ALLE RADICI DEI DIFETTI DEL NOSTRO SISTEMA PENSIONISTICO UNA CULTURA SOSTANZIALMENTE ASSISTENZIALISTICA
Articolo di Giuliano Cazzola, responsabile nazionale per il Welfare di Scelta Civica, pubblicato su Mondoperaio, maggio 2013
“Non dovremmo aspettarci che lo Stato appaia come una fatina bizzarra ad ogni battesimo, come un compagno loquace ad ogni passo del cammino della vita e come uno sconosciuto in lutto ad ogni funerale”. Con queste parole Margaret Thatcher liquidava, da par suo, il principio per cui il welfare state avrebbe dovuto assistere il cittadino “dalla culla alla tomba”. In queste ultime settimane, dopo la morte della statista inglese, si è discusso a lungo della sua eredità politica, per arrivare a concludere che, negli 11 anni di governo, la sua azione ha contribuito a cambiare la cultura della sinistra prima ancora di quella della destra. Questa trasformazione è avvenuta anche in Italia ? Saremmo orientati ad esprimere dei forti dubbi. Senza la Thatcher non ci sarebbe mai stato il New Labour (per altro parecchio in difficoltà). Poiché in Italia abbiamo avuto solo Silvio Berlusconi che, per quanti sforzi faccia, non riuscirà mai a liberarsi dall’indole naturale di <piacione>, la sinistra si è limitata a cambiare soltanto nome, conservando inalterati gli idola tribus del suo patrimonio genetico. Tra i capisaldi di questa tradizionale cultura troneggiano le pensioni, che, con il passare del tempo e dopo la caduta dei Muri, sono diventate la “via individuale” al socialismo. Prendiamo il caso dei c.d. esodati. Dopo aver interessato le Commissioni speciali provvisoriamente istituite nelle due Camere, questo tormentone è approdato al Quirinale ed ha trovato posto nel documento dei Saggi, come priorità da affrontare e risolvere al più presto. Immaginiamo che i “facilitatori”, scelti dal Presidente Napolitano, fossero informati del fatto che, nella trascorsa legislatura, governo e Parlamento avevano preservato la possibilità di andare in pensione sulla base dei requisiti previgenti , a favore della grande maggioranza – nel numero di 130mila – di coloro che si troveranno ad essere privi di copertura nel 2013 e nel 2014, stanziando a tal proposito 9,2 miliardi a regime. Oltre a ciò, nella legge di stabilità per l’anno in corso è stato istituito (con un nuovo apporto di 100 milioni) un apposito Fondo, da rifinanziare negli anni a venire sia con gli eventuali risparmi di gestione sia con nuove risorse, allo scopo di allargare le platee interessare e provvedere, sulla base di precisi criteri, ai casi futuri, dal 2015 in poi. Sinceramente, è difficile comprendere perché, a fronte di meccanismi di salvaguardia così definiti, la questione dei c.d. esodati debba essere considerata una sorta di emergenza nazionale da sistemare (senza alcuna indicazione di copertura finanziaria) una volta per tutte anziché in modo graduale, a ridosso delle diverse scadenze. Eppure la spiegazione è semplice: il problema si è trasformato in un evento mediatico che ha travolto la politica ormai imbelle e rinunciataria. Esodato: basta la parola. Lo si è visto in occasione della tragedia di Civitanova Marche: non ci sarebbe stato tanto clamore se i media avessero scritto che a suicidarsi, insieme ai suoi cari, era stato un artigiano edile. Tanto che un solerte sindacalista – quando si è scoperta la verità – ha inventato addirittura una nuova categoria: gli esodati dal mercato del lavoro. Sia chiaro, per come si sono messe le cose, credo che il problema meriti una particolare attenzione, perché è vero che una riforma poco attenta ai problemi della transizione come quella del ministro Fornero, ha creato delle situazioni oggettivamente difficili per tante persone e le loro famiglie. Per quanto mi riguarda – anche se sono stato spesso preso di mira dai comitati degli esodati sul web perché non mi sono mai prestato a promettere loro quanto mi sembrava impossibile ottenere – ho la coscienza a posto per aver preso parte (nella mia attività di vice presidente della Commissione Lavoro della Camera) alla costruzione di quell’impianto di garanzie prima descritto. Sulla base di questa esperienza mi sono convinto dell’opportunità di una correzione di carattere strutturale della riforma nel senso di una maggiore gradualità e flessibilità, anziché proseguire sulla impervia e non risolutiva via delle deroghe. Non avrebbe molto senso, infatti, difendere ad oltranza la facciata della riforma più severa in Europa nello stesso momento in cui si moltiplicassero le uscite di sicurezza per anni e per centinaia di migliaia di soggetti. Tutto ciò premesso, però, alcune precisazioni sono necessarie. Va detto, innanzi tutto, che lo Stato non ha mai stipulato un patto con gli esodati e quindi non lo ha neppure violato. L’accordo di esodo lo hanno negoziato loro stessi (o un sindacato per loro conto) con un datore di lavoro prendendo a riferimento – per calcolare l’entità dell’incentivo alla risoluzione consensuale del rapporto – il tempo rimanente all’accesso alla pensione (quasi sempre di anzianità). E lo hanno fatto in un periodo in cui le regole del pensionamento sono cambiate praticamente ad ogni anno. E’ inaccettabile che da parte degli interessati ci sia il rifiuto di qualsiasi assunzione di rischio e di responsabilità per aver compiuto delle scelte in modo condiviso. Certo, il lavoratore è sempre la parte più debole e le situazioni personali non sono mai riconducibili ad un’unica fattispecie. C’è differenza tra l’ambito di autonomia di cui può avvalersi il dipendente di una piccola impresa o uno dell’Enel, delle Poste o di qualche altra azienda pubblica o privata. E’ comprensibile, poi, che gli esodati e le altre categorie di aspiranti alla salvaguardia, abbiano dei seri problemi ed esprimano – spesso con toni ‘’grillini’’ – delle preoccupazioni fondate, in un contesto in cui le pensioni sono sempre state, fino ad oggi, il passepartout per risolvere tutte le situazioni critiche del mercato del lavoro nelle diverse fasi storiche dell’Italia. Ma perché il Paese vada avanti è giusto che sia spezzato il circuito perverso che, partendo dalla cassa integrazione e passando per la mobilità (o attraverso un’extraliquidazione), arriva direttamente alla pensione. Questa è la saldatura essenziale tra la riforma delle pensioni a quella degli ammortizzatori sociali; qui sta il salto di qualità per lasciarsi alle spalle l’Italia degli accomodamenti a spese della collettività ed aprire la strada verso un modello sociale in cui coloro che perdono il lavoro in età matura abbiano la chance di nuove opportunità di impiego. Certo, una scelta siffatta produce degli effetti collaterali a cui occorre provvedere con equità. Senza ripristinare, però, l’ancien régime del pensionamento facile, quale <vendicatore mascherato> incaricato di sanare tutti i torti che una persona crede di aver subito nella vita.
Dopo l’ouverture sugli esodati ecco che l’orchestra del Teatrino della politica ha affrontato la sinfonia delle pensioni inadeguate e degli anziani sofferenti e vilipesi. L’Istat, per l’ennesima volta, ci racconta che il 44% dei pensionati percepisce una prestazione inferiore a mille euro mensili (e quindi non è sottoposta – almeno – al taglio dell’indennità di rivalutazione che opera su trattamenti più elevati). Nel fornire queste cifre l’Istituto di statistica almeno tiene conto di un aspetto solitamente non considerato quando si parla di pensioni con la sintesi del linguaggio televisivo: guai a confondere pensioni e pensionati. Le prime sono, nel complesso, circa 23 milioni, i secondi 16,5 milioni. Ciò significa che un numero significativo di prestazioni di carattere monetario (più di 6 milioni) viene redistribuito sulla medesima platea. Pertanto, una quota importante di anziani percepisce due o più pensioni; quindi è corretto fornire il dato cumulato, peraltro a disposizione nel Casellario delle pensioni presso l’Inps. Il caso è più frequente nelle donne, che sopravvivono ai loro mariti e che pertanto aggiungono al loro trattamento anche quello di reversibilità. Questa delucidazione ne richiama subito un’altra. Quando si fanno le medie, di solito non si distingue tra le diverse tipologie di pensione. Così ad abbassarne il valore contribuiscono i trattamenti di invalidità e di reversibilità che sono – per tanti motivi, anche normativi – di importo più modesto. Se si considerassero separatamente le pensioni di vecchiaia e, soprattutto, quelle di anzianità vi sarebbero livelli medi sicuramente più elevati. Tutto ciò premesso è bene svolgere una considerazione di carattere più generale. Solitamente, quando giornali e tv sparano dei dati sulle pensioni (riconosciamo che in ogni caso non c’è da stare allegri) danno l’impressione di ritenere che, nell’ultima fase della vita delle persone, lo Stato si trasformi in una buona fatina che assicura agli anziani un trattamento corrispondente ai loro bisogni, a prescindere dalla posizione previdenziale che essi sono stati in grado di predisporre durante la vita attiva. Le pensioni sono condizionate, da un lato, dalle retribuzioni dei lavoratori attivi, che, nel modello di finanziamento a ripartizione, fanno fronte con i loro versamenti contributivi ai relativi oneri dello stock dei trattamenti in essere. Non è immaginabile, allora, che una persona migliori la sua condizione economica nel momento in cui smette di lavorare e che dei livelli retributivi medi come quelli erogati in Italia a chi è tuttora nel mercato del lavoro, possano sostenere pensioni di tanto superiori ai mille euro mensili. Dall’altro lato, l’importo della pensione è la conseguenza della storia lavorativa di una persona: a determinarne la qualità non possono essere del tutto escluse le sue responsabilità personali . O collettive di un intero settore. E’ inutile, da questo angolo di visuale, che le organizzazioni agricole lamentino la modestia dei trattamenti riconosciuti agli iscritti della relativa gestione, quando essa è in grado di pagare le pensioni grazie ai robusti apporti di solidarietà (per diversi miliardi all’anno) da parte delle altre gestioni e dei trasferimenti dello Stato. Peraltro, il sistema attuale prevede un intervento di carattere solidaristico a carico della finanza pubblica nell’ordine di 25 miliardi l’anno per garantire l’integrazione al minimo a favore dei milioni di prestazioni che, sulla base del puro calcolo dei contributi versati, non arriverebbero a conseguire neppure il livello minimo legale. Ed è, appunto, questo uno dei fronti di attacco su cui intervenire per correggere le distorsioni dell’attuale sistema contributivo che non ha più al proprio interno alcun meccanismo solidaristico. Per garantire, in futuro, prestazioni pensionistiche più adeguate, va cambiata la struttura stessa del sistema previdenziale, superando uno dei limiti della riforma del 1995 consistente nella mancanza di un istituto rivolto alla solidarietà infragenerazionale, che, nel modello retributivo, era assicurata dall’integrazione al minimo. Occorre orientarsi alla costruzione di un sistema pensionistico pubblico basato su due componenti o “pilastri”, entrambi a carattere obbligatorio: una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, destinata a garantire, sia pure mediante la presenza e la maturazione di alcuni requisiti, a tutti i cittadini anziani prestazioni minime necessarie alle loro esigenze di vita; e una pensione di secondo livello, calcolata secondo il vigente sistema contributivo, volta a garantire prestazioni aggiuntive correlate ai contributi versati dai singoli soggetti nel corso della loro vita.