LA SENTENZA COSTITUZIONALE DETTA UNA NUOVA REGOLA SOLO APPARENTEMENTE INNOVATIVA: GLI EFFETTI PRATICI SONO PRESSOCHÉ NULLI – È COMUNQUE NECESSARIO UN INTERVENTO LEGISLATIVO
Commento alla sentenza della Corte costituzionale 23 luglio 2013 n. 231, pubblicato su Linkiesta il giorno successivo – In argomento v. anche la mia intervista del 4 luglio scorso pubblicata su la Repubblica
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La motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 231, depositata ieri, conferma i motivi di perplessità espressi tre settimane fa, nell’immediatezza della pubblicazione del dispositivo della stessa sentenza. Questa decisione ha una caratteristica molto particolare: fotografa un caso appartenente al passato e al presente – quello dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco – e detta una nuova regola ad esso applicabile, direi quasi ritagliata su misura per quel caso; ma, per i casi futuri quella stessa regola appare intrinsecamente inapplicabile. Vediamo perché.
In riferimento al caso Fiat, la Corte afferma che: a) la rappresentatività della Fiom è sul piano storico evidente, essendo desumibile dalla sua partecipazione alla fase iniziale della negoziazione aziendale; b) l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal referendum del 1995, indubitabilmente nega alla Fiom l’accesso ai diritti di cui al titolo III dello Statuto stesso, sulla base del solo fatto che questo sindacato non ha sottoscritto alcun contratto collettivo applicabile nell’azienda; c) che pertanto la norma, pur ripetutamente giudicata costituzionalmente legittima in precedenti sentenze, “nell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali” deve considerarsi illegittima, proprio per il fatto che la Fiom ne risulta penalizzata nel caso specifico di Pomigliano. Ora, un ragionamento di questo genere, contenuto in una sentenza di illegittimità costituzionale che modifica il contenuto di una norma legislativa, dovrebbe essere applicabile alla generalità dei casi analoghi in prospettiva futura; ma questo è proprio ciò che non potrà accadere, perché il criterio della “partecipazione al negoziato” è un criterio destinato, dopo questa sentenza, a risultare di fatto inapplicabile.
I casi sono, infatti, due. Se si intende il criterio enunciato dalla Corte nel senso che a un qualsiasi sindacato, per essere qualificato come “partecipante al negoziato”, basti presentare una piattaforma rivendicativa, allora il risultato è che quel criterio perde qualsiasi valore selettivo: anche il più insignificante dei sindacati, infatti, potrà accedere ai diritti di cui al titolo III dello Statuto col semplice presentare una propria proposta/richiesta all’imprenditore. Se invece si intende il criterio enunciato dalla Corte nel senso che non basti la presentazione di una piattaforma rivendicativa, ma occorra anche un’effettiva partecipazione al tavolo del negoziato, allora la sentenza perde ogni effetto pratico apprezzabile, lasciando sostanzialmente le cose come stanno: all’imprenditore basterà, infatti, respingere in limine la rivendicazione, rifiutando anche solo l’inizio di una discussione in proposito, per escludere quel sindacato – per quanto numerosi siano i suoi aderenti o sostenitori in seno all’azienda – dai diritti di cui al titolo III dello Statuto.
La sentenza della Consulta ha dunque un unico effetto pratico apprezzabile: quello di indirizzare al Parlamento un segnale forte nel senso della necessità urgente di una riforma legislativa della materia. È quanto sostengo dall’inizio della XVI legislatura; ed è il motivo per cui proprio oggi ho ripresentato il disegno di legge già presentato nel 2009, mirato a garantire alla coalizione sindacale maggioritaria il diritto di negoziare con efficacia vincolante per tutti, nell’ambito di applicazione del contratto, e al sindacato minoritario il diritto di rifiutare la propria firma sull’accordo, ma anche il dovere di rispettare il contenuto del contratto stipulato dalla maggioranza.
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