NELLA SITUAZIONE ATTUALE DI GRAVISSIMA CRISI E INCERTEZZA SUL FUTURO ANCHE PROSSIMO, LA DISCIPLINA RESTRITTIVA DELLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO (PUR DOPO L’ATTENUAZIONE DISPOSTA DALLA LEGGE FORNERO) DETERMINA UN OSTACOLO GRAVE AL FUNZIONAMENTO DEL MERCATO DEL LAVORO E ALL’EFFICIENZA DELLE IMPRESE
Articolo di Edoardo Narduzzi pubblicato su Italia Oggi il 18 giugno 2013
Il governo di larghe intese si è ben guardato dal metterlo nel suo programma di riforme. Nonostante la disoccupazione giovanile veleggi intorno al 40%, la produttività sia da ultimi della classe nell’eurozona e nell’Ocse, la recessione sia quasi senza fine e nonostante le tante riforme già varate dagli altri paesi in crisi della Ue, tutto ciò nonostante neppure un governo di grande coalizione è in grado di affrontare e riformare la legislazione in uscita dal mercato del lavoro.
Eppure l’anomalia italica, già evidente nel 2007, è oggi post crisi un’abnormità globale. «Nel resto del mondo gli uffici delle risorse umane svolgono due funzioni chiave per la competitività delle aziende: hiring and firing (assumere e licenziare). Solo in Italia, invece, la loro funzione è diversa: hiring and retiring (assumere e pensionare)», mi faceva notare qualche tempo fa un manager olandese disorientato dalla specificità giuslavoristica italiana. Ormai l’art. 18 e tutto ciò che lo riguarda appaiono come un qualcosa di inspiegabile anche agli occhi dei molti welfaristi e socialisti olandesi o scandinavi. Un lusso di un paese che non vuole prendere atto che il mondo è cambiato e che rifiuta di accettare il fatto che, per conservare più posti di lavoro possibili e crearne molti nuovi, le imprese devono essere messe nella condizione di decidere e di agire nella gestione del capitale umano. Pena un’economia ristagnante, una bassa produttività, una protezione eccessiva a vantaggio di chi è meno produttivo e a svantaggio di chi potrebbe invece offrire molto.
Attraversare una crisi tanto profonda con gli attuali vincoli del mercato del lavoro condanna senza appello la competitività italiana. I capitali esteri non arrivano e le imprese domestiche non possono riorganizzare con la necessaria profondità la loro struttura produttiva. Significa anche sprecare l’opportunità riformista offerta dalla crisi e continuare a illudersi che, nel mercato globale contemporaneo, esista la possibilità di stabilizzare per legge il lavoro. Vuol dire condannare la produttività a restare scarsa, perché un lavoratore il cui posto è contendibile è sicuramente più produttivo di uno «assicurato» dall’art. 18 e perché sono i lavoratori più giovani, quelli in Italia lasciati ai margini del mercato, che sanno e possono usare al meglio le nuove tecnologie, cioè quelle che accrescono la produttività media aziendale.
Gli appelli ad affrontare l’emergenza lavoro si susseguono ogni giorno, ma la consapevolezza che l’anomalia legislativa italiana vada quasi rivoluzionata non c’è. Il risultato sarà una crescente disoccupazione di massa con imprese costrette a chiudere per andare all’estero a produrre, come ha appena annunciato la Natuzzi, perché impossibilitate a sani licenziamenti domestici.
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