Fornero, oppure di quella legge portiamo a compimento il progetto, mettendo a disposizione di lavoratori e imprese – almeno in via sperimentale – un rapporto di lavoro subordinato che non comporti lo shock economico e normativo di cui si è detto. A questo tendono gli emendamenti sull’azzeramento dell’impatto del costo del lavoro sull’Irap e sulla riduzione drastica del costo di cessazione del rapporto a tempo indeterminato nella sua fase iniziale, che abbiamo presentato in Commissione, ma che hanno dovuto essere ritirati di fronte alla determinazione contraria che ci è stata opposta.
Completare l’opera avviata con la legge del luglio 2011, oppure tornare indietro: questa è l’alternativa di fronte alla quale ci troviamo, la scelta che dobbiamo compiere, se vogliamo risolvere l’emergenza di quelle centinaia di migliaia di collaborazioni false-autonome. Questa è la scelta che oggi, con questo decreto, noi non compiamo. Non la compiamo, perché siamo paralizzati dal tabù dell’intangibilità della disciplina del rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato. Peccato: è un’occasione persa. La speranza è che, almeno, il dibattito apertosi in questa occasione ci aiuti a non perdere anche la prossima occasione, ammesso che ce ne si offra in tempo utile.
Un’ultima notazione: questa legge nasce ancora sotto il segno della complicazione e della illeggibilità per la grande platea di coloro che sono chiamati ad applicarla. È tutta scritta dagli addetti ai lavori in un linguaggio astruso, infarcito di riferimenti ad altre leggi, che solo dagli addetti stessi è comprensibile (perfettamente in linea, per questo aspetto, con i precedenti del Collegato Lavoro del 2010 e della legge Fornero del 2012). Questo non può non costituire un pregiudizio grave per l’effettività della legge stessa: una norma che per essere capita richiede il consulente non può avere la virtù di influire direttamente sulla cultura e sul comportamento di milioni, anzi decine di milioni di persone.
Anche l’estrema complicazione della nostra legislazione in materia di lavoro – e non soltanto il suo contenuto vetusto – costituisce uno dei problemi maggiori per il funzionamento del nostro mercato del lavoro, per la sua trasparenza, per la sua apertura all’imprenditoria straniera, di cui tanto il nostro Paese avrebbe bisogno. Su questo, come su diversi altri capitoli politico-programmatici, chiediamo al Governo Letta nel prossimo futuro un colpo di reni. Gli chiediamo il coraggio di progettare un diritto del lavoro chiaro, incisivo e leggero al tempo stesso, capace di ridurre e non di aumentare i costi di transazione tra imprese e lavoratori, capace nella sua semplicità di essere veramente universale. Un diritto del lavoro capace di parlare non soltanto a consulenti e sindacalisti, ma direttamente a imprenditori e lavoratori che hanno diritto di non saperne niente; non soltanto agli insiders, ma anche e soprattutto agli outsiders; non soltanto alle vecchie generazioni, ma anche e soprattutto alle nuove.
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